Andrea
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Le strade sono deserte a quest’ora e trovo rapidamente un posto libero nel parcheggio. Non sarebbe stata la stessa cosa dopo le cinque di sera, per questo ho scelto le 14:00. Staremo tranquilli, non vedremo nessuno che conosciamo e nessuno ci sentirà parlare.

— Ecco, siamo arrivati, puoi uscire.

Andrea mi scruta, sospettoso. Non ha detto niente durante tutto il tragitto.

— Sei sicuro che non potevamo rimanere al Sito?
— No, non potevamo. — gli rispondo. — Uscire un po' fa bene, non credi?

La sua occhiataccia mi fa capire che non è affatto d'accordo. Alzo gli occhi al cielo e gli faccio segno di seguirmi. Attraversiamo la strada ed entriamo nel mio bar preferito, quello in cui ho incontrato Eleonora diciassette anni fa. A quest'ora esso è praticamente deserto, per cui non passa molto tempo prima che un cameriere si avvicini a noi.

— Buongiorno, signori, cosa volete ordinare?

Ordino una birra, quella che Francesco mi ha fatto assaggiare all'Hellfest due mesi fa e che mi era piaciuta così tanto che mi ci sono ubriacato. Fortunatamente, nessuno lo sa ed è meglio cosi; non voglio immaginare cosa sucecderebbe se tutti sapessero che Lorenzo il rompicoglioni rigoroso e bigotto si ubriaca ai festival di metal. Già non ho chissà che reputazione…

— E lei, signore, – chiede il cameriere, — cosa ordina?

Andrea ordina una San Pellegrino. Ci sediamo in un tavolino in terrazza e chiedo un posacenere prima di prendere una sigaretta dal pacchetto che mi sono comprato oggi. Andrea mi guarda, sorpreso.

— Tu fumi?
— Beh, sì. Non lo sapevi?

Lui scuote la testa.

— Non sapevo che bevessi né che fumassi. Non è molto cattolico bere alcool, lo sai?

Ha il suo solito sorrisetto sarcastico, che decido di ignorare. Al lavoro, gli avrei dato uno schiaffo, ma non siamo al lavoro.

— Sì che lo è, caro mio, — rispondo, provando a scuotere l’accendino per farlo funzionare — è il Sangue di Cristo.

L’accendino non funziona. Ne prendo un altro dalla tasca. La sorpresa di Andrea aumenta, lo vedo stupito e mi fa ridere.

— Non mi immaginavi cosi, eh?
— No, devo ammettere di no, — risponde Andrea. — Ti comporti in modo molto diverso rispetto a quando sei a lavoro. Bigotti lo sa?

Scoppio a ridere e mi strozzo con il fumo.

— Oh, mio Dio, no! È l’ultima cosa che quel vecchiaccio di Bigotti deve sapere; sono il rompicoglioni di servizio e deve rimanere cosi.

Andrea aspira la sua San Pellegrino con la cannuccia. Sembra divertirsi a farlo, come un bambino, come i miei figli quando erano piccoli e mi strappa un sorriso.
Come era la mia vita quando avevo la sua età?
Ero al funerale della mia moglie, Donatella, con la mascella frantumata nell’incidente che mi ha reso vedovo e distrutto la mia vita. Mi sono ritrovato da solo con Alice, la mia povera bambina che, a tre anni, si era trovata senza madre e con un braccio paralizzato, e mi ci è voluto un trasferimento a Roma per riprendermi e lasciare dietro di me Trento, ormai associata alla morte di mia moglie. Per stare meglio. Ho ripreso il volontariato in carcere per aiutare i prigionieri a reintegrarsi e per consacrarmi a qualcosa in più oltre a mia figlia.
E poi, la Fondazione. Il Sito Virtus. Il nuovo appartamento. La nuova vita che cercavo disperatamente. E ovviamente, un sostegno inaspettato, alto due metri per 130 kg e tatuaggi dappertutto, che mi ha aiutato a integrarmi ma anche a superare la mia pena. Non potrò mai ringraziarlo abbastanza, quella massa di muscoli sanmarinese, la sua moglie e i loro figli che, sin dal mio arrivo al Virtus, hanno aiutato me e mia figlia. Elia, Serena e la loro madre sono stati per Alice un sostegno fondamentale: Serena è diventata la sua migliore amica, Silvia si è comportata come una madre per lei. E per me, sono stati una seconda famiglia, Francesco è stato un amico, un fratello, una guida, un orecchio attento, mentre Silvia è stata la spalla sulla quale ho pianto diverse volte, un supporto senza il quale non sarei sopravvissuto.

— Sai, odio davvero Bigotti. Merita perfettamente il suo cognome.

Andrea mi fa tornare alla realtà.

— Sai, lo odio anche io.

Almeno abbiamo qualcosa in comune. È odio verso qualcuno ma (purtroppo?) l’odio fa stringere legami.
Ecco perché l’ho portato qui. Qui non c’è gente della Fondazione, non saremo riconosciuti e non perderemo la nostra credibilità. L’ho invitato a prendere una birra per conoscerlo meglio. Per conoscerci meglio. Lo odio in quanto collega, è pretenzioso, arrogante, sadico, senza nessun rispetto per la vita umana. Manca seriamente di empatia e di tatto e i suoi tentativi di fingersi superiore lo fanno sembrare un bimbo alla ricerca d'attenzioni. Quando lo vedo al lavoro, ho l'impressione di vedere il mio figlio di 15 anni che si atteggia a grand'uomo, e quel modo di fare non mi piace da parte di un adulto che ha superato i 30 anni. Spero poter apprezzarlo in quanto essere umano, fuori dal lavoro.

— Ah, tra l'altro, ho saputo che sei diventato nonno.

Divento sdolcinato solo a pensare al piccolo corpo nelle braccia di mia figlia, esausta nel letto dopo il parto. Alle raccomandazioni che ho fatto ad Elia nove mesi prima e che sono quasi state minacce, inutili perché sapevo che Elia ama Alice e che non le farà mai del male.

— Sì. Il 28 giugno. Alice ha avuto un bambino.

Andrea sorride. Di solito, non mostra altro che un cinismo insopportabile e indifferenza verso ogni cosa non lo riguardi. Un mostro senza emozioni. È sorpreso di non vedermi serioso come solitamente sono. Vede che fumo, che bevo birra e che scherzo e ne è sorpreso, ma anche io sono sorpreso a vedere un sorriso sincero sul suo volto, vedere le sue emozioni, vedere che è… sì, che è un essere umano normale. È come tutti noi, in fondo, anche se è difficile ammetterlo, sia per me che per lui.

— Devi esserne contento.
— Tanto, Andrea. Tanto.
— Il fidanzato di tua figlia è il figlio del comandante Galeazzo, giusto?

Annuisco. Non è mai stato un segreto; tutti sanno che Francesco Galeazzo, lo spaccatore di teste, è il mio migliore amico.

— Son contento per te, Lorenzo.

Sospira.

— Vale e Sandro vanno al mare la settimana prossima. Vogliono portarmi con loro ma non ne ho molta voglia.

Bevo la mia birra. So di chi sta parlando e credo siano gli unici amici che ha.

— Dovresti accettare, — rispondo. — Stare chiusi dentro 24 ore al giorno non fa bene.

Mi guarda costernato.

— Ma fai sul serio? — mi chiede con aria quasi stanca. — Pensi davvero che debba sprecare così il mio tempo, io che ho così tanto lavoro da fare? Ma fammi il piacere.

Ordino altro da bere.

— E allora? Una pausa ogni tanto ti farebbe bene, proprio perché lavori così tanto. Rischi di sfibrarti così, te ne rendi conto?
— E quindi? Settimo, io non posso permettermi di fermarmi, ne va di tutto quello che ho creato e che ho a cuore. Se mi fermassi, chi mi assicurerebbe che tutto va come dovrebbe, che tutti fanno il loro dovere, che non ci siano spie, o che qualche ipocrita non decida di prendersela coi miei perché non ci sono io a tenerli a bada? Come se fossimo i soli a commettere crudeltà.

Non posso negarlo. Da quel che so, Costa si vendica sistematicamente sui fascisti che interroga e anche se so perché, non approvo. E Livi è il più grande stronzo che io abbia mai visto sulla terra dopo quel figlio di puttana del Sesto di prima.

— Io non sono come te. La tua autorità è assoluta, che tu ci sia o no. Io invece ho tutto da dimostrare, costantemente, e non è mai abbastanza. Sono impotente e inutile.

Sembra triste. Non l’avevo mai visto così.

— Sei utile quanto me, Andrea. Siamo in disaccordo su quasi tutto ma tutte le Sezioni servono a qualcosa.

Fa spallucce.

— La Sezione, certo, ma io? Odio ammetterlo, ma tu ti sei guadagnato la tua carica e il rispetto dei tuoi pari. Io no.

La sua voce si rompe lievemente quando finisce la frase, e immediatamente abbassa la testa e si lascia sfuggire un sospiro tremante.

— Lorenzo, lo sai che sono l’unico che non merita pienamente questa mansione. Io sono stato dall'altra parte, nelle celle, e forse… forse è lì che sarei dovuto rimanere. Lo so che alla fine non sono che un bambino che si atteggia a grand'uomo. Non ero pronto, non lo sono tutt'ora, e non sai cosa darei perché tornasse lei a riprendere il suo posto.

Gli sorrido e metto una mano sul suo braccio. I suoi occhi si fissano su di me, lucidi e brillanti di lacrime, ed è chiaro che si stia sforzando di non piangere e mantenere un contegno. So quanto questa storia lo distrugga all'interno.

— Tutte le cose che hai fatto per la tua sezione, questo gran reclutamento, questa scala e tutto quanto, di questo devi essere fiero, Andrea. Forse non eri effettivamente la prima scelta, forse molti ti trovano troppo giovane per una tale mansione e su questo sono d’accordo con loro, ma sei stato tu a essere scelto. Non sei fiero delle cose che hai fatto?

Un altro sospiro tremante mi lascia capire che non è d'accordo con me. Devo continuare.

— Forse non sei ancora pronto, ma ormai sei qui e non puoi fare altro che fare il tuo dovere. E dunque, perché non farlo per lei, che ha creduto così tanto in te da affidarti il lavoro di una vita, e di tutti i tuoi sottoposti che si affidano alla tua guida tutti i giorni senza esitazione?

Annuisce.

— Ok…

Si raddrizza e, dopo essersi rapidamente strofinato gli occhi e schiarito la voce, cambia argomento. Lo capisco: Andrea non vuole mai sfogarsi sulla sua vita personale, tiene tutto dentro. Anche io ho fatto lo stesso per anni, fino a quando non ho trovato qualcuno di cui fidarmi. In effetti, ne ho parlato a volte con gli altri Sovrintendenti, ma mai con lui.

— Quindi dici che dovrei divertirmi di più?
La sua voce, che ha recuperato la sua solita nota sicura di sé, mi distoglie dai miei pensieri.

— Dovresti. E, tanto per cominciare, dovresti accettare l’offerta di andare al mare. Le vacanze non fanno mai male, ci sono i tuoi assistenti per fare il tuo lavoro, per interrogare i fascisti dopo che Galeazzo ha spaccato loro la testa e che Costa si è scatenato su di loro. Va al mare, divertiti!

Andrea finisce la sua San Pellegrino con fare pensoso e io mi concedo la mia birra. Pago e andiamo verso la macchina.

— Mi daresti un attimo, devo fare una chiamata.
— Certo, fai pure.

Mentre io entro e accendo la macchina, lui resta fuori e lo vedo estrarre il cellulare. Per un istante si mordicchia il labbro, poi mormora qualcosa tra sé e se lo porta all'orecchio; qualche secondo dopo, il suo interlocutore risponde.

— Ehi, Valeria, sono io. Sì, alla fine mi sono degnato di prendere il telefono, spero che ti senta onorata di- spiritosa. Senti, ma tu e Sandro ci andate ancora al mare la settimana prossima? Alla fine ci ho pensato e, effettivamente, se vi lasciassi da soli rischiamo di perdere il comandante della Sagitta per maternità, e non ci tengo a dare queste soddisfazioni al Dictator. Smetti di ridere e dimmi se sì o no, così- va bene, perfetto. Sì, me lo levo il glifo dalla faccia, non sono stupido. Alla prossima, non farti ammazzare.

Riaggancia e, quando finalmente entra, sembra tutto eccitato come un bambino quando i genitori gli dicono che avrà il doppio dei regali per il suo compleanno.

— Vai al mare?
— Mh? Ah, ecco… sì, alla fine sarebbe problematico se mi venisse un esaurimento nervoso sul lavoro, quindi una piccola pausa non può fare male, no?

Ridacchio al suo tentativo di darsi un contegno, e continuiamo a chiacchierare durante il tragitto e, dopo un quarto d'ora, siamo di ritorno nel parcheggio del Virtus. Prima di andarcene, lui estrae una specie di pennarello e uno specchietto, e lo osservo mentre si disegna una copia temporanea del glifo che di solito ha tatuato sul viso; quando ha finito, lui sgattaiola fuori dalla macchina e si dirige verso l'ingresso, e io lo seguo dopo qualche minuto. Al lavoro, d'altronde, io sono la sua nemesi e sarebbe strano vederci entrare assieme così, dal nulla.

Lo ritrovo nell'atrio mentre parla con un collega, e decido di fare la mia entrata in scena.

— Ah, eccoti qua finalmente! Ti ho cercato tutta la mattinata, noi due dobbiamo discutere un po' dell'ultimo progetto che ci hai proposto; ma come diamine potresti anche solo aver pensato che noi avremmo approvato un piano così barbarico?!

Andrea si gira verso di me e mi rivolge il suo solito ghignetto beffardo.

— Oh, suvvia Settimo, non essere così bigotto! Alla fine tu non dovrai muovere che la mano per mettere una firmetta, per cui che ne dici di fare il tuo lavoro così che io possa fare il mio? Così magari dai il buon esempio ai tuoi colleghi e gli fai capire che devono essere più di un branco di scaldasedie per guadagnarsi lo stipendio.

Scuoto la testa e lo squadro con rabbia. Non so se sia serio o se stia recitando, ma mi rende davvero facile entrare nella parte.

— Noi il nostro stipendio ce lo guadagniamo e forse ci meriteremmo un bell'aumento, visto che dobbiamo gestire te e il tuo branco di bambocci sociopatici. Voi piuttosto dovreste smetterla di fare gli scienziati pazzi e, invece di fare i vostri sgorbi, lavorare seriamente!

Noto con piacere che il sorriso di Andrea ha un lieve tremolio all'angolo della bocca, ho colto nel segno mi sa. Al lavoro facciamo così, lui il saccente arrogante, tronfio e ossessionato dal controllo, mentre io sono il rompiscatole che lo tiene a bada, l'unico che non lo teme e che riesce a metterlo al suo posto.

— Scansafatiche. — Commenta con nonchalance, anche se lo vedo ruotare gli occhi con una punta di frustrazione.

Fingendo di non averlo sentito, salgo le scale per andare al primo piano, dove si trova il mio ufficio. Come immaginavo, lui mi segue immediatamente, e a giudicare dal ritmo dei suoi passi ho colpito un'altra volta il suo orgoglio.

— Cosa, dottor Verdi? Non ho sentito?
— Voi della SRE-M siete degli inutili nullafacenti!

Incrociamo Costa. Ha un occhio nero.

— Buongiorno, comandante Costa, cosa le è successo?
— Niente di che, Sovrintendente, la solita roba: un agente del CFO incazzato. Ho avuto a che fare con cose peggiori, non era la prima volta e non sarà l’ultima.

Andrea mi raggiunge.

— Vedi? Vedi che è meglio lasciarli a noi? Con la mia Sezione questi casini non succedono mai.

Mi sfida con lo sguardo. Siamo davvero tornati al lavoro e dobbiamo comportarci come gli altri membri del personale ci hanno sempre visti.

— Che dice, Settimo? Forse è il caso che mi occupi io della faccenda, non crede?
— Credo che lei debba andare in ufficio a rivedere le sue richieste, Quinto.

Oh, che bello, devo riutilizzare questa replica un giorno, è stata passivo-aggressiva al punto giusto.

— Bigotto guastafeste.

Sospiro e scuoto la testa sorridendo. Nel frattempo, vedo arrivare Bigotti e Staffelli, attirati dalle nostre grida e interessati dall'eterno spettacolo che rappresentano i nostri litigi. Li saluto con la mano prima di continuare.

— Dottor Verdi, la prossima volta vorrei un po' più di creatività nei suoi tentativi di essere umiliante.

Mi lancia un'occhiataccia inviperita. Sembra Tommaso quando dice che il suo fratellino è stato adottato e che Alice gli risponde con indifferenza totale che lui è stato trovato in un cestino.

— Inoltre, se la Sezione di Memetica è gestita da un moccioso che non sa fare altro che fingere di essere terrificante per sembrare autorevole, capisco perché le cose vanno in malora.

Si apre una porta. Francesco esce da un ufficio, guardando la sua mano destra che sanguina e muovendo le dita con difficoltà. Ci osserva due secondi prima di rivolgersi a Costa.

— Dannazione, Leonardo, questo figlio di puttana è tosto, mi sono rotto la mano sul suo naso. Vado in infermeria.

Andrea mi fissa come a dire "te l'avevo detto, idiota" e il silenzio che si prolunga mette chiaramente Costa in imbarazzo.

— Cosa succede?
— Niente di che, Francesco. — risponde Costa.
— Hm, vedo. La solita roba. Vado in infermeria, vieni con me, Leo?

Costa lo segue. Aspettiamo che siano scomparsi e sorrido ad Andrea.

— Bel teatrino. Pensi che intuiranno mai di questa nostra scappatella di oggi?
— No, — risponde Andrea. — e preferisco che non lo sappiano mai, per cui fila via o ricomincio a insultarti.

Annuisco. Abbiamo la nostra reputazione da preservare. Non ci odiamo e questa chiacchierata si è rivelata molto piacevole, ma nessuno deve saperlo. In quanto Lorenzo Ferri ma soprattutto Settimo Sovrintendente, devo odiare il dottor Verdi, anche conosciuto come il Quinto Sovrintendente.
Nonostante siamo appena andati al bar insieme.

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