Uno spaventapasseri
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Ogni giorno, alla stessa ora, nello stesso posto, una sveglia suona. Nessuno la sente, perché nessuno dovrebbe essere là o tantomeno accorgersi di una sveglia. Nessuno, eccetto una singola persona.

Ogni giorno, alle quattro e mezza, nello stesso posto, qualcuno si alza dal letto e spegne quella sveglia. Si alza, s'infila le ciabatte, va in bagno, si sistema molto poco elegantemente i boxer. La barba sempre un po' troppa, gli occhi sempre più spenti. Non c'è mai limite al peggio, fortunatamente, e comunque non tutti badano agli occhi.

Ogni giorno, alle cinque meno un quarto, in quello che dovrebbe essere un condominio abbandonato della periferia di Roma, quel qualcuno si è fatto la barba, si è dato una lavata e sta rovistando nel frigorifero in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti.

La sua giornata sarà lunga o magari sarà corta, e per quanto ci giochi dicendo a chi lo conosce di essere l'unico a sapere quanto effettivamente durerà, ne è all'oscuro.

Ogni giorno, alle cinque e mezza, qualcun altro si chiude la porta alle spalle e dopo due giri di chiave è pronto a dare il via alla sua giornata. Forse, mentre inforca un paio di occhiali o sale in sella a una bici sgangherata, ma che ancora resiste alle intemperie, cercando di evitare le buche che fanno assomigliare il marciapiede a un groviera, vedrà un'Alfetta grigia arrancare per la strada e sparire dopo aver svoltato un angolo in tutta calma.

Ogni giorno, per chi prima e per chi dopo, arrivano le otto. Ogni giorno qualcuno vede un'Alfetta arrancante sparire una volta svoltato un angolo, e ogni giorno alle otto c'è chi vede un'Alfetta comparire arrancando da un qualche angolo.

Oggi tocca di nuovo al professor Caraglio, che all'università che per lui è stata come una casa non torna da anni. Anche oggi il professor Caraglio è all'imbocco della Valle Troncea, seduto all'ombra di un larice con quei pochi allievi che hanno saputo leggere tra le righe.

L'Alfetta arranca e il suo conducente si sporge dal finestrino in cerca del professore. Occhi spenti, capelli scarmigliati, un accenno di barba qui ed uno là, addosso vestiti slabbrati. L'auto si posteggia quasi da sé, il corriere smonta, una nuvola di passaggio si arresta e proietta la sua ombra sulla valle. Tutto tace.

Non è la prima volta che il professor Caraglio ha visto arrivare l'Alfetta, e già sa cosa aspettarsi. Dice ai suoi allievi che l'uomo che è appena sceso dall'auto non è davvero un gigante. Dice loro che la prima impressione non è veritiera, e che in questo caso lo è ancora di meno. Il professore con il Corriere ci ha già avuto a che fare, già gli ha affidato qualcosa da consegnare.

All'ombra di quella nuvola, il Corriere si è fatto più vicino. Stamattina ha fatto colazione alle cinque meno un quarto, l'ha fatta con fette biscottate, peperoni in agrodolce e manzo sotto gelatina. Ha mangiato di peggio. Quaranta, no, sessant'anni fa in questo stesso frangente sarebbe stato in preda a dolori di stomaco, ma a questi pasti divorati in fretta e furia ci ha fatto l'abitudine. In quaranta, no, sessant'anni si è fatto una reputazione, si è costruito un personaggio.

All'ombra di quella nuvola, sul professore e i suoi allievi torreggia il Corriere. Le menti degli allievi si sono fatte indietro di un passo ad ogni suo movimento. È un uomo, questo sì, ma orribilmente sproporzionato, alto intorno ai tre metri, con tutte le fattezze stirate di conseguenza.

No. È un uomo normale. Non c'è nulla di strano in lui.
È deforme.

Il professore si regge al tronco del larice e con fatica si alza in piedi. Si porta accanto al Corriere e, seppur di poco, lo sovrasta. La nuvola si allontana.

Un secolo fa il Corriere non sarebbe stato pronto per il freddo della Valle, ma ora lo è. Si inginocchia sotto il larice, alza lo sguardo verso il professore e attende. Non trema, non batte ciglio tra gli allievi intabarrati.

Il professore già sa perché il Corriere è qui. È la seconda volta che lo vede, sa che in futuro giungerà una terza. Che essere strano che è il Corriere.

Un belato squarcia l'aria. Il professore e gli allievi si voltano verso un prato poco lontano. Il Corriere si gratta il mento. Un piccolo animale è seduto in mezzo all'erba e si guarda intorno. Solo quattro anni prima, un manipolo di soldati in divisa nera aveva oltrepassato quel prato a passo di marcia.

"È quello?"
La voce del Corriere è roca e flebile. Questo è uno di quei fastidi che minacciano di accompagnarlo per sempre. Dovrebbe parlare di più, ma non ce n'è realmente motivo. Lo accompagnerà per sempre.

Il professore guarda l'animale. "Lo tratti bene, mi raccomando. Non è una bestia forte, qualsiasi cosa potrebbe ferirla… Mi raccomando di nuovo, usi la massima cura. È il mio testamento vivente".

Tocca al Corriere guardare l'animale. Non sarebbe certo la sua prima scelta, se mai dovesse scrivere un testamento vivente. I colli degli alpaca non gli sono mai piaciuti, ma non ha mai avuto occasione di comunicarlo a nessuno.

"Dove lo vuole?" La seconda domanda gli costa meno fatica. Il professore torna all'attacco. "Tenga a mente che è una bestia delicata, per concentrarmi sul suo allevamento ho abbandonato il mio lavoro, i miei studi…".

Non è questo sproloquio che gli interessa, quanto il fatto che lo vuole a Grugliasco.

Il Corriere non è a suo agio quando, caricato il testamento sui sedili posteriori, si mette al volante dell'Alfetta tirandosi dietro la portiera. Il suo stomaco lo implora di buttar giù un po' di cibo, ma non è tutto. Gli occhi degli allievi sono fissi su di lui mentre si allontana. I suoi di occhi, oggi un po' più spenti di ieri, prima hanno incrociato uno sguardo non nuovo quanto dovrebbe essere.

Ogni cinque o sei giorni, davanti ad un paio di occhi spenti si presenta un dettaglio fuori posto, una nota stonata. Certo, nulla dovrebbe stupire il guidatore di una tale Alfetta, uno che pratichi una simile professione, eppure il Corriere si stupisce spesso. È bello rimanere stupiti. Oggi non è così; domani non importerà più, perché se ne sarà già scordato.

Ogni giorno, allo scoccare delle dieci, un uomo al volante di un'Alfetta sta svoltando un angolo. Oggi è un tornante di una strada di montagna, domani chissà cosa potrebbe essere.

Ogni giorno, giunte le dieci, un'Alfetta svolta un angolo arrancando. Con uno sforzo non da poco il suo motore la sospinge per qualche metro ancora, poi si arresta. C'è chi non ci fa caso, tra quelli che si sono chiusi la porta alle spalle alle cinque e mezza; c'è chi la guarda sorpreso, tra quelli che hanno inforcato gli occhiali alle otto.


Capita, una volta o due la settimana, in base al caso o forse alla volontà di qualcuno, che un'Alfetta arranchi lungo le strade ciottolate di Ajaccio e si posteggi a poca distanza dalla piazza che sottostà alla città alta. Capita, una volta o due la settimana, che la portiera dell'Alfetta si spalanchi a mezzogiorno.

In quei giorni, inevitabilmente, un uomo con la barba mal sistemata e dei vestiti, vestiti che sarebbero forse più appropriati se stipati in fondo ad un cassetto, piuttosto che indossati da una persona, percorre la viuzza che separa il lungomare dalla piazza in due salti e va a sistemarsi davanti all'entrata del bar. È uno dei pochi spostamenti di piacere che gli sono concessi, non può lasciarselo sfuggire.

"Oh, capo, ci sei?"
Il capo è un bell'uomo, calvo ma con una barba sale e pepe che attira l'attenzione quasi quanto i suoi occhi celesti, e dalle otto fa la spola tra i fornelli e il registratore di cassa. Ogni tanto, e oggi è così, la clientela scarseggia e il capo si muove più lentamente e fa panini appena più grossi.
"Buongiorno a lei, cominciavo a temere che oggi non sarebbe passato…"

Quando il Corriere si ferma lì a pasteggiare si poggia le spalle contro uno stipite della porta, si rivolge verso la cucina e incrocia le braccia. Può capitare che lui e il capo parlino del più e del meno, o ancora più spesso che aspettino entrambi in religioso silenzio che il petto di pollo finisca di sfrigolare nella friggitrice e sia pronto ad essere inserito tra la verza, i peperoni e il pane intriso di salse.

Oggi il capo ha avanzato delle patate e le ha tuffate nella friggitrice assieme al petto di pollo: sa già che il Corriere non disprezza le sorprese nei panini. Seduta ad un tavolo, sotto il dehors del bar, c'è la sola avventrice della giornata. Indossa un vestito leggero, spostato appena dal vento che rinfresca la piazza, e un cappello con una tesa larga. Forse per il rosa sbiadito dei due indumenti o per il pallore della pelle, all'uomo sembra di vedere un cadavere.

Il capo non ci bada e infila il panino in un triangolo di carta antigrasso, che piega su se stessa come a produrre un origami culinario; infila una mano nel frigo, afferra una bottiglia di chinotto e la stappa. Gli occhi fissi sulla donna seduta al tavolino, il Corriere pensa a chi è montato in sella ad una bici alle otto, e a come ora probabilmente, mentre pedala verso il pranzo, stia cercando di evitare le buche che fanno assomigliare il marciapiede a un groviera in un quartiere di Roma.
Se solo sapessero che in una piazzetta ad Ajaccio c'è il capo, con il suo bar e il suo panino al pollo…

Seduto ora su una seggiola, prende il panino e la bottiglia dalle mani del capo protese verso di lui, e addenta il pane e il pollo e i peperoni.

Forse sarò sulla tazza domattina alle quattro e mezza per colpa dei peperoni, pensa nel mezzo di un sorso di chinotto. La donna intanto si è spostata dal suo tavolino sotto il dehors fin davanti la porta e si è seduta lì a guardarlo.

Il Corriere la fissa, ma sta pensando al professore e forse a chi non dovrebbe accorgersi della sua sveglia al mattino.

Lei fissa il Corriere con i suoi occhi sporgenti e violacei, come quelli di un pesce palla. Al Corriere la verza va di traverso.

"Ti ho aspettato".
La donna ha con sé un bicchiere pieno d'acqua, dal quale beve con un fastidioso gorgoglio.
"Ora dobbiamo parlare".

Non succede spesso che donne e uomini con occhi sporgenti, come quelli dei pesci palla, vagabondino sulla terraferma. Il Corriere non ne ha ancora mai visto uno. Non ne aveva ancora mai visto uno cinque minuti fa, ma ora l'ha visto. Ci ragiona su per una manciata di secondi, poi torna a pensare alla sveglia, e alla tazza.

"Sono in pausa, parleremo dopo". Un sorso di chinotto. "Parliamo ora". Un morso al panino. "Sto mangiando". Un altro morso, più patate che altro. "Stai anche parlando. Ci servono i tuoi servigi".

Il Corriere lecca via un poco di frittura dagli angoli del labbro inferiore. "Non è vero. Se fosse come dici, signorina, sarei venuto io da te. Non mi risulta sia andata così". L'aria di mare gli schiarisce la mente e rende la sua voce appena meno roca, anche se non risulta mai piacevole da ascoltare.

Agli uomini e alle donne con occhi da pesce palla non importa come suoni la voce altrui, in linea di massima.

"Ci servono, ma per comodità". Il Corriere beve il chinotto senza all'apparenza badare troppo alle parole della donna. Che individuo peculiare, pensa lei, un vero enigma. Lui pensa ai Grugliaschesi con le scarpette e le brache e le Grugliaschesi con il ventaglio e la cuffietta che ha visto ore prima, quando ha effettuato la consegna per il professor Caraglio.

"Questo significa che anche voi a volte non avete voglia di muovervi, ne deduco". Inspirando a fondo, appallottola la carta antigrasso e mastica piano l'ultimo peperone e l'ultimo tocco di pollo intriso di salsa e olio. "Mettiamola così, io ascolto la tua richiesta - perché non può che trattarsi di una richiesta - e decido cosa fare. So che ci stai. Ora sono tutto orecchi, parla pure".

"C'è un oggetto, un nostro oggetto," il collo esile della donna freme a queste parole, e presenta in bella mostra tre tacche bluastre appena sotto la mascella, che al Corriere sembrano dei lividi o delle cicatrici, "che è finito nelle mani di chi non può comprenderlo. Devi riportarcelo".

Come ognuno di quei giorni, uno o due la settimana, nei quali il Corriere se ne sta al bar del capo, con gli occhi spenti a cui nessuno bada e i vestiti slabbrati, sono le due. L'ora di grattarsi il naso e finire il chinotto.

"Capisco dove si vada a parare. È fattibile. Di chi sono le mani in cui il vostro oggetto è finito?"
"Dei miscredenti… Gli Accecatori".

Alza un sopracciglio, si sfrega il mento, poi si avvia giù lungo la viuzza che separa la piazza dal lungomare e la percorre in due salti.

Per il capo, quello che oggi apre la portiera dell'Alfetta alle due e cinque è un essere filiforme, lungo una dozzina di metri e attorcigliato su se stesso.
Per gli occhi da pesce palla della donna, quello che apre la portiera di un'Alfetta alle due e cinque è un ammasso nebuloso rosso e nero. Lei non sarebbe in grado di descriverlo; si limita a reprimere uno sbuffo, le sue branchie fremono appena.

Il capo preme i propri indici sulle palpebre e mugugna qualcosa mentre abbassa la saracinesca del bar. Riaprirà più tardi, e rivedrà il Corriere un altro dei giorni di questa settimana. È un uomo metodico, per quanto strano.

La donna è già in acqua, la sua mente di nuovo tutt'uno con il Mediterraneo.


A Dicembre e a Luglio, su un tratto di strada provinciale normalmente poco frequentato, due uomini sfrecciavano fino a fondere le ruote della loro Alfetta grigia.

Ridevano e non pensavano ad altro che al qui e ora. Sulla strada provinciale normalmente poco frequentata c'erano solo loro due sulla loro Alfetta grigia e una doverosa autoradio.

Certe sere di Dicembre e Luglio, su un tratto di strada provinciale normalmente poco frequentato, sfreccia un'Alfetta grigia.

Per la prima volta è parcheggiata parallelamente alla carreggiata, abbandonata senza un conducente. È una sera di Dicembre, o forse di Luglio, quindi la strada provinciale è poco frequentata. Tutto nella norma.

Tra le dune, a poca distanza dalla strada provinciale 66 del Medio Campidano, il conducente dell'Alfetta fuma un sigaro seduto sulla sabbia. Il sigaro fa schifo e il mare lo turba oggi, ma poco importa.

Il sigaro lo fuma perché glielo hanno regalato, e rifiutare un regalo, si sa, non è mai una buona idea. Non verrà certo un ispettore dei sigari a verificare che abbia effettivamente fumato, ma l'onestà sta anche in questo. Il Corriere è un uomo integerrimo.

Tra le dune non c'è nessuno. Anche l'hotel, con i suoi parcheggi e la sua stradicciola, è deserto. I proprietari staranno maledicendo la quarantena, probabilmente.

Questo piccolo deserto non è una novità per il Corriere ma, pur conoscendolo, non l'aveva mai visitato. Non è venuto qui per passare del tempo, comunque, quanto per vedere un potenziale cliente.

Tra una boccata di sigaro e un'altra pensa all'oggetto che tiene in tasca. Ha rischiato anni della propria vita e l'Alfetta per recuperare un paio di biglie a Grosseto. Chi l'avrebbe mai detto, tra l'altro, che a Grosseto loro fossero così presenti.

Domani consegnerà quegli stupidi oggetti celesti. Non ne ha voglia, come non ha voglia di pensare alle conseguenze. Lo farà.

Il sigaro continua a bruciare e non accenna ad accorciarsi. Il cliente non si vede. Ci vorrebbero delle fette biscottate, dei peperoni in agrodolce e del manzo sotto gelatina. Magari anche una birra, o un chinotto.

Il Corriere segue con lo sguardo il bagnasciuga, avanti e indietro, più e più volte… lentamente.

C'è un qualcosa di piccolo, all'incirca color argilla, appallottolato a metà strada tra il mare e un parcheggio.
"Di', dev'essere il cliente".

Con il sigaro tra i denti, si avvicina al fagotto affrettandosi con calma. Non è neanche tanto distante, se ne sta in una piccola conca che fa somigliare la zona ad un groviera, o a un marciapiede della periferia di Roma.

Il Corriere si china sul fagotto per osservarlo meglio. È umano, e ha un bel viso. Gli ricorda la ragazza che ogni tanto aiuta il capo con il bar, o forse un tale che passeggiava qualche anno fa vicino ai Fori Imperiali. Un bel viso per quanto nascosto dalle ginocchia; ad ogni modo, se non fosse così rannicchiato, non lo si potrebbe definire un fagotto.

Le ginocchia del fagotto sono sbucciate e spellate e coperte di sabbia, e così le sue braccia, che sono strette attorno alle ginocchia, e anche la schiena, che con le braccia forma una certa continuità, se ci si pensa bene. Sembra un piccolo mattone di terra cruda. Il Corriere non sa se provare pena o chiedersi cosa sia successo, nel dubbio inspira una boccata di fumo e la butta subito fuori.

È molto difficile che questa cosa nella sabbia sia effettivamente il cliente. Non si muove e non parla, tanto per cominciare.

Dopo averlo circumnavigato e studiato, sorge un altro problema: come chiamare il fagotto qualora bisognasse parlargli? Non è facile capire se sia un signore o una signora, dal momento che dalle clavicole al pube c'è solo una distesa di rosso e marrone che potrebbe essere tanto un tappeto quanto un rettangolo di sangue rappreso e carne esposta.

Non c'è verza che possa andare di traverso, stavolta, e purtroppo non c'è neanche una bottiglia di chinotto per refrigerare il cervello. Il Corriere inspira un'altra boccata di fumo e si lascia andare ad un singhiozzo.

Non c'è verza che possa andare di traverso, ma al Corriere non importa più di tanto. Si accovaccia a qualche metro di distanza e pensa a dove potrebbe aver già visto uno spettacolo simile. Alle otto e mezza, alle cinque e mezza, alle due e cinque del pomeriggio, forse alle sette, un anno fa o dieci o trentasei. Niente, è la prima volta, se non si contano certe brutte cose lette sui giornali o viste in televisione.

A Roma e ad Ajaccio cose del genere, ossia scorticamenti e simili, non ricorda ne siano successe, a Grosseto chissà. Leggere di uno scorticamento è una cosa, vedere una persona scorticata è un'altra. Probabilmente il Corriere se ne sarà scordato domani o il giorno dopo.

In ognuno ci sono segni per capire che pronomi e aggettivi usare, e non a tutti si può stare a guardare in mezzo alle gambe. Il Corriere di solito parte dal vestiario, ma il fagotto è nudo come un pesce. Magari, una settimana o un'altra, si farà preparare un panino con del pesce. Chissà, forse lo accompagnerà con una bottiglia di aranciata anziché con il chinotto.

Niente vestiti, si passa agli accessori, poi ai capelli. Non ci sono accessori, i capelli sono di un biondo sporco tendente al castano e sono decisamente corti. Un fagotto reduce dall'accademia militare o da un parrucchiere dai gusti discutibili. Magari è il fagotto ad avere gusti discutibili.

Resta da guardare il viso. È un bel viso, dai tratti delicati, sporco di sangue anche quello. Il cliente-fagotto sembra averci fatto il bagno, nel sangue, e c'è da scommettere che il sangue in cui ha fatto il bagno sia suo.

Il Corriere annega il mezzo sigaro rimasto nella sabbia, si sfrega le mani e avvicina un orecchio al viso del fagotto cliente. Dalla sua bocca esce un rantolo sottile e strozzato.

Certe sere di Dicembre e Luglio, su un tratto di strada provinciale normalmente poco frequentato, sfreccia un'Alfetta grigia. Sono le due di notte, oggi, e l'Alfetta grigia sfreccia in una direzione diversa dal solito. Sul sedile posteriore un piccolo mattone di terra cruda apre gli occhi a fatica, rantolando. Nel suo mondo nero e rosso, alla guida dell'Alfetta c'è una chiazza arancione che assomiglia ad un uomo.

L'Alfetta avanza nell'entroterra per cinque minuti, poi dieci, poi quindici e venti. Il Corriere spera che non muoia nessuno, innanzitutto perché sarebbe fastidioso disfarsi di un cadavere, soprattutto del proprio, ma anche perché sarebbe un dispiacere. Una vita non dovrebbe finire sul sedile posteriore di un'Alfetta sconosciuta.

Comunque sia, ad ogni curva butta un'occhiata silenziosa a quella cosa che lo guarda respirando a malapena. Gli mette addosso una grande tristezza.

Le luci dell'ospedale nella distanza si fanno sempre più luminose. Il mattone non è il cliente, è il carico. È stato spostato dalla spiaggia fin lì e verrà prelevato da qualcuno, così come è stato depositato in mezzo alle dune da qualcuno.

Non è certo una bella prospettiva, questa. Sono le due e trentacinque di notte. Il carico è vivo. Il cliente non si vede. Le porte dell'ospedale si aprono, il Corriere entra portando con sé un fagotto rosso.


Ogni giorno, quando il Sole ormai cala oltre l'orizzonte, un'Alfetta grigia percorre strade su cui nessuna Alfetta è mai stata prima. Al volante c'è il Corriere che pensa al condominio abbandonato nella periferia di Roma, e all'arazzo giapponese affisso ad una parete.

Ogni giorno, quando ormai l'orizzonte ha nascosto il Sole alla vista degli uomini, il Corriere rallenta e guarda la strada su cui le ruote dell'Alfetta grigia scorrono. L'arazzo giapponese reca un singolo ideogramma. "Pensa". Ogni tanto il Corriere lo guarda e pensa.

Ogni giorno, intorno alla mezzanotte, l'Alfetta si arresta e il suo conducente apre la portiera. Oggi si pente della precedente consegna. Succede, alle volte. Non ha modo di lamentarsene, perciò la questione è chiusa.

Si spoglia di tutti i suoi vestiti, fatta eccezione per i boxer, e delle scarpe. Dal bagagliaio dell'Alfetta tira fuori un borsone da palestra, dal borsone una toga color cremisi a colletto alto e un cappello. Indossa il tutto alla bell'e meglio, senza badare alle frange del cappello che gli ricadono sghembe ai lati del viso.

Le luci di Venezia, distanti a mezzanotte e cinque, lo assorbono a mezzanotte e un quarto. Tra le lampade che illuminano a giorno la bottega di un vasaio, il Corriere si siede e aspetta.

Da qualche tempo la Luna si rifiuta di illuminare Venezia. I Signori della Notte avanzano cauti sulle passeggiate, i nervi a fior di pelle, timorosi che qualcosa dalla laguna si lanci per prenderli.

Quando sono tornati dal Doge con l'urna piena di carne secca e bruciata, l'unico tesoro di Costantinopoli che davvero interessasse ai Crociati Serenissimi, uno strano sentimento si è impadronito del Colejo. Si sono guardati, il Signore dei Signori e il Doge e i Tribuni, ma non hanno proferito parola.

Il Cittadino Malecchi, avvolto nella sua cappa e con una lanterna schermata stretta in mano, è come una bestia. Conosce la città come il palmo della sua mano, si muove silenzioso e prende alla sprovvista chiunque si aggiri indebitamente per le strade. Un tempo lo chiamavano "Nottola dei canali", quando ancora saltava dai pontili fin sulle passeggiate e poi addosso ai malcapitati malfattori.

Malecchi è vecchio adesso, alle rincorse sui ponti e ai salti sulle passeggiate con il favore delle tenebre preferisce il bere e il mangiare e lo studiare la Cabala e le sue pratiche. Ha ancora l'occhio che aveva da giovane, però, e questo al Colejo conviene molto.

L'occultatore il suo lavoro deve farlo bene, più che in fretta. È una bestia anche adesso, Malecchi, ma non più per gli stessi criminali. Il bestemmiatore è meno blasfemo di chi va contro certi interessi del Doge.

Voltato l'angolo della bottega del vasaio Magnano c'è il Corriere che, come quasi ogni giorno a mezzanotte e venticinque, sta pensando all'arazzo e all'ideogramma che vi campeggia nero su ocra. A Malecchi già pare di intravedere ciò che il Colejo vuole, nascosto sotto la toga del Corriere.

Ogni giorno, alle nove e venti, il Cittadino Fatori si accoccolava nel proprio letto e tentava di chiudere gli occhi e dormire. Ricordava una magione in Cappadocia, fin dentro la quale si era spinto con i suoi compagni Signori della Notte, ricordava il padrone della magione con i denti affondati nella gola di un uomo e il viso sporco di sangue e due cose grottesche che protrudevano dal suo collo.

I Signori della Notte durante la Crociata erano pochi, e pochi erano quelli che si erano spinti nel cuore dell'Impero Ottomano per chissà quale nobile ideale. Fatori era convinto di essere stato inviato da Dio appositamente in quella magione in Cappadocia per spaccare il cuore di quella bestia che vi dimorava.

Fatori rimase convinto di ciò fin quando non morì all'età di ventisei anni per un tumore.
Ogni giorno, alle dieci del mattino, il Cittadino Fatori iniziava il proprio giro quotidiano della città. Un giorno, alle undici e trentacinque, s'imbatté in un uomo dagli occhi spenti, vestito di una toga color cremisi a colletto alto, che se ne stava seduto sull'orlo della passeggiata a fissare l'acqua di un canale.

Malecchi seppe da Fatori che un pover'uomo che lui aveva visto divorare da un satanasso durante la Crociata era di nuovo in vita per grazia dell'Altissimo, e pronto a servire la Repubblica. Dal Corriere, Fatori ricevette un libro. Da Fatori, Venezia ricevette il Corriere.

Malecchi siede accanto all'uomo che, con il suo cappello dalle frange sghembe, se ne sta su un gradino a guardare le colonne del porticato che cinge la facciata della bottega.

"Lungi da me intromettermi negli affari altrui," il Corriere comincia, serrando per un attimo le palpebre e sfregandosi il collo, "ma non credo di capire cosa io abbia recuperato per voi".

Dalla toga color cremisi produce un vaso sottile e non più lungo di un braccio.

L'occultatore esita. Il Corriere ha lavorato per lui altre due volte e ha servito la Repubblica in almeno dieci volte tante circostanze. "Signor mio, temo di potere solo brancolare nel buio in merito".

Alla luce della lanterna i due guardano il vaso, lo ruotano, lo capovolgono. Qualsiasi cosa si trovi all'interno non produce alcun rumore. Un sottile lembo di pelle bianca e un nervo annodato fanno da coperchio.

"Me ne dispiaccio, ma non ne possiamo niente". Non ci vorrà molto perché il Corriere si scordi di questa questione.

Il vaso passa nelle mani di Malecchi e il Corriere è pronto a ripartire. "Orbene, spero ne ricaviate qualcosa di buono. Buona serata e alla prossima, signore".

Avvolto in una toga color cremisi a colletto alto, per la Nottola dei canali, c'è una qualche forma geometrica rossa e nera che ora si sta allontanando. Non si è mai abituato a questa parte degli incontri con il Corriere.

Non lavorerà più per Malecchi, il Corriere. Per il Colejo, invece, probabilmente sì. Sicuramente. Emerso dal portico, mentre si accinge ad attraversare la piazza, vede un flebile raggio di luce andare dalla Luna ad accarezzare il vaso che un Signore della Notte ormai vecchio sta osservando con discreta attenzione.

La camminata del Corriere fino all'Alfetta è accompagnata dall'immagine della vipera a tre teste che lo ha fissato dal vaso.


Ogni giorno, alla stessa ora, nello stesso luogo il motore di un'Alfetta grigia si arresta. L'Alfetta ha percorso arrancando strade diverse in luoghi diversi. È inevitabile, è per questo che è stata costruita.

Ogni giorno, alle undici e quaranta della sera, qualcuno rincasa in quello che dovrebbe essere un condominio abbandonato nella periferia di Roma. Oggi indossa una toga color cremisi a colletto alto e un cappello.

Sale le rampe di scale che lo separano dal suo alloggio con calma, apre la porta, poi se la richiude alle spalle.

Fissa l'arazzo mentre beve un bicchier d'acqua, poi si lava i denti. Nonostante il condominio sia abbandonato, l'acqua e la corrente restano disponibili. Buffo, pensa il Corriere.

Il gas, però, non c'è. Si sono fatte le undici e cinquanta e il Corriere si è spogliato.

Attraversa l'alloggio senza accendere nemmeno una singola lampada e collassa sul letto.

È mezzanotte.

Qualcosa preme sulla gola e sullo sterno del Corriere, abbastanza da fargli aprire gli occhi. Vorrebbe imprecare, ma non riesce ad emettere un suono.

Tra quattro ore dovrai svegliarti, un soffio vicino al suo orecchio, vedi di riposarti bene.

Non riesce a deglutire, non riesce a girare la testa.

Sa già cosa vedrebbe se fosse in grado di muoversi.

Vedi di riposarti bene.
Vedi di riposarti bene.
Vedi di riposarti bene.

Vedrebbe uno sguardo conosciuto, già visto altrove. È bello rimanere stupiti. Oggi non è così.

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