Un ultimo saluto
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Il Sito Plutone era stato completamente sgomberato. L’apparenza tetra di quelle sale, un tempo familiari, incupivano l’animo di Andrea. Non pensava che sarebbe mai riuscito a rimettere piede dentro a quel posto, che era stato per lungo tempo come una seconda casa. Ora, come molti altri compagni della Fondazione sfuggiti alla minaccia della calamità, errava nelle campagne, desolate e senza anima viva, cercando di mettersi al riparo dalle orde di morti che infestavano senza sosta il territorio.

Era nel Sito senza particolari sforzi: il suo tesserino di agente della Fondazione, che conservava ancora come simbolo di un’identità passata e ora perduta, funzionava ancora, e così pure la maggior parte dei sistemi elettrici. L’ambiente, sporco, polveroso e inquietante, non era area adatta all’attacco di quei mostri, vista la presenza di sole anticaglie e scartoffie rinsecchite; da questo punto di vista, sarebbe potuto diventare un perfetto ricettacolo per i dispersi, se non fosse stato per la quasi totale assenza di difese, di cui il Plutone aveva sempre avuto difetto. Nonostante il sistema centrale funzionasse ancora, l’assenza del personale e dell’ordine si era fatta sentire con forza. La fuga di agenti, ricercatori e personale si era tradotta con il soqquadro più totale di ogni suppellettile e mobilio presente; gli atrii, i corridoi, gli uffici, gli archivi, tra i più ordinati tra tutti quelli della Branca Italiana, erano ora solo un pallido ricordo. Nella più completa desolazione e caos, rimanevano ad infestare il posto solo qualche topo o ratto, gli unici che sembravano apprezzare abbastanza la carta accumulata in quel luogo, tanto quanto i vecchi ricercatori del Sito.

Andrea procedeva con circospezione. Non si aspettava di trovare qualche morto lì dentro, ma la prudenza non era mai troppa. Il minimo rumore lo metteva subito in allerta, fosse stato uno scricchiolio di una vecchia scrivania o lo squittio di un qualche roditore. Avanzava e, per sua fortuna, non trovava alcun pericolo o morto. Doveva dirigersi verso la zona più interna del Sito, dove sarebbe potuto accedere ai piani di contenimento. La sua missione aveva un carattere esclusivamente personale; nonostante gli avvertimenti posti da molti suoi ex colleghi che, come lui, lavoravano al Plutone ed erano divenuti nomadi e fuggiaschi, aveva deciso di procedere per la sua strada. Si era allontanato dal suo gruppo durante la notte, a bordo della sua moto, e in meno di un giorno era giunto alle porte del Plutone.

Non faceva altro che pensare alla sua povera madre: se n'era andata qualche giorno prima che l’emergenza fosse stata dichiarata “pandemia globale”. Non aveva fatto in tempo a rivederla, o di darle un ultimo saluto. Tornava ora a riprendersi l'unica cosa che poteva ricordargli la sua, ormai distrutta, famiglia.

Giunto all’ascensore principale, lo trovava non più funzionante. Decise di scendere, con cautela, dalla tromba dell’ascensore, il cui abitacolo si trovava ancora in fondo all’ultimo piano. Aveva portato con sé l’equipaggiamento speleologico: una volta diventati agenti della SSM-VIII “Subterranea Materia”, lo si restava per tutta la vita. Arrivato all’abitacolo, ancora avvolto dall’oscurità, tolse il coperchio per la ventilazione dell’ascensore e ispezionò l’ambiente in vista di potenziali pericoli: il campo era libero. Discese all’interno, avendo cura di legare la propria fune perché non si staccasse da sopra. Osservò dalla fessura il corridoio davanti a lui: anch’esso era vuoto. La calma dentro a quel luogo regnava sovrana, forse fin troppo. Spinse le due ante verso l’esterno ed entrò. I sistemi per il controllo dell’apertura delle celle erano gli unici tra tutti ad essere rimasti ancora attivi, per fortuna. Avanzò cautamente, facendosi strada grazie alla mappa del luogo che aveva ancora con sé: si ricordava la strada, doveva girare a destra del corridoio, per poi girare nuovamente a sinistra, procedere per cinquanta metri circa, e al bivio girare a sinistra di nuovo.

Nell’assoluto silenzio che avvolgeva l’area di contenimento, oltre ai soliti rumori che già aveva sentito prima, gli pareva che qualcos’altro stesse nascondendosi lì dentro. Forse era solo una sensazione, dal momento che le anomalie, anche se senzienti, erano rimaste dentro ai loro spazi. Gli pareva, nonostante tutto, di udire qualcosa, un rumore di sottofondo, come qualcosa di pesante che stesse trascinandosi con il proprio peso. Forse il sistema di aerazione? Non poteva saperlo, ma non era la sua priorità scoprirlo. Si avvicinava sempre di più alla sua destinazione, ma quel rumore ora era diventato come più forte. Verso il bivio lo sentiva ormai bene, e assieme ad esso giungeva pure un altro suono, più minaccioso: una specie di rantolo, un rumore soffocato.

Con noncuranza, giunse alla propria destinazione, la cella 117. Passò il proprio tesserino magnetico, ma non funzionò. Pensava avesse ancora diritto all’accesso. Serviva per forza quello di un qualche ricercatore. Si mise in cerca di uno di quelli, abbandonati quasi sicuramente nel trambusto. Il rumore che aveva sentito poco prima c’era ancora. Al bivio, prese la direzione davanti a lui. In quella zona c’erano alcuni uffici e alcune celle di contenimento: il posto ideale per trovare una delle tessere magnetiche.

Fermò il passo. Una delle celle era inspiegabilmente aperta. Estrasse la pistola che aveva alla cintola, e con passo felpato si avvicinò. Si rese conto che il rumore non proveniva da lì, ma da poche unità più avanti. Diede un occhio: la cella era vuota. Socchiuse la porta aperta; il cartellino con il numero riportato sopra era stato rimosso, tranne per l’ultima cifra, un due. Non sapeva di che anomalia si trattasse, o meglio, non se lo ricordava. Era però pronto al peggio. Avanzò con il massimo silenzio, in punta di piedi quasi, verso il luogo da cui proveniva quell’ormai indistinguibile strepito: un ufficio, chiuso, da cui proveniva tuttavia un leggero bagliore. Il vetro della porta era stato frantumato, tanto da consentirgli di poter dare una sbirciata. Rimase impietrito da ciò che vide.

Su una sedia, come legato, stava quello che sembrava un uomo. Non riusciva a distinguerlo nella penombra, causata da una lampada stranamente ancora in funzione, e nemmeno che cosa lo avvolgesse, ma sembravano delle corde, consunte e di colore nero. A fianco all’uomo stava, in piedi, una figura come umana, ritta, che continuava a muoversi e a causare quel suono metallico che aveva sentito prima. Muoveva, lentamente, le proprie braccia, come se avesse in mano qualcosa. Quel qualcosa erano le corde che tenevano avvinghiato per il collo l’uomo seduto sulla sedia, ma che ad una più accurata ispezione sembravano provenire da qualche fonte sconosciuta. Forse era un agente anche lui, arrivato lì e che aveva provato a fermare la figura? Non poteva essere, quest’ultima era inspiegabilmente calma. La osservò meglio: aveva un abbigliamento strano, sembrava indossare un vestito unico, una sorta di tunica che andava quasi fino ai suoi piedi. Era completamente assorta da ciò che stava facendo, ma era incredibilmente lenta nel farlo, come stesse cercando di capire qualcosa. Ci fu un movimento improvviso da parte dell’uomo e si accorse che era uno di loro, un cadavere. I suoi rantoli spettrali divennero ancor più forti, e iniziò a rigurgitare un liquido scuro dalla bocca. Quello stesso liquido sembrava provenire anche dalla figura, che era comunque distante da lui non di poco. Le colava dalle mani, sul pavimento.

Solo allora Andrea riuscì ad unire i puntini, e capì in chi e in che cosa si era imbattuto. Si accucciò non appena si rese conto che il morto si stava accorgendo della sua presenza, emettendo rantoli sempre più forti. Si placò in pochi secondi. Mentre era accovacciato, per puro caso e fortuna, trovò un cartellino tra i frammenti di vetro. Lo esaminò: proprio quello che gli serviva. Senza causare rumori, ritornò sui suoi passi. Al campo si erano sempre chiesti che fine potessero aver fatto alcuni ricercatori, scomparsi nel nulla dopo gli attacchi; non avrebbe mai immaginato una fine tanto orrenda.
Arrivò alla cella, questa volta il cartellino funzionò. Come di consueto, sul display apparve la scritta che autorizzava l’accesso.

«Accesso Consentito. Benvenuto, dottor Bellini.»

La porta si aprì con uno scricchiolio metallico. La luce non si accese, ma grazie alla propria torcia poteva vederla bene: l'uniforme di sua zia, quella stessa che aveva donato alla Branca, poco tempo prima che tutto quel disastro cominciasse. Si affrettò a prenderla, piegandola come meglio poteva sottobraccio, e uscì subito dalla cella. Non si accorse che il rumore di sottofondo era cessato.

Giunto all’ascensore e buttata la veste in spalla, iniziò la scalata. Era andato tutto per il meglio, se non che proprio allora che si trovava penzoloni in aria qualcosa di freddo lo afferrò per la caviglia. Seppur preso da un iniziale spavento, con un deciso colpo di scarpone riuscì a divincolarsi, ma quella mano metallica cercava comunque di raggiungerlo. Continuò la propria scalata senza guardarsi indietro, affrettandosi sempre di più: aveva il cuore in gola, e le budella gli tremavano al solo pensiero di cosa era riuscito a scampare. Raggiunse la cima, raccolse di tutta fretta le sue cose e con passo di marcia si avviò verso l’uscita. Quando fu fuori, tirò un sospiro di sollievo, il primo dopo tanto tempo. Aveva tutto quello che desiderava, finalmente. Guardò per un momento il sole tramontare, mentre scompariva lontano, dietro ai monti, dentro al mare. Si ricordò delle passeggiate, fatte sui monti della Carnia, con la sua cara zia e la sua cara madre. Una lacrima gli solcò, tiepida, il viso. Fu un breve istante.

Sentì un rumore di passi e di rantoli confusi. Erano loro. Si stavano avvicinando, forse lo avevano percepito. Il suo primo istinto fu quello di prendere la moto e scappare. Ma dove? Probabilmente i suoi compagni erano già partiti, non avrebbero certo aspettato quello che avevano definito un pazzo. Sentiva, ora che aveva recuperato la veste, di aver compiuto la sua missione. Si era finalmente riunito, per un'ultima volta, con le donne che aveva più amato in tutta la sua vita. Decise di indossarla. Non gli importava più nulla della vita, ora che aveva fatto pace con i morti. Sentì l’energia scorrergli nel sangue, nelle fibre, nelle ossa. Ormai erano vicini, erano tutti attorno a lui.
Sapeva cosa sarebbe successo. Sapeva che sarebbe andato al massacro. Sapeva che tutto sarebbe finito.

Un urlo e si gettò a loro, finalmente libero.

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