Scusatemi. Datemi un momento per pensare.
Il mio primo ricordo è di essere stato schiacciato in nulla e avvolto da un profondo silenzio. Il mio corpo non ha sentito dolore; qualunque vestigio di me rimasto perché provasse l'implosione non era meramente fisico. Ma, ero comunque io. In qualche modo, esistevo; ma non fisicamente.
È difficile da spiegare se non lo avete provato voi stessi. Datemi un attimo.
Pensate al sentimento che trasmette una stanza ben decorata ma senza finestre, e immaginate che quel sentimento sia tangibile. Ora, immaginate che le luci siano state spente. La stanza esiste ancora, è ben decorata quanto prima, e avete visto la stanza, quindi voi avete avuto quel sentimento. Ma non potete più vederla. La capacità di esistere di quel sentimento, nel suo stato più puro, è sparita.
Per meno di un momento, sono sia esistito che no in una immobilità assoluta. Poi ho cominciato, e mi sono perdonato per aver antropomorfizzato la metà di me, ho cominciato a muovermi. Qualcosa mi stava succhiando da un tubo, qualcosa di abbastanza magro da arrancare e abbastanza lungo perché lo percepissi in qualche modo, e abbastanza lungo perché io, beh, "sentissi" qualcosa.
Cercherò di esprimerlo il più dettagliatamente possibile che possa l'italiano: c'era un singolo senso di "sinfonia". non una "somma delle parti", ma una "singola" "sinfonia" come un'unità. Non cominciava né finiva; sembrava che fosse sempre stata li, come se fossi entrato in una stanza vuota nel mezzo della performance di un registratore. Non c'era nessuna direzione se non in avanti, neanche indietro, quindi devo pensare che non fosse solamente del suono. Ma…
… dovrei essere clinico, ma non c'é da fare: era bellissimo. Se avessi potuto stare là per sempre, lo avrei fatto.
E poi, d'improvviso, esisto di nuovo. Eccetto che… datemi un altro momento.
Prima che potessi processare qualunque cosa, mi sono sentito collassare da dentro. Fare qualunque cosa dava una strana sensazione, "dolore". Non combaciavo, nulla di me o riguardo me combaciava, come se fossi stato un piolo rotondo che cerca di infilarsi in un buco quadrato, contorto e aggrovigliato in una forma che non avrei dovuto occupare. Simultaneamente, ero costretto ed esposto, come se… scusate, come se l'"espressione" di "me" fosse una lattina schiacciata e tagliente in cui cercavo di rientrare.
Non stavo facendo nulla, penso in senso letterale. "Essere", pensare, esistere, delle forze invisibili stavano facendo pressione e stavano graffiando contro il mio tentativo d'essere.
Ho aperto la bocca per urlare, e solo li ho scoperto di essere in armonia con… penso fosse un violino.
Ciò che emanava dal tutto che, al momento, "era", era un violino. Non per forza il suono di un violino, no, ma… è difficile da spiegare a parole. Il violino era là, ovunque, infuso in tutto, naturale quanto la gravità ma per me cospicuo come un portapillole. Cosa fosse, era assordante, come un armadio di legno trascinato su di un pavimento di legno. Potevo coprirmi le orecchie, urlare, correre ovunque volessi, e avrei comunque sentito il violino.
Non sono sicuro di quanto sia "stato" li, inerte. Per un po', sono certo che la morte avesse smesso di essere un'opzione orribile, ma non potevo neanche morire "correttamente", come se la cessazione della mia vita fosse contingente a qualche regola non scritta. Finalmente dopo quella che sarebbe dovuta essere un'eternità passata a non poter far nulla, mi sono arreso al violino.
E poi, ho sentito il dolore che si affievoliva, e potevo "essere" di nuovo.
Per favore datemi un altro momento.
Non ci sono molte parole esatte con cui descrivere dove mi fossi trovato. L'analogia più vicina sarebbe quella di un nulla piatto e incessante interrotto solamente da una venatura di… qualcosa. Qualcosa di voluto, come se cercasse di trasmettere un messaggio che, almeno per me, evidenziava ciò che non era. Sapevo di essere tornato nell'area di contenimento, ma era poco più che una messa in scena.
Attorno a me c'erano dei contorti, imprecisi, ma decisamente umani "manichini", per dire. Erano tutti mal ridotti, per il vento e la pioggia o un animale altrimenti, ma nessuno di loro era morto. Poco importava la gravità delle loro ferite, nessuno di loro era morto. Non sono del tutto sicuro che potessero morire; nessuno sembrava preoccupato per le loro profonde ferite così da fare altro se non giacere in perfetta immobilità.
Il mio primo impulso era stato di richiamare l'attenzione di uno dei loro, ma anche parlare era… beh, "performativo". Non potevo parlare senza cantare, o camminare senza ballare, o scrivere senza ricadere nelle poesie e nelle sinfonie. Tutto il mondo era in sintonia con il violino che urlava da dietro la mia testa, era come a teatro. Fare qualunque altra cosa era come infrangere l'illusione della performance, come sbattere contro il sipario o come cadere nell'oscurità oltre il margine del palco.
E oltre alla dimostrazione vacua di immortalità(?), non c'era molto altro di degno di nota. Ho danzato per quelli che sarebbero dovuti essere giorni, cercando disperatamente di dare un senso a dove mi trovavo. Dove non vie era miseria o dolore o animali ricoperti di muffa, vi era un forte senso di "assenza". Qualcosa mancava, qualcosa di cui il violino non si era mai curato, come un campo che sai esistere ma che non stai guardando. Come se non fosse importante a ciò che era.
Ma non potevo fermarmi. Fra una comprensione migliore della mia situazione e quella degli uomini morenti attorno a me, l'immortalità del putridume era a stento la scelta ideale. Quindi mi sono spinto in avanti, attraversando il sito, cercando di trovare qualcosa che rassomigliasse una spiegazione.
E, poi ho mangiato la ciliegia.
All'improvviso, ho sentito un peso immenso dissolversi dal mio essere. Il violino se n'era andato; al suo posto vi era una sinfonia familiare. Ero seduto in una cabina, all'interno di una tavola calda dipinta di una gamma brillante di nuovi ed eccitanti colori, mentre un quartetto di donne cantava una canzone su… faccio fatica, non riesco ad esprimerlo a parole. Ma so che era bellissima; che era reale.
E poi mi sono svegliato.
Il dolore di doversi riabituare al violino era amplificato da un'improvvisa scarica di fatica. Il mondo attorno a me non era soltanto triste; sembrava incompleto. L'assenza di qualche "qualcosa" ha lasciato esposto il mio essere; ancor peggio, il ricordo di ciò che avessi perso stava svanendo.
Nell'istante in cui la penna ha toccato la carte, era andato.
Ho riprovato a riottenere quel sollievo; ho mangiato le ciliegie, le ho cucinate, ne ho bollito la buccia, le foglie e i fiori per farne un tè, qualunque cosa pur di recuperare quella realtà, e ogni volta venivo ritrascinato in quel nulla per metà morto. Quindi ho rotto il tabù definitivo: ho mangiato la carne di uno dei musicisti.
Per un breve e bellissimo secondo, ero tornato nel vuoto sinfonico.
Quando la mia esistenza si era ristabilita, ero di nuovo in una stanza rumorosa, di nuovo intrappolato da mezzi a me alieni. Ovunque echeggiava una tromba, un grido costante alla sbagliatezza inerme con cui cercavo di esprimermi.
Cercare di abituarsi non è mai facile. Può avvenire più rapidamente, forse, ma non è qualcosa a cui ci si può preparare. Le regole di ogni… musicista, diciamo, sono uniche quanto onnipresenti. Il solo prepararsi alla prossima equivale a violare le regole imposte dalla musicista attuale.
Non riesco neanche a ricordare cosa fosse accaduto dopo. I mondi, intendo. Vi era un simile senso di incompletezza, buchi dove avrebbe dovuto esserci qualcosa. Nel più di questi, la Fondazione esiste, ma c'è sempre qualcosa di sbagliato. Gli edifici, le persone, tutto è contorto quanto i suoi dintorni. Come delle caricature grottesche, che prendono qualunque ruolo detti lo strumento.
Mi avete chiesto del quaderno, è tutto qui. Quella è una mappa. Dozzine di mappe. Non erano comunque abbastanza; fino a che non sia ha memorizzato il nome e l'aspetto di ciascuna, puoi solo indovinare dove capiterai. Ho pensato che se avessi tenuto traccia di dove ero rispetto a dove ero finito, e come, forse avrei trovato la strada di casa.
… quello che sto per dire ora potrebbe essere un rischio informativo.
Ogni mondo che visitavo era contorto dalla melodia di uno strumento specifico. Alcuni erano minori: ricordo distintamente di un universo dove la Fondazione dava tour guidati della foresta. Ma altri meno: un altro mondo mi aveva impressionato, paralizzato e reso incapace di assaporare, odorare o sentire qualunque cosa non fosse metallo rovente e plastica bruciata, dentro ad un muro di numeri mentre una scossa fiammeggiante si faceva ripetitivamente attraverso il mio essere. Per tutto il tempo però, ho tenuto fede che, prima o poi, sarei tornato a casa.
Quell'ideale era l'unica cosa che mi faceva continuare a ballare. Casa era completa, era colorata e vibrante e "intera". L'esistenza non era costretta ad esprimere nulla se non la completezza dell'essere. Ed era silenziosa. E credo che fosse questo il perché, anche se Fiorenza appariva ovunque tranne che qui, non avevo tenuto a cuore questo mondo.
Qualcosa deve essere cambiato, perché non avevo mai notato il violoncello prima di quel momento.