A volte, quando chiudeva le sue palpebre appassite, il vecchio poteva vedere le praterie della sua infanzia, le distese d'erba al chiaro di luna, percepiva e sentiva le dolci brezze di vento sulla sua pelle. Ma era stato tanto tempo fa, no? A volte, quando sognava, si dimenticava di essere vecchio e immaginava di saltare attraverso quei campi, urlando con la gioia elementale dell'esistenza. Ce n'erano altri nel suo sogno, giovani come lui, i loro volti erano sfocati ma così straziantemente familiari. Gli sembrava sbagliato averli dimenticati.
Poi si sarebbe svegliato di nuovo e avrebbe visto le pareti metalliche corrose della sua prigione. Tecnicamente, non era legato in questa cella; poteva andarsene in qualsiasi momento - doveva solo alzarsi ed uscire. Ma là fuori il mondo era diventato qualcosa di folle, troppo luminoso, troppo complesso, come se fosse stato progettato per confonderlo e stordirlo. Ardenti luci bianche, superfici casuali a intervalli vertiginosi, in modo che l'aria sembrasse farlo affogare o soffocare. Non era così complicato quando lo avevano portato la prima volta in questo luogo triste - o forse era lui che era cambiato, le sue facoltà andavano disperdendosi nelle pareti soffocanti.
Quindi qui è rimasto. Cercando di rifugiarsi nella fantasia, perdendo il presente come aveva perso gran parte del passato, ma quelle praterie aperte stavano diventando sempre più difficili da richiamare di sua spontanea volontà. Invece, si ritrovava a camminare per infiniti corridoi contorti con porte che cedevano per il decadimento e la scura muffa umida che gocciolava dal soffitto. Si chiese se stesse immaginando la rovina della sua stessa mente.
Era stato giovane tempo fa, pensò. Ricordava sua madre e i suoi fratelli, sebbene nella sua mente si fossero mescolati con i suoi figli, e come giocavano tra gli alberi e nelle praterie aperte. Gli era stato insegnato a cacciare: a quei tempi le prede erano abbondanti (no, non abbondanti, pensava, ma più facili da catturare). Sua madre gli aveva portato un vecchio a brandelli ancora vivo per mostrargli come si cacciasse, lui e i suoi fratelli e sorelle lo colpirono e graffiarono fino a quando non si contorse e morì. Pensava, si chiese - sentiva? Capiva che era vecchio e che non poteva più difendersi? Anche allora la sua tribù non era grande - mai più di venti.
A quei tempi le prede erano diverse: le loro ossa erano lunghe e spesse, avevano creste sugli occhi e indossavano le pelli di altri animali. I loro denti e artigli erano a malapena una minaccia per le lunghe braccia della sua tribù, ma a volte avevano altri denti fatti di pietra che reggevano tra le mani, affilati oggetti scintillanti che strappavano la carne.
Poi la preda cambiò. Una preda piccola e scarna, con più denti di pietra rispetto alle altre, tanto che all'inizio la tribù cacciava solo le teste d'osso. Anche la preda più piccola cacciava le teste d'osso, ma non per cibarsene, e tra loro la scorta si esaurì. Questa nuova specie di preda era più difficile da cacciare e catturare, anche allora: si nascondevano in cunicoli che presto diventavano tane con degli orribili rami incrociati esattamente perpendicolari tra loro che facevano lacrimare gli occhi e rigonfiare lo stomaco se guardati dalla sua tribù. Avevano una luce accecante, simile a un fulmine ma contenuta in un fascio di bastoncini. Tuttavia, riuscirono a progredire; lui trovò una compagna - aveva scoperto che se si fosse concentrato, avrebbe potuto ricordare le curve del suo corpo mentre erano distesi insieme - ed ebbe dei figli che correvano selvaggiamente nelle pianure come aveva fatto lui.
Ma la preda si era radicata ulteriormente, sembrava che più le prede si riunivano, più era difficile entrare, attraversare il mondo oscuro che permetteva loro di muoversi attraverso le pareti e i pavimenti delle tane. Avevano circondato le loro tane con acqua corrente; la prima volta che si nascose, ricordò un movimento che gli consumava la mente; un assaggio di ciò che il mondo intero sarebbe diventato.
Come era stato catturato? Pensò per un momento che non sarebbe più riuscito a ricordarselo, fino a quando le basi di un ricordo non riapparirono nella sua mente. Era vero? Chi potrebbe dirlo?
Era stato solo - forse per decenni. L'ultimo membro della sua tribù - non ricordava più se fosse stata la sua compagna o una sua progenie - era scomparso un giorno come tutti gli altri. A volte si intratteneva pensando che fosse ancora viva, poi si chiedeva cosa ciò significasse. Non avrebbe voluto nulla di tutto questo - questo strazio, questo incomprensibile confinamento - per lei o per qualsiasi membro della sua tribù.
Pensava di ricordare di essersi svegliato affamato un giorno - più fame di quanta avesse mai provata in tutta la sua esistenza. Si era destato dalla semi-ibernazione nell'albero nel quale era nato e vissuto. La comunità della preda era coperta dall'ombra di una collina sul lato opposto di un lago che il vecchio ricordava essere molto più grande durante la sua giovinezza. La preda beveva l'acqua del lago, se ne era reso conto molto tempo fa, e visto che erano più di un migliaio, l'avevano prosciugato. Quando sarebbe stato del tutto asciutto, la preda sarebbe migrata, e poi cosa avrebbe fatto? Si avvicinò, spostandosi sopra e attraverso la terra che le prede avevano marcato con i loro alti semi d'oro, succhiando la vita da lago.
La colonia era più grande di quanto ricordasse e anche più smagliante: la luce che le prede producevano per illuminare la notte, che un tempo era il campo di battaglia della sua tribù, nasceva da grandi superfici piatte e riflettenti che sembravano del tutto innaturali. Solo uno, pensò; aveva solo bisogno di uno di loro, poi sarebbe tornato a dormire. Voleva trovare una delle grotte che la preda aveva costruito nella colonia per dormire. Rabbrividì mentre attraversava una fredda luce gialla. Qui, ai margini della colonia, c'erano ancora degli spiazzi intorno a ogni tana, anche se l'erba era stata sfoltita così accuratamente che non ne era quasi rimasta.
Si ricordò di aver visto uno di loro - era piccolo, gustoso nella sua mente - e sbavò. Lo osservò per giorni, aspettando un momento in cui lasciasse la sicurezza del branco (in questi giorni solo pochi momenti preziosi gli avrebbero permesso di catturarlo - custodivano i loro giovani così ferocemente). Poi, mentre correva vicino alla sua tana, lo prese; le lunghe braccia lo intrappolarono e le dita gli penetrarono la carne. Una torsione eseguita molte, molte volte, e morì. Non voleva aspettare per nascondersi; la sua fame era troppo intensa. I denti che gli rimanevano stavano già rosicchiando i tessuti molli del naso e delle orecchie mentre teneva stretto il corpicino e si ritirava tra le ombre degli alberi.
Poi la luce. Poi il dolore. Le prede lo trovarono ore dopo, mentre consumava ciò che restava del bambino, accecandolo con le loro luci brillanti. Svariati colpi piovvero sul vecchio, ferendolo. Sentì qualcosa toccargli il braccio. Un oggetto splendente era attorcigliato tra il suo polso e l'albero. Poi se ne andarono. Tentò di ritirarsi nei campi della sua mente, ma il ferro freddo glielo impedì. Trovò un modo per sfuggirgli, più tardi, ma fu dopo che lo misero nella cella al centro del labirinto.
Poi arrivarono i camici bianchi e lo portarono via, le luci diventarono più luminose e il dolore più intenso. Niente cibo, niente cibo. Stava morendo, pensò, morendo di fame ogni giorno di più. Durante la sua adolescenza vide morire un uomo di fame: aveva ucciso un altro membro della tribù e nessuno poteva condividere il cibo con lui. Gli arti gli si erano svuotati e la sua pelle era diventata come una foglia secca.
Per molto tempo aveva sperato che altri della sua specie venissero a trovarlo, salvandolo da questa umiliazione. Ma ciò non avrebbe alleviato la sua fame, lo sapeva. Non avrebbero condiviso il loro cibo con lui. Ora lui era diventato quel vecchio e aveva commesso un peccato. Non riusciva a ricordare il motivo per cui aveva combattuto contro il maschio anziano: i tempi erano difficili, le prede scarseggiavano e l'altro maschio aveva deluso la tribù. Ipotizzò più tardi che il maschio più anziano potesse essere stato suo padre.
Il vecchio ricordò gli spettatori, i loro volti offuscati e mutevoli, che osservavano mentre spingeva il maschio anziano a terra e metteva la mani nel suo cranio, muovendo poi le dita fino a quando la vita lo abbandonò. Ma non fu in grado di fare di meglio e il suo popolo dimagrì sempre più. Decisero di abbandonarlo, uno ad uno, in cerca di terreni di caccia più fertili. Ora era solo. E con il trascorrere degli anni in quella cella di metallo, iniziò a pensare qualcosa di terribile: io sono l'ultimo.
Una volta, queste sconcertanti creature in camice bianco non lo avrebbero confuso. La sua mente sarebbe stata chiara e nitida e avrebbe potuto attraversare l'orribile labirinto fuori dalla sua cella.
Una volta ma non più. Ora vagava da solo nell'oscurità dell'acciaio corroso, il dolore allo stomaco offuscava ciò che era rimasto della sua personalità.
Ho perso tutto, pensò. Ho perso tutto!
Si contorse dopo aver realizzato che nella sua angoscia si era allontanato dalla sua cella più di quanto avesse mai fatto prima: i corridoi malridotti dei suoi pensieri si sfaldarono e si ritrovò in quello che pensò essere il mondo esterno, ma era completamente diverso dal labirinto che ricordava. Qui l'aria era così fresca che i suoi vecchi polmoni espirarono all'improvviso come se fossero stati immersi nel ghiaccio. Si trovava in un piccolo spazio simile a un tunnel, come le tane delle volpi o dei tassi, ma con gli angoli spessi e in metallo nello stile della preda.
Sotto di lui c'erano dei fasci di luce e si accorse che poteva vedere attraverso essi il mondo dei camici bianchi, pulito e sterilizzato. Ma qualcosa non andava. Delle luci rosse ruotavano in maniera costante, ipnoticamente. I camici bianchi correvano; fuggivano via per essere rimpiazzati da altre creature con elmetti blu ed espressioni determinate.
Poi, lo sentì, l'odore di una preda ferita, così saporito, così pieno di ricordi ma così straziantemente lontano che si chiese se se lo fosse immaginato, come tante altre cose. Ma no, eccolo di nuovo. Il vecchio sgranchì i suoi lunghi arti neri e si inarcò il più possibile, le sue narici lacerate risucchiarono l'aria fresca. Le sue orecchie, smussate com'erano, colsero quel grido dimenticato da tempo, un casuale assemblaggio di sillabe, quasi umano, mentre la preda urlava dolorante e impaurita.
La bava scese copiosamente sul suo mento avvizzito e i suoi vecchi occhi asciutti si inumidirono di nuovo mentre ricordava del midollo, e del sangue che bagnava la carne rendendola rosa e succosa, proprio come ai vecchi tempi. Senza dubbio i camici bianchi gli avrebbero tolto questo boccone come avevano fatto in passato. Non gli importava; non era rimasto molto della personalità del vecchio per preoccuparsene. Poteva solo muoversi attraverso i vari piani, verso la luce.
Il vecchio arrivò gocciolando, gocciolando, gocciolando giù dal muro…