Il canto della cicogna
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Antonin Zakharov non aveva mai avuto paura di niente. Perché temere gli animali più piccoli di te? Perché avere paura della notte? Durante l'infanzia la presenza in casa di suo padre, che aveva fatto parte dell’Armata rossa, era sufficiente a rassicurarlo. Adesso che era un uomo, la Baba Yaga e gli spauracchi non erano altro che storielle che si raccontavano ai bambini troppo turbolenti per calmarli un poco. Le altre paure? Zakharov era sempre riuscito a razionalizzarle, mantenendo la calma anche di fronte a situazioni che avrebbero fatto rabbrividire persino i più coraggiosi agenti del KGB. Ecco perché era lì, ecco com'era riuscito ad arrivare al posto d’investigatore e a diventare un importante elemento di collegamento tra le comuni forze dell'ordine dell’Unione Sovietica e il GRU-P. Questo è ciò lo ha portato alla Lubjanka, al quartier generale del KGB.

L'agente davanti a lui sembrava stanco e impaurito. Era pallido. Una vergogna per un'istituzione così essenziale come la polizia segreta nel mantenimento dell'ordine e dell'ideologia, tanto più che lì, nel Baltico, i facinorosi erano intenti ad avvelenare le menti dei locali con idee perniciose. Un orologio portante un'iscrizione in alfabeto latino era posato sulla scrivania. A Zakharov era stato detto che il KGB probabilmente possedeva un oggetto suscettibile d’interesse per il GRU-P.

Negli ultimi tempi l'orologio in questione, di marca svizzera, era stato coinvolto in due casi di morti sospette: quella di un ufficiale decorato per le sue gesta belliche in Afghanistan qualche anno prima e quella di uno scienziato ricompensato per il suo lavoro. Il primo era stato ritrovato in casa sua, pugnalato al cuore con quello sembrava essere un lungo rompighiaccio e con il corpo coperto di numerose ferite. Il secondo si era impiccato nel suo ufficio all'Università di Mosca. Entrambi avevano ricevuto l'orologio in dono dal Partito.

Per Zakharov, tutto ciò aveva l'aria di essere una coincidenza. Era facile gridare all'anomalo non appena mancavano degli indizi. Tuttavia, l'agente che aveva di fronte pareva volersi sbarazzare a tutti i costi dell'orologio per una ragione che sembrava incapace di spiegare. Si guardava nervosamente attorno ogni dieci secondi. Zakharov lo vide sussultare quando un uccello cantò davanti alla finestra dell'ufficio. Che donnicciola… L'agente del GRU-P lesse i dossier con attenzione. Certo, poteva trattarsi di una serie di eventi non correlati, ma aveva imparato a essere scrupoloso. Le circostanze del presunto omicidio del militare erano curiose. Accertato che il colpo al petto era stato fatale, le analisi non erano state però in grado di determinare la causa delle lacerazioni sul corpo della vittima. Concernente il secondo caso, la pressione esercitata dal KGB aveva già fatto crollare diversi ricercatori e la censura ne aveva spinto più di uno a commettere l'irreparabile. Ma questo qui era un cittadino modello e le sue ricerche non avevano mai creato problemi al regime. E poi, c'era anche il comportamento del suo interlocutore… Aveva già visto persone in questo stato, ma in generale erano coloro che il KGB perseguiva a mostrare segni di paranoia, non gli agenti della polizia segreta.

Zakharov prese l'orologio e intravide un sorriso teso, che mescolava sollievo e nervosismo, sul viso dell'agente, intento ad aprire la porta per lasciarlo uscire. Fu allora che quest'ultimo proferì una frase parecchio bizzarra:

— Spero che adesso la smettano di cantare.

L'orologio non era una priorità per Zakharov, aveva molti altri dossier da trattare. La burocrazia rimaneva imponente all'interno delle istituzioni sovietiche e il GRU-P non faceva eccezione.

Aveva posato l'orologio nel suo ufficio dopo avergli dato una rapida occhiata. Funzionava normalmente e, nel silenzio dell'appartamento moscovita di Zakharov, si poteva percepire il ticchettio della lancetta dei secondi che percorreva il quadrante.

Immerso nei suoi dossier, Zakharov cessò di prestargli attenzione, anzi lo trovava leggermente riposante. Dopo qualche ora tuttavia, quel ticchettio divenne inspiegabilmente insopportabile. Il Russo tentò di fermarne il meccanismo, ma, quando alzò gli occhi dall'orologio, si rese conto che il rumore che lo disturbava non proveniva dall'oggetto che teneva in mano, bensì dalla sua finestra. Un piccione marciava con nonchalance sul cornicione di ferro, le sue zampe terminavano in piccoli artigli che graffiavano la lastra di metallo. Zakharov aprì la finestrà e cercò di scacciare quell'uccello fastidioso. Sentì le ali sbattere contro il suo naso, perciò indietreggiò e cadde all'indietro. Imprecando contro la bestiaccia, si alzò e vide una massa scura sulla chiesa del suo quartiere. Non era un qualcosa che si vedeva spesso a Mosca. Sul campanile vi era una cicogna nera, la sua sagoma contrastava con il cielo nuvoloso della capitale russa. Zakharov la trovava innaturalmente grande, forse era il modo in cui si ergeva in cima alla torre che dominava il quartiere a renderla così imponente. Sebbene una certa distanza lo separava dall'animale, Zakharov poteva vedere il suo lungo becco rosso sangue sormontato da due occhi dello stesso colore che puntavano nella sua direzione. Aveva la sgradevole sensazione che l'uccello lo stesse guardando direttamente negli occhi, minaccioso. La sua presenza aveva un qualcosa di irreale, ancor più in questo periodo dell'anno, quando il tetto dell'edificio era ricoperto da un sottile strato di neve. Dopo uno scambio di sguardi che sembrò durare un'eternità la cicogna spiegò le ali, come un angelo funesto sul campanile, e volò verso la finestra alla quale Zakharov era appoggiato, ipnotizzato da questa apparizione. L'uccello sorvolò l'edificio e sparì.

Una strana sensazione percorse Zakharov, una certa inquietudine. Per la prima volta, nel profondo del suo animo, si sentì minacciato.

Nei giorni che seguirono, parecchi piccoli incidenti di natura insolita intaccarono la routine di Zakharov, finora ordinata come uno spartito musicale, che provocarono un certo fastidio nell'investigatore.

All’inizio, ci fu questo uccello che credette fosse una buona idea sfogarsi sul suo cappotto grigio, mentre lui faceva la sua passeggiata quotidiana nel parco vicino alla sede moscovita del GRU-P. Qualche giorno più tardi, dei passeri che lo circondavano mentre stava mangiando tranquillamente su una panchina si accanirono sul suo pasto.

Un giorno, nel mentre che aveva aperto la finestra per sbarazzarsi ancora una volta di quel satanico piccione che sembrava aver scelto l'appartamento di Zakharov come nuovo domicilio, un altro uccello, un tordo, era riuscito a intrufolarsi. Gli artigli dell'animale gli avevano lacerato il viso, a qualche centimetro dall'occhio. In un primo momento, Zakharov tentò di far uscire il tordo a colpi di scopa e di imprecazioni che sapeva essere inutili. L'uccello si limitò a fissarlo con uno sguardo malefico e cambiò posto.

Mentre l'uccello atterrava sulla sua scrivania, vicino all'orologio che il KGB gli aveva affidato, Zakharov agitò le braccia in direzione della finestra più vicina. Il risultato fu il contrario di ciò che sperava: il tordo si mise a svolazzare e ad aggredirlo a colpi d'ala e di becco. Come se non fosse già abbastanza, altri due uccelli approfittarono delle finestre aperte per intrufolarsi anche loro nell'appartamento. Quand'è troppo, è troppo! Con un gran gesto della mano spinse via il tordo, che andò a spiaccicarsi contro il muro. Afferrò la sua arma di servizio e la scaricò sugli intrusi in una nuvola di piume e sangue. Vide il suo riflesso in un specchio appeso davanti a lui, una striscia rossa sulla guancia, appena sotto lo squarcio che il tordo gli aveva fatto dono. Lo specchio era rivolto verso una finestra e gli parve di vedere una grande ombra minacciosa stagliarsi sul davanzale. Un fastidio piumato nuovo di zecca? Si girò, la pistola puntata in direzione del suo prossimo obiettivo, ma il davanzale della finestra era vuoto, non si vedeva altro che la grande piazza ai piedi dell'edificio di Zakharov e la chiesa. Su uno degli steccati di fronte a quest'ultima c'era di nuovo una cicogna nera, il becco scarlatto infilato tra le piume scure del collo. Gli occhi rossi dell’animale sembravano sondare l’animo di Zakharov. Il vento freddo di Mosca agitava manto scuro dell'animale.

In quel momento, Zakharov comprese di aver commesso un errore e che gli toccava pagarne il prezzo, in un modo o nell'altro. Per la prima volta nella sua vita, si sentì in apprensione.

Si voltò nervosamente per sottrarsi allo sguardo inquisitore dell'animale, ma quando riposò gli occhi sulla piazza l'animale era sparito.

Le settimane si susseguirono e Zakharov si accorse che c'erano sempre più uccelli a Mosca questo inverno, e soprattutto nella sua vita quotidiana. Al mattino, li sentiva cantare alla sua finestra. Sulla strada per il suo ufficio, passava attraverso stormi di piccioni rannicchiati tutti insieme e che volavano in una tempesta di piume al suo passaggio, non lesinando di appioppargli qualche schiaffo con le ali oppure dei graffi, la stessa cosa succedeva quando tornava a casa. Sulle finestre del suo appartamento, c'erano sempre tre o quattro uccelli di specie diverse. Aveva rinunciato a scacciarli per non rivivere un episodio come quello del tordo. Quando scendeva la notte, il grattare delle loro zampe sulla ringhiera e, ogni tanto, il beccare alla finestra si mescolavano al ticchettio dell'orologio che aveva quasi finito per dimenticare, troppo impegnato a inveire contro quegli uccelli pestiferi, sempre più numerosi, sempre più opprimenti. Nel sonno, un dettaglio era ricorrente: delle piume nere. Al suo risveglio, il cantare degli uccelli e il ciclo si ripetevano.

Zakharov aveva la sensazione di star diventando pazzo. Il minimo tubare, il più semplice cinguettio bastava a sconcertarlo. Aveva tentato più volte di respingere l'assalto di piccioni, passeri e tutti gli altri tipi di uccelli presenti nelle strade di Mosca. Ma non appena riusciva a colpire uno dei suoi aggressori, poteva vedere l'ombra minacciosa della cicogna nera che si avvicinava sempre di più a ogni apparizione. Anche di notte, gli sembrava di vedere all'angolo di un vicolo, in cima a un edificio, i due piccoli rubini fiammeggianti che lo scrutavano nell’oscurità.

Lo perseguitavano fin dentro i suoi sogni, dove la cicogna irrompeva, osservandolo da un albero, da una finestra o da un muro. Zakharov cominciò a perdere il sonno. Non solo la presenza inquietante di quell'uccello dal piumaggio scuro nei suoi sogni gli rendeva il riposo difficile, ma c'erano pure il tubare incessante, il mucchio crescente di uccelli davanti alle finestre, lo scricchiolio degli artigli sul ferro, il fruscio delle ali e l'impressione di non vedere più uccelli ma una massa informe, piumata, rumorosa, a impedirgli di addormentarsi.

Aveva chiesto ai suoi colleghi se anche loro avessero notato un'abbondanza aviaria questo inverno, così come di un'aumentata aggressività degli uccelli in questione. Gli era stato detto che doveva aver abusato della bottiglia. Le sue occhiaie e la mancanza di sonno avevano dato adito a voci nei corridoi del quartier generale del GRU-P che andavano in questa direzione. Il grande Antonin Zakharov, agente modello, sarebbe sprofondato nell'alcolismo e non sarebbe stato altro che l'ombra di se stesso. Ma i fermenti nelle Repubbliche baltiche e il recupero di oggetti anomali che l'Unione sovietica aveva reperito e conservato laggiù monopolizzavano il tempo di tutti, e i problemi di Zakharov non erano che una fonte di goliardia nel mezzo della tensione ambientale che non aiutava l'investigatore a restare padrone dei suoi nervi. Era fuori questione per le teste pensanti del GRU-P, lasciare che qualcosa cadesse nelle grinfie della Fondazione o di altri gruppi del genere. Dannati cantanti! Doveva essere questo il momento in cui hanno mostrato la loro vera natura di subdoli traditori! Quanto a Zakharov, aveva bisogno di calma…

E questi fottuti uccellacci continuavano ad ammucchiarsi alla sua finestra! L'osservavano come una bestia in gabbia! Lo tormentavano giorno e notte senza tregua! Ne aveva abbastanza! Abbastanza!

La sua pazienza si era ben sgretolata, i suoi nervi cedettero. Agguantò un grosso libro sulla scrivania e lo lanciò in direzione della finestra del suo ufficio al secondo piano dell'edificio del GRU-P, nelle vicinanze della Piazza Rossa. La finestra andò in frantumi e gli uccelli volarono via. Tutti tranne due, che caddero a terra. Zakharov, che aveva perduto completamente il controllo, si era precipitato urlando verso la finestra rotta. Li vide, spiaccicati sulla piazza vicino al proiettile di fortuna, le ali spiegate, trafitte dai vetri rotti, come angeli caduti dal cielo.

Dopodiché, udì una serie di piccoli schiocchi inquietanti — di becco, si disse — nella stanza, vicino alle sue orecchie. Era lei… Non aveva mai sentito il canto di una cicogna, tuttavia lo sapeva, ne era sicuro. Il canto minaccioso si fece più vicino. Questa creatura dell'inferno sembrava scegliersi dei momenti specifici per venire e tormentare la sua vittima. Zakharov immaginava l'uccello che si avvicinava alle sue spalle, sbattendo le ali, pronto a strappargli il cuore con il lungo becco, pronto a tagliargli la gola con gli artigli o a scaraventarlo fuori dalla finestra rotta con grandi battiti d'ali. Si voltò bruscamente, ma non c'era nulla. Guardò di nuovo fuori dalla finestra e vide la cicogna che l'osservava ai piedi dell'edificio. Agitò le ali come se stesse lanciando un avvertimento. Nessuno sembrò prestare attenzione all'animale, che non aveva motivo di trovarsi lì.

Il superiore di Zakharov l'aveva rispedito a casa, argomentando che, nella situazione attuale, un agente incapace di mantenere i nervi saldi non era buono a nulla, ma era comunque disposto a fare un favore al suo subordinato, per la qualità del suo lavoro passato, non denunciando l'incidente che aveva allarmato tutto il piano e a condizione che rimanesse a casa per i giorni a venire. Il resto della giornata, Zakharov la passò davanti alla finestra del suo appartamento per assistere a una nuova apparizione della cicogna nera. Certo, la visibilità continuava a diminuire a causa degli uccelli che sciamavano davanti alla sua finestra, ormai ricoperta di guano, ma sapeva che lei era lì, da qualche parte, pronta a piombargli addosso alla minima occasione.

L'indomani, dopo un sonno troppo poco riparatore, prestò attenzione all'orologio. Da quando era entrato in suo possesso, erano cominciati i suoi tormenti. Si ricordò le condizioni dell'agente del KGB che glielo aveva dato. Aveva recuperato l'oggetto qualche tempo prima di affidarlo a Zakharov. E se, con l'andar del tempo, si sarebbe ridotto anche lui come quel relitto spaventato? Aveva bisogno di capire cosa stava succedendo. Per la prima volta da quando aveva lasciato la Lubjanka, consultò i dossier e intravide ciò che lo attendeva se non avesse agito al più presto. Sicuramente esausto mentalmente, lo scienziato era crollato e il militare doveva essere stato vittima di un attacco ben più violento di quello che aveva subito Zakharov qualche settimana prima. Quello che in precedenza sembrava un colpo inferto da un rompighiaccio, poteva essere soltanto l'affondo di un lungo becco agli occhi di Zakharov, ormai ossessionato dalla cicogna. E le lacerazioni il frutto di ripetuti attacchi dei piccoli accoliti di questo demone, ormai palese che fossero legati a quest'ultimo, pronti a riportare ogni mossa del loro bersaglio, sussurrandosi tra loro oscure macchinazioni, indebolendo il suo spirito, spezzandolo psicologicamente.

Cosa c'era che non andava in questo orologio? Era un oggetto anormale creato per nuocere allo Stato Sovietico? Esistevano in Russia molteplici gruppi anomali, sorvegliati da vicino o da lontano dal GRU-P. Inoltre, l'orologio era stato fabbricato in Svizzera. Si trattava sicuramente di un tiro mancino degli Occidentali.

Gli sovvenne un'idea. Afferrò a due mani il busto di Lenin che si trovava sulla sua scrivania e lo abbattè sull'orologio. Potè udire il vetro del quadrante frantumarsi, sentire l'oggetto piegarsi e soccombere al colpo. Sbuffò – il busto aveva un certo peso – e ripose l'arma di fortuna al suo posto abituale. Ammirò la fonte dei suoi problemi ridotta allo stato di pezzi di ricambio inutilizzabili.

Durante la notte, mentre si trovava nel suo letto, Zakharov riuscì di nuovo a distinguere gli schiocchi che aveva sentito quella mattina. Erano accompagnati dal rumore di passi lenti sul pavimento che indicavano che la loro fonte aveva un certo peso, e ciò confermava quello che Zakharov già pensava: la creatura era più grossa e massiccia di una semplice cicogna. Visualizzò le lunghe zampe rosse che terminavano in artigli affilati come coltelli che si posavano sul pavimento. Poteva già immaginarseli mentre strappavano via i suoi occhi. I passi provenivano dal salotto, dove aveva sistemato la scrivania su cui giaceva ciò che restava dell'orologio. Gli schiocchi sembravano avere un ritmo, una melodia, uno dei canti che quei maledetti Estoni intonavano sui video che il GRU-P aveva mostrato ai propri dipendenti per giustificare il rimpatrio a Mosca di oggetti anomali situati nella regione baltica.

I passi si avvicinarono alla stanza da letto di Zakharov, il quale portò la mano sulla sua arma di servizio. Gli schiocchi si facevano sempre più pressanti, più forti… La porta era chiusa, un uccello ordinario non avrebbe potuto aprirla, ma ormai gli era chiaro che questo animale non aveva niente di normale. Era un demone, un funesto messaggero venuto a perseguitarlo e il suo lugubre canto, accompagnato dal coro degli uccelli alla sua finestra, non faceva che confermarlo.

Benché inquieto, si teneva pronto: aveva distrutto l'orologio, pertanto niente sarebbe stato più in grado d'invocare questa cicogna del malaugurio, se fosse riuscito a sbarazzarsene. Poi all'improvviso, quando sembravano essere proprio fuori dalla porta, gli schiocchi e i passi si spensero…

Il silenzio era rotto soltanto dagli uccelli alla finestra della camera. I piccoli colpi sul vetro, lo sbattere delle ali, il tubare e gli strilli sembravano riprendere la melodia degli schiocchi ormai silenziosi. Zakharov sentì un liquido freddo scorrergli lungo le tempie, lo stomaco attorcigliarsi, il cuore battere forte. Tutti i suoi sensi erano in allerta.

Per la prima volta in vita sua, Antonin Zakharov aveva paura.

Con il silenzio che continuava a essere rotto dal coro aviario che si nascondeva dietro le tende, Zakharov credette di vedere un'ombra in un angolo della stanza. Era come se il suo petto fosse in una morsa che veniva stretta sempre di più. Puntò l'arma in quella direzione e con la mano libera premette l'interruttore della luce.

Non era altro che il suo cappotto appeso al muro. Sospirò di sollievo. Ma quando voltò la testa, la cicogna era accanto al letto, il lungo becco a pochi centrimetri dal suo viso, che riprendeva il suo sinistro canto. Lo fissava con quegli occhi rosso sangue, puntando il becco altrettanto sanguinolento alla sua gola. Sebbene fosse armato, Zakharov era paralizzato dal terrore, incapace di fare un qualsiasi gesto. Il becco rosso a meno di due centimetri dal collo continuava ad attentare alla sua vita. Cercò di indietreggiare, ma il mostruoso uccello salì sul letto e si rivelò in tutta la sua imponenza. Doveva avere le dimensioni di un uomo adulto. Il suo sguardo, benché ardente, emanava un'aura glaciale, più fredda del vento di Siberia che poteva abbattersi su Mosca. La cicogna aprì le ali scure, cosa che la rendeva ancora più grande, più inquietante. Zakharov avvertì il suo coraggio scivolare via da lui attraverso i pori della pelle. L'animale si avventò, piantando il becco nella gola della sua vittima.

Fu grondante di sudore che Zakharov si risvegliò, urlando. Era soltanto un incubo! Scese dal letto e si precipitò al lavabo che si trovava nella sua camera per sciacquarsi la faccia. Era dunque questa, la paura?

Fuori, ci fu uno sbattere di ali. Zakharov sobbalzò, l'aveva udito come se l'uccello fosse all'interno della sua camera. E se, distruggendo l'orologio, si fosse condannato? In ogni caso, si rassicurò, sarebbe stato l'ultima vittima del maleficio che conteneva. Sull'orlo della follia, incapace di trovar sonno, andò in salotto. Il grido che aveva lanciato doveva aver svegliato i suoi vicini, visto che erano intenti a battere contro il muro in segno di protesta.

L'orologio era sempre lì, intatto… della piume nere erano sparse qua e là nella stanza. Il ticchettio della lancetta dei secondi gli ricordava sempre più gli schiocchi di becco della cicogna nera. Era diventato un coacervo di paura, che sembrava evocare tutti questi uccelli. Per non doverlo più sentire, ripose l'orologio in una scatola di sigari, che nascose in un armadio.

Era necessario che si sbarazzasse di questo affare al più presto, anche se ciò avrebbe significato fare appello al Diavolo in persona. Questi uccelli del malaugurio sarebbero diventati una spina nel fianco dell'individuo o del gruppo a cui lo avrebbe dato.

Ci vollero ben due settimane, due settimane d'insonnia e di molestie aviarie per entrare in contatto con la Fondazione. Rischiava la sua vita, ma preferiva morire rendendo servizio all'Unione Sovietica piuttosto che come le due precedenti vittime dell'orologio. Erano passati tre mesi da quando aveva visto la cicogna per la prima volta, l'inverno aveva lasciato posto alla primavera, così come il 1990 aveva lasciato posto al 1991. L'incontro doveva aver luogo in Polonia, a Poznan, zona più o meno neutra. Aveva trovato strano che ciò non accadesse in Russia. Questi demoni avevano agenti dappertutto, persino in territorio sovietico. Aveva ottenuto l'autorizzazione del suo superiore per lasciare il paese. Secondo lui, Zakharov aveva bisogno di una vacanza, anche se più a ovest. Il viaggio avvenne in treno – fuori questione di viaggiare in aereo per ovvie ragioni. Fu alla stazione che il Russo vide l'uomo che doveva essere il suo corrispondente della Fondazione.

Si trattava di un grosso uomo in giacca e cravatta. Portava degli occhiali da sole su un lungo naso angoloso. Un dettaglio saltò agli occhi Zakharov: un nastro blu, bianco e nero sulla tasca anteriore della giacca. Un Estone… Uno di quei subdoli mentitori, uno di quei ingrati traditori, uno di quei contadini cantanti… Se avesse potuto provare tutto ciò che Zakharov aveva subito, sarebbe stata una piacevolissima consolazione. Ma questo non cambiava il fatto che il Russo desiderava farla finita al più presto, l'idea di stare vicino a quell'uomo per più di un quarto d'ora lo ripugnava. Inoltre, dopo questo incontro, aveva in programma di raggiungere l'Ucraina e una stazione balneare sul Mar Nero.

— Antonin Zakharov, GRU-P, dichiarò.

L’uomo levò il naso appuntito dal giornale e sorrise. Non era un sorriso rassicurante, ma piuttosto un ghigno beffardo. A Zakharov parve persino di sentire una risatina, simile ai versi che era solito udire da alcuni dei suoi aguzzini piumati.

— Il mio nome non le importerebbe granché, disse l'uomo con un tono secco come gli schiocchi di becco che perseguitavano il Russo da mesi. Non vogliamo trascinare a lungo questa intervista, tanto più che, visti i colori che indosso, sembra avere una spregevole opinione di me. Le assicuro che non ho intenzione di diventare suo amico. Afferma di avere in suo possesso un orologio che potrebbe interessarci. Ebbene, mi faccia vedere…

Zakharov gli consegnò l'orologio. Prima di afferrarlo, l’Estone prese una foto dalla sua tasca e la comparò con l'oggetto che gli veniva presentato. Chiese al Russo di mostrargli il retro del quadrante.

— Può benissimo tenerlo lei stesso, sputò Zakharov.

— Per finire come lei Tibla? No, grazie. Faccia quello che le dico e se troverò quel che sto cercando, prenderò l'orologio e avremo finito.

A malincuore, ancor più dopo essersi fatto insultare, il Moscovita mostrò all'agente quel che voleva. Dopo una decina di secondi a decifrare quel che c'era inciso sulla placca dietro il quadrante, il Baltico afferrò l'orologio e se lo infilò con nonchalanche nella tasca insieme alla foto. Zakharov aveva già descritto – senza entrare troppo nei dettagli, così da riservare qualche sorpresa alla Fondazione nel caso ignorasse alcuni aspetti dell'oggetto in questione – i suoi effetti anomali. Questo tizio o era un dilettante o serviva come carne da macello… Tuttavia, la Fondazione gli aveva promesso un compenso, e non meno importante.

Mentre l'Estone stava per voltargli le spalle e andarsene, Zakharov l'afferrò per il braccio. L'uomo in giacca e cravatta guardò la mano con un certo disgusto.

— Mi avete promesso delle spiegazioni, uno scambio d'informazioni, quello che sapevate su questo orologio per l'orologio stesso.

Il Baltico articolò con disprezzo:

— Tolga le sue sudicie zampe dal mio braccio…

— Non finché non avrò sentito quello che voglio sentire. Cosa attira questi passeri?

L’Estone fece un sorriso malvagio. Si staccò e si batté la manica come per ripulirla da un invisibile strato di polvere. Si riaggiustò la giacca e guardò freddamente Zakharov.

— Secondo lei, perché proprio un Estone è venuto al suo appuntamento? Perché ho preso l'orologio senza batter ciglio non appena ho verificato che fosse proprio quello a cui stavo pensando? E soprattutto, perché non ho fatto caso alle sue piccole omissioni sugli effetti dell'orologio, in particolare per ciò che riguarda la cicogna?

Il Moscovita restò senza parole. Il suo interlocutore continuo:

— È molto semplice. Da due minuti, quest'oggetto non è più anomalo. È stato reso al suo legittimo proprietario. Se vuole saperlo, quest'orologio è stato confiscato a mio nonno quando è stato deportato in Siberia. Al suo ritorno in Estonia, ha chiesto di riaverlo indietro e gli è stato detto che era andato perduto. Questa storia è arrivata alle orecchie di suo fratello, un combattente della resistenza, uno dei Fratelli della Foresta. Il mio popolo ha sempre avuto un legame privilegiato con la natura e alcuni Estoni praticano ancora una forma di animismo. Il mio prozio si è assicurato che l'orologio fosse custodito e protetto dai ladri, finché non avesse ritrovato i suoi legittimi proprietari. È tutto.

— Lei non è della Fondazione? Lei è un semplice militante?

L’Estone abbassò gli occhi e disse con una punta di tristezza:

— No, Zakharov, sono un agente della Fondazione. Ma questo affare mi stava particolarmente a cuore. Non ho mai conosciuto il mio paese, mia nonna fuggi dall'Estonia con mio padre quando lui era ancora un bambino. È un rammarico, ma mio figlio non ancora nato sarà sicuramente più fortunato di me. Come gli uccelli, cantiamo, spiegheremo le nostre ali e saremo liberi prima della fine dell'anno.

Aveva concluso questa frase con un sorriso ottimista. Tuttavia, Zakharov non era soddisfatto, aveva ancora la sgradevole sensazione di essere seguito e osservato dagli uccelli che passavano attraverso la stazione. Peggio ancora, poteva udire degli schiocchi che ricordavano quelli della cicogna. Sbarazzarsi dell'orologio non era servito a niente. Ormai, persino la presenza di un volatile a meno di cinque metri da lui era sufficiente a provocargli una crisi di angoscia. Non poteva continuare a vivere così. Non voleva finire spaventato, rinchiuso in casa a temere il minimo tubare, ad aver paura che ciò richiamasse la cicogna nera, ad aver paura che anche il più piccolo passero potesse cavargli l'occhio. Domandò con voce supplichevole:

— Come potrei sbarazzarmi di questi uccelli?

L'uomo della Fondazione scosse la testa:

— Quali uccelli? Quelli che la seguono fin dentro i suoi sonni? Quelli che la terrorizzano? Vede Zakharov, se per anni dei contadini baltici hanno potuto convivere con il KGB, non è qualche uccello che dovrebbe farle paura…

Si voltò e lasciò Zakharov da solo, in mezzo alla folla. Mentre si allontanava, poteva sentire l'Estone intonare:

Usk edasi viib, taevane kiir

Saatmas on meid

Nii - on võiduni jäänud veel üks samm

Lühike samm, samm

Maa, isademaa, on püha see maa,

Mis vabaks nüüd saab

Laul, me võidulaul, kõlama see jääb

Peagi vaba eestit näed1

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