"Quindi? Non ha intenzione di parlare?" Il capitano Antonio Alti è in quella casa da appena dieci minuti e già non ne può più. Davanti a lui c’è un uomo — anche se per certi versi sarebbe più corretto definirlo un ragazzino — poco meno che trentenne, un po’ panciuto e dagli atteggiamenti a dir poco fastidiosi.
Ora si sta versando del vino in un calice. Quando finisce guarda Alti e chiede: "Vuole favorire?"
Il capitano scuote la mano, per poi riprendere: "Non cambi discorso. Intende collaborare?"
"Come le ho già detto," inizia l’altro con tono irritato "tutto ciò che so l’ho messo nella pubblicazione." Ha chiuso la frase con un sorriso arrogante: lo sta sfidando, si capisce dallo sguardo, e il fiero capitano deve trattenersi per non alzarsi e insegnarli personalmente le buone maniere. Ma è abbastanza per ritenere concluso il tempo del poliziotto buono, quindi fa cenno ai suoi due sottoposti di prendere il giovane e di ammanettarlo.
Come il ragazzo li vede muoversi verso di lui, posa il calice e alza le mani. "Ehi, cosa pensate di fare?"
"Ti portiamo in centrale, non sei contento? Avrai molto più pubblico, sarà come una di quelle conferenze che piacciono tanto a voi uomini di spettacolo."
"Da quando è legale?!"
"Da quando io detto le regole qui dentro. Non provi a fare resistenza, lo dico per lei."
Per un paio di secondi si guarda intorno, evidentemente agitato, poi riporta il suo sguardo fisso su Alti — che intanto se la ride sotto la barba — e dice: "Va bene, vi dirò tutto quello che volete sapere, basta che vi calmiate!"
In fin dei conti, sembra che Antonio non dovrà fare la fatica di scarrozzarselo fino all'Area più vicina.
Per un momento tutto resta bloccato e il capitano se lo gode a pieno prima di ordinare ai suoi sottoposti di tornare indietro e, dopo un attimo di esitazione, anche il giovane si mette a sedere.
"Dunque, signor Nicola Rossi," inizia il vecchio uomo "lei ha di recente pubblicato un breve articolo in cui parla di un fenomeno di isteria di massa attualmente in diffusione, giusto?" Sa benissimo che è così, ma vuole fare il punto per tenere ordinata la registrazione audio, che Rossi non sa essere in corso.
"Sì, confermo." È irritato, ma in maniera diversa da prima: si sente offeso, ora sa che è Alti a condurre quello che è un interrogatorio in piena regola.
"Può dirci cosa caratterizza tale fenomeno?"
"I pazienti affetti diventano pian piano meno socievoli, si isolano, smettono di andare nei luoghi affollati, magari solo per fare commissioni importanti. Le condizioni peggiorano in fretta: smettono di andare dove c’è folla anche per le cose più urgenti, come per le visite mediche o per pagare le tasse. Dopodiché, si isolano in casa propria ed evitano di uscire. Hanno una forte paura di stare con gente estranea, che arriva ad estendersi anche agli amici, ai parenti e ai famigliari più stretti. Spesso vengono colti da attacchi di panico, o anche attacchi cardiaci nei casi più gravi."
"Da quanto tempo li sta studiando?"
"Due anni. All’inizio credevo fossero dei casi isolati, ma mi sono accorto dopo poco che è un disturbo più diffuso di quanto si creda. Ne ho fatto il mio oggetto di studi principale."
"Diffuso quanto? È riuscito a capirlo?"
Rossi esita un po’, ma risponde: "Non esattamente: i miei studi si limitano perlopiù a questa zona, dove ho individuato poco meno di un centinaio di casi, ma dei colleghi mi hanno avvertito di pazienti con problemi simili. Ho incontrato alcuni di questi personalmente e ne ho verificato i sintomi, tuttavia la concentrazione maggiore sembra essere qui."
Alti mugugna in segno di comprensione prima di riprendere: "E già questo non era nel suo articolo. Ma mi tolga una curiosità, lei quanti collaboratori ha per lo studio di questo fenomeno?"
"Non molti, tre o quattro, un po’ di più se contiamo anche chi lo ha abbandonato durante gli anni, ma sono l'unico ad essermi interessato così tanto."
"Tre o quattro?" chiede Alti vagamente innervosito.
"Tre."
"E questi suoi collaboratori quanto sanno?"
Che domanda è? "Quanto sanno?", se prima la faccenda gli puzzava, ora è certo che qualcosa non vada.
Evidentemente, questa pausa più lunga del normale fa insospettire anche il capitano, che storce visibilmente la bocca; quando Rossi se ne accorge, decide di rispondere in fretta, ostentando una falsa sicurezza. "Non molto, in realtà: soltanto i loro sintomi, l’ansia sociale e questo genere di cose." Ha mentito: certo, non sanno tanto quanto lui, che fino ad allora ha custodito gelosamente alcune informazioni per divulgarle al momento giusto, ma dire che sia poco è riduttivo.
"Quindi quello che ci ha detto finora è poco?"
Merda! Ha parlato troppo, ma crede di potersi ancora salvare. "In effetti, sì: pare esserci una causa comune a tutti questi sintomi, anche se mi ci è voluto molto per ottenere informazioni definitive e sto ancora cercando di colmare dei buchi."
Senza accorgersene, mentre parlava ha strabuzzato gli occhi e si è morso il labbro: per Alti sono chiari indici di aver centrato il segno, gli conviene continuare in questa direzione.
"Vedete, pare che i soggetti abbiano spesso allucinazioni che diventano più frequenti quando si trovano in luoghi non familiari; questo è anche causa della loro rapida alienazione dalla società." Si ferma e mette le mani sul tavolo, è palese che voglia far pensare di aver finito, ma Alti non se la beve: sa che c’è dell’altro, deve esserci dell’altro.
"Devo dire che è molto interessante, ma potrebbe descriverci qualche caso specifico?"
"Ma, come ben saprà, sono tutti coperti dal segreto professionale: non potrei mai divulgare informazioni personali dei miei pazienti."
"Stia tranquillo, non le chiederò alcun nome. Vorrei solo sapere come si è sviluppata la malattia."
Rossi deglutisce, e prende a balbettare: "Oh, va bene…"
Inizia a sudare, il respiro gli si fa pesante. Finirà per spiegargli conclusioni personali che sperava di tenere per sé, ancora non pubblicate, né discusse con i suoi colleghi; ma questo è il meno: chi sono queste persone? Cosa faranno con le sue ricerche? Ormai è palese che non siano carabinieri e questo lo spaventa: perché mai si dovrebbero interessare agli studi di uno psicologo? C’è qualcosa di ancora più inspiegabile dietro al fenomeno che studia da anni?
"Dunque, c’è questa mia paziente, una madre, che dopo le prime fasi si è barricata nella sua camera; quando ne ho sentito parlare, ho subito contattato il marito e sono riuscito a ottenere un incontro. La casa, per quanto umile, era ordinata, i figli erano stati mandati via per ovvi motivi e il marito era rimasto a prendersi cura dell’abitazione e della moglie, evidentemente trascurando sé stesso: la preoccupazione lo stava letteralmente divorando. Mi ha spiegato che la presenza altrui la infastidiva, si era già dimostrata aggressiva nei suoi confronti e non aveva idea di come avrebbe reagito con un estraneo; per questo all’inizio mi ha spiegato le sue condizioni senza permettermi di vederla, anche se teneva sul tavolo un baby monitor da cui potevamo ascoltarla. Usciva perlopiù rumore statico, ma a volte la sentivo ansimare e a un certo punto credo che stesse piangendo.
"Dopo aver appurato che il disturbo fosse quello, e dopo molte pressioni, ho ottenuto di vederla. Ovviamente, è entrato prima lui, per provare a calmarla, io osservavo da lontano. La stanza era molto buia e il corridoio non portava tanta luce, ma potevo vedere che era rannicchiata sul letto. Sa, una delle tante risposte alle allucinazioni è il chiudersi al buio per non vederle, ma possono anche fare l’esatto opposto: esporsi alla massima luce, anche se il motivo non è chiaro; altri ancora cercano distrazioni, ma non divago oltre. Suo marito le ha parlato per un po’ — non ho sentito nulla — l’ho vista strisciare via da lui e attaccarsi con la schiena al capezzale del letto. Lui ha mantenuto le distanze, provando a calmarla a gesti, e alla fine mi ha fatto avvicinare.
"Mi sono fermato sulla soglia per non spaventarla troppo — avendo già esperienza, sapevo circa a che distanza stare — c’era un forte fetore e un gran disordine, era evidente che fosse in quelle condizioni da molto. Mi sono presentato, cercando di metterla a suo agio, ma c’è voluto parecchio prima che riuscisse anche solo a guardarmi.
Non ha iniziato a parlarmi prima di qualche sessione, nel frattempo aveva cominciato ad avvicinarsi — in senso fisico — e a rispondere a mugugni alle mie domande. Parlavamo del più e del meno, in questo modo la potevo calmare e allo stesso tempo provare a capire quanto si fosse alienata. Ho constatato che non era più capace di sostenere conversazioni normali: si bloccava nel bel mezzo della frase, a volte cambiava emozione repentinamente, si arrabbiava, iniziava a piangere, scappava in fondo alla stanza. Non ho mai concluso molto.
Dopo pochi mesi, sono stato chiamato dal marito: era morta."
Dopo aver chiuso il monologo, la mente di Rossi si svuota: non può credere a sé stesso. Che diavolo ha appena fatto? Ha detto praticamente tutto ciò che volevano sapere, ma forse spiegare i fatti nel dettaglio li avrebbe convinti che non c’è null’altro.
I due restano a guardarsi per qualche secondo, prima che il capitano rompa il silenzio: "Molto bene, sono felice che abbia deciso di collaborare. Forse lei non se ne accorge, ma queste sue dichiarazioni ci sono di grande aiuto, e lo saranno anche per molta altra gente. Se non ha altro da aggiungere, credo che possiamo fermarci qui. Se mai volesse ricontattarci, passi dalla caserma qui vicino e chieda di Alti."
Rossi deglutisce. Sa che non sono semplici carabinieri e sente che si sta infilando in una situazione più grande di lui, ma qualcosa nella sua testa gli dice che è una questione di grande importanza. È vero: si tratta di un fenomeno scarsamente studiato e se riuscisse a completare e pubblicare le sue ricerche potrebbe avviare una carriera di successo, ma ci sono delle vite in gioco. Se fosse corretto così? Se loro potessero fare qualcosa di concreto per aiutare quelle persone?
Rossi deglutisce di nuovo. Se prima non credeva a sé stesso, ora non riesce a riconoscersi: "In realtà- in realtà c’è qualcosa che non ho detto."
Alti alza un sopracciglio e un’incurvatura dei baffi tradisce un leggero sorriso: "Sentiamo."
"Vede, negli anni sono riuscito a raccogliere qualche testimonianza delle paure e allucinazioni dei miei pazienti… Si tratta di poca roba, ma è interessante che siano tutte molto simili. Dicono che quando sono 'fuori' si sentono minacciati, pensano che qualcosa stia tendendo loro un agguato. Dicono che qualcosa è fuori posto, come delle ombre in piena luce. Parole testuali. Secondo certi, ci sono delle creature che compaiono e che le altre persone ignorano, si sentono chiaramente abbandonati, ma in qualche modo non hanno nemmeno il coraggio di interagire con gli altri.
"Inoltre, ecco, la donna di cui vi ho parlato non è morta, o almeno, non è mai arrivata la conferma: in realtà era fuggita di casa. Non hanno mai ritrovato lei o il suo cadavere, ma alcune supposte tracce lasciavano intendere che fosse scappata a piedi per le campagne e nei giorni successivi alcuni hanno affermato di averla vista insieme a un piccolo gruppo, sempre in luoghi poco frequentati. Credevo fosse un caso isolato, ma molti dei miei pazienti sono spariti in condizioni simili nel corso degli anni e non se ne è più saputo nulla. Non so cosa tutto ciò voglia dire, non ancora, ma ho pensato che vi potesse interessare."
Alti si alza, sorpreso e compiaciuto, e osserva il suo interlocutore: si sta tenendo la testa tra le mani, evidentemente afflitto. Non può immaginare cosa gli passi per la mente, ma preferisce non pensarci e continuare il suo lavoro.
"Molto bene, il suo è stato un contributo cruciale, signor Rossi, e le assicuro che non ha aiutato solo noi."
I suoi due colleghi lasciano la stanza e anche lui si appresta a fare lo stesso, ma si ferma sull’uscio e si gira ad osservare nuovamente lo psicologo: sembra avvilito, ma ha testa e molta motivazione.
"Chissà, magari saremo noi a contattarla per primi. Arrivederla."
È l’una di notte e Pietro Briso è seduto nel sedile del passeggero di una piccola ed elegante macchina che si sta facendo strada tra le vie deserte di una modesta città in provincia di Piacenza, vicino al confine ligure.
"Allora, le va di fare conversazione?" chiede l’autista, un uomo sui quaranta basso e robusto, dalla faccia quasi quadrata.
"Hm, certo."
"È di poche parole, vedo. Come si chiama? Sa, mi hanno dato il nome, ma non ho una gran memoria per queste cose, per cui se potesse ricordarmelo, ecco. Posso darle del tu?"
"Certo, come preferisci. E comunque mi chiamo Pietro Briso."
"Paolo Tisco, piacere. Per caso sei stanco? Com’è stato il viaggio?" Pietro trova il collega decisamente inopportuno e in qualsiasi altra situazione sarebbe anche irritante, ma in questo specifico caso apprezza quella mole di domande: temeva un’accoglienza fredda, che avrebbe reso la sua permanenza ancora più difficile.
"Il viaggio non è stato nulla di speciale, il solito treno, la solita noia, le solite gambe formicolanti."
"Ah, mi dispiace, spero che troverai il tuo soggiorno migliore di così."
"Già…"
"Non ti va di parlare?"
"Scusa, sono solo di cattivo umore: quelle carogne mi hanno negato due settimane di riposo per lavorare a questo caso, ed ero appena tornato da due mesi in Calabria. Un inferno."
"Brutta storia. Dove vivi?" Paolo sembra genuinamente curioso.
"Roma."
"Ah, beh, almeno sei vicino al quartier generale. Io per i briefing mi devo fare viaggi come il tuo ogni volta."
"Sì, ma questa volta ci tenevano a farmeli girare: son dovuto andare fino in Sardegna solo per raccogliere due informazioni in croce." Risponde Pietro, scocciato.
"Ah. Perché?"
"Uno stronzetto del Minerva si rifiutava di muoversi di lì perché non voleva abbandonare le ricerche, quindi ci siamo andati noi. E dire che dall’ULIS evito quel posto come la peste: hanno tutti la puzza sotto il naso, e poi ho sentito brutte voci su come trattano i Classe D, poveri cristiani… Ora che ci penso, tu non c’eri?"
"No: dal momento che abito qui, mi hanno mandato una mail con poche informazioni e mi hanno chiesto di iniziare le indagini mentre ti aspettavo. A te hanno detto qualcosa di più dettagliato?"
"Poco o niente, se non che ci sono state segnalazioni di questo strano agente memetico di cui non si sa molto e che ci tocca indagare nei dintorni della città. Ovviamente, tra tutti i focolai individuati di questo coso, io sono stato inviato qui, a non so quanti chilometri da casa per non so quanto tempo."
"Mi spiace. A casa ti aspetta qualcuno?"
"Sì, moglie e figlia, sette anni. Avevo promesso che sarei stato un po’ con loro, ma la Fondazione se ne sbatte. Ho provato a protestare, ma non hanno voluto sentire ragioni, oh, ma quando tornerò mi sentiranno, eccome se mi sentiranno."
"Beh, allora vediamo di lavorare sodo, così ti ascolteranno a breve!"
"Hai ragione." Dice Pietro con fare assonnato prima che cali nuovamente il silenzio.
Il viaggio è lungo — o almeno così lo percepisce Pietro — e privo di particolari memorabili; l’auto si ferma nel parcheggio di un piccolo condominio a tre piani, lui scende e prende le valigie, rifiuta l’aiuto del collega e inizia a salire mentre l’auto abbandona il luogo.
L’appartamento è un trilocale vecchio e maleodorante, anche se probabilmente è solo odore di chiuso; la tappezzeria è sporca e l’arredamento è costituito perlopiù da un divano, una poltrona e uno sgabello foderati di stoffa macchiata qua e là, ed è presente un solo televisore, nel soggiorno. La cucina è piccola, con poco spazio da lavoro e priva di un forno, dovrà arrangiarsi; anche il bagno è angusto e privo di finestre.
Decide che la sua giornata è stata già abbastanza stressante e non è il caso di crucciarsi ulteriormente; si corica nel letto, che nota avere cuscini anche troppo morbidi, e prova a prendere sonno.
Il risveglio non diminuisce il malumore: quando apre gli occhi e nota di essere ancora in quel maledetto, lurido appartamento ha l’istinto di prendere le valigie — ancora chiuse all’ingresso — e tornare dritto a casa, quella vera; ma è una persona calma e gli basta fare qualche respiro profondo per reprimere quei sentimenti.
Si alza in fretta e si prepara per uscire: la prima tappa sarà una piazza poco distante, dove troverà l’auto in dotazione. Le strade della città sono strette e claustrofobiche, i mattoni scuri che ricoprono ogni superficie, a loro volta coperti qua e là da vasi e edere, non possono che dare l’impressione di essere in un villaggetto di qualche decennio addietro, e Pietro — abituato alle grandi città e un po’ portato al pregiudizio — vede ciò solo come un indice di maggiore ignoranza dei cittadini, che non farà che rendere più lunghe e faticose le indagini.
L’auto, con gran sollievo dell’agente, è buona, con abbastanza spazio per le gambe su tutti i sedili e persino un sistema dell’aria condizionata funzionante, gli basta per passare un bel quarto d’ora. La tappa successiva è a casa di Paolo, nella città vicina, che useranno come quartier generale: è una villetta modesta, ma con abbastanza spazio e luce e un arredamento di buon gusto, tanto basta a far nascere una notevole invidia in Pietro, ammaliato dall’edificio.
L’accoglienza è alquanto calorosa, ma i due agenti non si perdono in troppi convenevoli e iniziano a lavorare. Il primo giorno è dedicato a fare il punto della situazione; sulla scrivania sono presenti articoli di giornale, appunti su voci cittadine, resoconti della Fondazione e congetture personali raccolte da Paolo, che forniranno le basi delle loro indagini.
Le informazioni di partenza non sono molte: si tratta perlopiù di elogi funebri, oltre a un paio di articoli che trattano in maniera banale e semplificata la malattia mentale che ha colpito il sindaco di una città vicina poche settimane prima, perfettamente in linea con le descrizioni fornite dai ricercatori del Minerva. Decidono che il suo interrogatorio sarà prioritario.
Nelle indagini che seguono, i due agenti vengono a conoscenza di interessanti dicerie riguardo una losca compagnia che quattro settimane prima sarebbe venuta in visita alla città: quattro uomini e due donne di varie età, giunti da un luogo imprecisato con due auto a cui nessuno sembra aver prestato particolare attenzione, con dispiacere degli investigatori. Hanno alloggiato nel Bed&Breakfast locale, da cui Pietro e Paolo sono riusciti ad ottenere i nomi e i dati forniti dai clienti, puntualmente rivelatisi falsi; gli impiegati affermano di averli visti poco nell’edificio e i cittadini sostengono che per la maggior parte della giornata vagassero in coppie per la città, fermando i passanti o citofonando agli appartamenti. Non avevano dei veri argomenti di conversazione, parlavano del più e del meno finché non si decideva di ignorarli e mandarli via.
Il fatto più singolare, che naturalmente i cittadini avevano subito collegato al gruppo di viandanti, come sono propensi a fare anche Pietro e Paolo, è che a tarda notte, dal boschetto che fiancheggia le villette dei contadini a nord della città, erano udibili degli strani rumori simili a canti e nella stessa direzione erano visibili delle luci, poi attribuite a fiaccole o piccoli falò. Nonostante nessuno abbia osato avventurarsi nei luoghi di quei misteriosi eventi, fosse esso di notte o di giorno, non è difficile immaginare come il gruppo forestiero sia stato tacciato di satanismo dai più superstiziosi e bigotti.
Ad ogni modo, dopo quattro giorni e quattro notti la compagnia è ripartita verso nord, sotto gli occhi vigili dei contadini, che anche nei giorni seguenti si sono fatti carico del "ruolo" di sorveglianti, facendo molta attenzione a eventuali macchine che dovessero attraversare i loro campi, seppur senza mai avere l’ardire di anche solo avvicinarsi al bosco, in cui un solo gruppo, composto da poche persone, ha avuto il coraggio di entrare — ma solo entrare — guidato dal prete di paese. Si sono addentrati per purificare la zona, convinti che avrebbero cancellato qualunque traccia di male, sempre che ce ne fosse stato in primo luogo.
Comunque ciò è servito a calmare gli animi, almeno per qualche giorno: infatti dopo due settimane si sono diffuse le prime notizie sull'autosegregazione del sindaco, mentre quella successiva ha probabilmente iniziato ad avere le allucinazioni, date le sue reazioni più anomale che mai, ed è stato dimesso. Non ci è voluto molto prima che i sei vagabondi venissero considerati responsabili anche di questa disgrazia, idea rinforzata dalla pazzia anche del prete, soggiunta con inusuale rapidità.
Ora l’ex sindaco vive da solo in casa propria e quasi nessuno si prende cura di lui — il suo male è stato di interesse solo del giornale locale — per cui entrare nell’appartamento è stato semplice: è bastato scassinare la serratura (nessuno avrebbe aperto in ogni caso) e andare dritti dall’interessato.
L’uomo è nel salotto, raggomitolato sul tappeto in posizione fetale; le tende sono tirate, anche se bloccano poco la luce, l’intera casa è in uno stato di disordine generale: piatti sporchi in giro per ogni camera, cibo a terra, il frigo aperto, vestiti sparsi ed un forte odore che impregna l’aria e si fa più intenso man mano che Pietro si avvicina all’uomo, costringendolo in strane smorfie o addirittura a coprirsi il naso. Tuttavia non sembra tangere Paolo, tanto che resta impassibile.
Quando l’anziano signore si accorge — decisamente tardi — dei due intrusi, si gira, sedendosi con le braccia all’indietro; il volto è contorto in un'espressione di paura che mette gli investigatori irrimediabilmente a disagio. Il vecchio prova a blaterare qualcosa senza un senso, ma quando nota che non ha alcun effetto urla, o almeno prova: ne esce soltanto un suono soffocato, basso, somigliante più a un sospiro che a un grido. Non gli resta altro che scappare, ma il pover’uomo non riesce neanche in questo: indietreggia trascinandosi con le braccia e scalciando come un matto, finché non raggiunge il muro e comincia a singhiozzare.
Pietro a Paolo provano a calmarlo, si siedono su un divanetto e alzano le mani; lasciano passare qualche minuto e quando sembra essersi calmato almeno un poco iniziano a parlare, lentamente e con tono basso.
"Stia tranquillo, signore. Siamo venuti solo a farle qualche domanda, è per il suo bene." Dice Paolo. L’uomo si copre la testa e si accuccia.
"Non abbiamo intenzione di farle alcun male, la prego di calmarsi. Le chiediamo solo di parlarci della sua condizione: vede, siamo psicologi inviati dalla polizia per indagare."
Era la scusa peggiore che avessero mai sentito, ma nessuno dei due credeva che avrebbe dato problemi.
"Per cominciare, può dirci cosa la spaventa così tanto in questo momento?"
Passano dei lunghi secondi di silenzio, l'uomo continua a guardarsi intorno in cerca di vie di fuga, le labbra si muovono avanti e indietro compulsivamente. Alla fine, dopo aver deglutito rumorosamente, mormora con voce rotta: "Spiriti…".
"E che cosa fanno questi spiriti?"
La stanza piomba di nuovo nel silenzio, passa forse un intero minuto prima che risponda: "Puzza…"
"Chiedo scusa, che intende?"
L’anziano ex sindaco tira fuori la testa, e guarda Paolo con occhi spiritati: "Andatevene, vi prego…"
Qualunque altro tentativo dei due di farlo parlare è inutile, passa il tempo a grattarsi, guardarsi intorno e massaggiarsi le mani. Poi, con le lacrime agli occhi, scappa verso la porta, superando gli agenti senza guardarli.
I due si guardano confusi, poi Pietro prende la parola.
"Andiamo, qui non ci facciamo nulla. E poi quest’odore sta iniziando a darmi la nausea."
I giorni che seguono portano grande confusione nelle indagini: poco dopo l’interrogatorio all’ex sindaco (poi preso in custodia dalla Fondazione, sotto copertura come istituto psichiatrico), si è proceduto a fare lo stesso con il prete, ma quel che trovano li lascia estremamente confusi e sconcertati.
Per quanto ne sanno, il giovane parroco era una figura apprezzata dalla comunità e di cui i fedeli si fidavano ciecamente, ma da quando si è addentrato nel bosco è profondamente cambiato: secondo le voci, i viandanti non sarebbero stati altro che un gruppo di satanisti con lo scopo di aprire varchi per lo stesso Inferno; la convinzione comune è che lì dentro l’uomo abbia incontrato niente meno che il Demonio e questi l’abbia portato alla follia. Le suore sue badanti hanno riferito di alcuni stralci di monologo — le poche parti comprensibili — in cui delirava a proposito di suoni bassi e gutturali, vermi vitrei che gli si arrampicavano addosso, ombre che lo circondavano e di cui non comprendeva i confini e un odore nauseabondo che lo perseguitava fin dall’esplorazione nel bosco. La città è presto andata nel panico: con un tale numero di eventi consecutivi tanto terribili e misteriosi, anche i meno credenti si sono convinti che stia succedendo qualcosa di strano; tuttavia, Pietro e Paolo hanno richiesto e ottenuto che non si intervenga ancora con gli amnestici per non interferire con le indagini, per cui ora la Fondazione si limita a impedire che qualunque informazione sensibile lasci il luogo.
Passa un’altra settimana e la situazione rimane statica: non si trovano nuove informazioni utili e si inizia a discutere di chiudere il caso e occultare il tutto.
È notte fonda e Pietro è fermo in mezzo alla strada, in ansia e con un gran mal di testa: ha appena sbandato. Non ha compreso bene le dinamiche, sa solo che era in trance e all’improvviso si è trovato con l’auto fuori strada; per fortuna non si è danneggiata, né si è fatto male, ma qualcosa lo ha messo a disagio.
Dopo essersi rimesso in carreggiata, inconsciamente, Pietro accelera di molto e sfreccia tra le stradine deserte della città fino a raggiungere casa, la piccola e accogliente casa che negli ultimi giorni ha imparato ad amare: in essa c’è qualcosa che non sa spiegarsi, qualcosa che lo rilassa e lo culla, qualcosa che gli assicura che tutto andrà bene e che lui è il padrone del luogo, ma non è una sensazione destinata a durare.
Dopo essersi cambiato e coricato nel piccolo letto, poco prima di spegnere la luce e lasciarsi la giornata alle spalle, qualcosa cattura la sua attenzione: proprio accanto alla lampada nota che c’è qualcosa di fuori posto, come un piccolo, rapido movimento, un’ombra senza corpo che sfreccia sul comodino andando a nascondersi nelle più grandi ombre della notte.
All’improvviso, un orribile dubbio prende il sopravvento nella mente di Pietro, che diventa quasi una certezza quando, tra le infinite idee del flusso di coscienza, ne emerge una molto vaga, forse addirittura generata dalla mente sovraeccitata, ma che non può ignorare: anche poco tempo prima, nella sua auto, doveva aver visto un’ombra innaturale sotto le luci dei lampioni, ed era lì che si era risvegliato dalla trance.
"Merda!" Ora la sua vita è rovinata: entro un paio di mesi massimo sarà un guscio di paura e ansia e sarà destinato a diventare carne da macello per quei sadici del Minerva, sarà sottoposto a chissà quali torture. Sarà dimenticato da tutto e tutti: la Fondazione lo farà registrare come disperso e non farà più ritorno a casa sua dalla moglie e la figlia, che entro poche settimane assisteranno a un finto funerale, dove sarà sepolta una bara vuota.
Pietro non vuole tutto questo, non lo vuole.
Quella notte dura un tempo infinito, durante il quale Pietro si gira e si rigira nel letto, pensando e ripensando a questi concetti più e più volte; pensa a tutte le possibili cose che potrebbero capitargli, tutte le possibili evoluzioni di quella situazione, e all’alba le ha ripassate tutte così tante volte da conoscerle a memoria.
A mattino inoltrato, quando ha in un certo senso superato l’ansia opprimente della notte prima, decide di alzarsi e di andare da Paolo: fingerà che non sia successo nulla, che sia tutto a posto, e in qualche modo se la caverà, in fondo è un uomo razionale, non sarà qualche allucinazione a fargli perdere il sangue freddo.
È questo che si ripete senza sosta durante il viaggio per raggiungere la casa del collega. Negli ultimi tempi, visitarlo non è più bello come prima: c’è qualcosa di non accogliente, che lo mette sull’attenti, anche se questa sensazione è comune a molti luoghi di quel piccolo sistema di città. È un odore, un odore sporco che gli comunica di stare quanto più lontano possibile da quei luoghi, che lo avverte di essere in una zona selvaggia, nemica. Tuttavia è ancora leggero, sopportabile, e deve trovare un modo per mettersi in salvo prima che la Fondazione se ne accorga.
La prima idea è quella di accelerare le procedure per l’archiviazione del caso, tornare subito dalla sua famiglia e fuggire da qualche parte dove la Fondazione non possa raggiungerli, ma viene subito ostacolata da nuovi sviluppi dell’indagine: durante la notte sono avvenute una serie di sparizioni misteriose. Se ne contano cinque in totale, tutti i soggetti erano presumibilmente stati infettati dall'agente memetico e esibivano atteggiamenti anomali già da qualche settimana; Pietro e Paolo fanno rapporto immediato e — come prevedibile — la Fondazione decide di agire. Entro quattro giorni arriveranno due squadre della Firmitas Mentis e specialisti della memetica.
Pietro deve fare qualcosa, e deve farlo in fretta.
Nei giorni successivi, il panico popolare è palpabile: le strade sono deserte — anche più del solito — e nessuno ha idea di come comportarsi; le famiglie dei dispersi si impegnano nelle ricerche, esplorando ogni angolo e via secondaria, tutti gli altri, nel timore che possa capitare loro la stessa sorte, si proteggono come possono. C’è chi si barrica in casa (e le voci spesso li dipingono come i nuovi matti, così che vengono compatiti e allo stesso tempo evitati da tutti, nei rari casi in cui escono — sempre accompagnati — per delle rapide commissioni), altri passano le giornate in chiesa a pregare, mentre altri ancora vanno in cerca di qualche esperto di esoterismo che possa consigliar loro qualche miracoloso sale per scacciare le cattive influenze. C’è chi si è dato alla fuga, infatti sono ben due le famiglie che già il giorno dopo le sparizioni avevano fatto le valigie ed erano partite per andare da parenti il più lontano possibile da quel piccolo agglomerato di città maledette (ovviamente la Fondazione ha subito preso provvedimenti), mentre c’è anche chi pensa a difendere la zona, più che sé stessi: un gruppo parrocchiale, per esempio, si è subito adoperato per chiedere l’aiuto del vescovo per esorcizzare tutto il circondario, mentre una piccola compagnia di uomini di mezz’età e pochi giovani si è organizzata per compiere delle ronde notturne, poiché corre voce che nella notte delle sparizioni si sia aggirato un losco figuro, molto probabilmente uno dei vagabondi satanisti di qualche settimana prima, che ovviamente i coraggiosi cittadini si erano ben visti dall’avvicinare.
A confermare le dicerie, in quei giorni sono anche ripresi i misteriosi canti e le luci provenienti dal bosco; è opinione tristemente condivisa che al suo interno, a notte fonda, si consumino riti di adorazione ed evocazione del Demonio, molto probabilmente con sacrifici umani, ma nessuno ha il cuore di immaginare quali possano essere le vittime. Ciò che lascia grande perplessità, invece, è una serie di sparizioni di utensili quali pentole, posate, padelle o anche vestiti, che salvo qualche supposizione incoerente non trova spiegazioni, almeno per i cittadini.
È Paolo il primo a giungere alla soluzione: si stanno preparando per un viaggio; non gli sono chiare le dinamiche, ma è certo che il gruppo di infetti stia per partire, o che stia per cercare rifugio in qualche luogo sperduto. Pietro sente di avere i giorni contati, deve assolutamente fare qualcosa, o non tornerà più dalla sua famiglia; intorno a lui le ombre si stanno moltiplicando, alcune prendono forma, diventano rumorose, gli odori dei luoghi appestati dalla presenza di estranei lo nauseano sempre di più: non può continuare a lungo, presto Paolo si accorgerà che c’è qualcosa che non va. Il secondo giorno dopo le sparizioni, due giorni prima dell’arrivo della Firmitas, dopo aver sentito l'ipotesi di Paolo, gli viene un’idea disperata: deve andare nel bosco e unirsi al gruppo di infetti. Se riuscissero a fuggire in fretta potrebbe ancora avere una possibilità, ma resta il suo collega: tutto sommato è un tipo sveglio, non gli ci vorrà nulla a capire cosa è successo e gli metterà la Fondazione alle calcagna in meno di un giorno.
"Sai, stavo pensando…" inizia "… che forse dovremmo fare un sopralluogo del bosco."
"Che intendi? La Firmitas arriverà tra pochi giorni, ormai è tardi. Meglio se lasciamo fare loro."
Se lo aspettava: Paolo è un uomo semplice, ma fedele alla Fondazione; dovrà fare pressione, anche col rischio di insospettirlo. "Ti vuoi davvero arrendere così? Non hai nemmeno un pizzico di interesse nel risolvere questo caso?"
"Io ho già fatto la mia parte, il resto sta agli specialisti."
"E tu vivi così ogni incarico? Sai perfettamente che quando sarà in mano loro noi non ne sapremo più niente e verremo subito trasferiti al prossimo compito, e sarà sempre la stessa storia. Non ti infastidisce essere usato solo per sondare il campo e restare all’oscuro di tutto ciò di cui poi loro si prendono il merito?"
"Ovvio che mi infastidisce, ma ci sono tre cose che ho imparato lavorando per la Fondazione: per la Sicurezza, non fare più del necessario perché rischi di mettere a repentaglio l’incolumità tua o di civili, per il Contenimento, non fare più del necessario perché rischi di rendere l’anomalia virale o di pubblico dominio, e per la Protezione, non fare più del necessario perché rischi di mettere a repentaglio l’incolumità dell’anomalia. Insomma, non farò più del necessario."
C’è un momento di silenzio, Pietro pensa con cura a cosa dire.
"E se fosse necessario? Pensaci: in soli due giorni hanno preso cinque persone e un gran numero di utensili, potrebbero anche essere già pronti a partire, per quel che ne sappiamo. Dobbiamo fare qualcosa subito, o rischiamo di perdere le tracce."
Ha ragione, non c’è alcuna garanzia che la Firmitas faccia in tempo a raggiungerli: se anche partissero oggi stesso potrebbe volerci troppo. Per Paolo è una scelta difficile, ha paura che possa succedere qualcosa di compromettente, ma non vuole che il caso si concluda in un fallimento, non vuole aver buttato quelle ricerche, e in fondo anche lui vuole sapere la verità.
"Va bene, andremo nel bosco."
Di sera, dopo circa un’ora di preparazione e di viaggio, giungono nei pressi del bosco; parcheggiano a una certa distanza per evitare qualunque inconveniente, tuttavia sono quasi certi che a quest’ora siano tutti nascosti da qualche parte tra le fronde. Devono fare in fretta: in massimo un’ora il Sole sarà tramontato e vogliono evitare di dover accendere le torce, soprattutto perché non intendono lasciare tracce o uscire allo scoperto.
Attraversano di corsa i campi coltivati e si addentrano tra la vegetazione; come Pietro vi mette piede, ha una sensazione di calma, di protezione, come in un abbraccio, e si fa più intensa. Sente di essere al sicuro e, anche se non è mai entrato in quel bosco, sa come muoversi, sa che c’è un sentiero invisibile da seguire, gli viene istintivo, e gli sembra assurdo vedere Paolo muoversi con tanta lentezza e cautela. Si isola, ad ogni passo che muove perde i legami col mondo, ora per lui esistono solo il bosco e il suo odore deciso, che gli riempie le narici e lo calma come un incenso; ne vuole di più, gliene serve ancora: il bosco lo accoglie, lo protegge e allontana le ombre che l’hanno seguito per giorni.
"Ehi, dove vai?"
La voce di Paolo lo colpisce come un camion, svegliandolo dalla trance. "Io, uhm… ho sentito delle voci."
"Wow, devi avere un udito magico: io al massimo ho sentito una di quelle dannate mosche."
"Già… seguimi."
Camminano nel sottobosco per circa un quarto d’ora, mentre il sole inizia a tramontare impedendo sempre più la vista. Accelerano il passo per evitare di dover tirare fuori le torce, o almeno è ciò che fa Paolo: Pietro si è di nuovo perso nella pace del bosco, non gli servono vista o udito per sapere dove mettere i piedi, è l’istinto a guidarlo. Ma in quella calma intensa c’è un pericolo, un elemento di disturbo che minaccia di portare disgrazia a lui e a tutti i suoi cari, una minaccia vicina, a pochi passi da lui, che sta guidando personalmente per permettergli di rovinare la serenità del luogo.
Infine, quando il buio li sta quasi per costringere a ricorrere alle torce, vedono una luce tenue a poca distanza che proietta riflessi arancioni sulle piante circostanti e dalla stessa direzione si sentono tante voci che mormorano qualcosa di indistinguibile. Paolo sussulta, poi si gira eccitato verso Pietro; lo sguardo non viene ricambiato dal collega, che resta impalato, ammaliato da qualcosa che l'altro non comprende.
"Ce l’abbiamo fatta, li abbiamo trovati."
Nessuna risposta.
"Pietro?"
In quel momento, tutto ciò che Pietro percepisce è una forte estasi: il cuore gli batte all’impazzata, le pupille si dilatano, il petto e la pancia gli si gonfiano alternandosi spasmodicamente, il respiro è irregolare e le gambe tremano tanto da rendergli difficile stare in piedi.
"Pietro, s-stai bene?"
E ora sente che quella meravigliosa sensazione non potrà durare, non se prima non si libera della minaccia, della puzza che — seppur debole — gli impedisce di godere pienamente di quell’emozione magica. In un impeto di violenza si scaglia contro il collega, come una bestia assatanata, e inizia a percuoterlo a pugni e testate violente sul cranio: il suo corpo è pervaso da un’energia insolita, disumana, i muscoli sono tesi, duri, e la sua voce è distorta in un gorgoglio animalesco. Paolo non può fare molta resistenza: qualcosa l’aveva allarmato nel suo comportamento, ma quello scatto improvviso lo coglie alla sprovvista e non può in alcun modo competere con quell’insospettabile forza.
Dopo un breve e intenso minuto di pugni, testate, graffi e morsi brutali, di Paolo non resta che un corpo sfigurato ed esanime; un flebile sospiro lascia intendere che sia ancora vivo, ma non durerà a lungo.
Pietro si alza con rinnovata calma; ha le lacrime agli occhi, tanta è la gioia di essersi finalmente liberato di quello sgradevole, puzzolente fastidio. Non ha un attimo di esitazione e si dirige barcollando lentamente verso i suoi compagni, inseguendo la scia di quiete.
"Finalmente sono con la mia famiglia."
Attorno al fuoco ci sono sei figure, tutte diverse tra loro, il più giovane avrà una ventina d’anni, mentre il più anziano è decisamente oltre i sessanta. Nel sentire i rumori dell’aggressione si sono tutti messi sul chi va là e sono indietreggiati, pronti anche a fuggire, poi è sbucato Pietro, coperto di sangue e ancora ansimante. Tra i sei si fa avanti un signore sulla mezz’età, pelato e con un pizzetto corto, per controllare se sia un compagno o qualcuno da cui guardarsi; si fa avanti a piccoli passi, allungando il collo e inspirando visibilmente, fino a fermarsi a pochi centimetri da lui. A questo punto il volto gli si contorce in un sorriso che lo attraversa da parte a parte; fino a qualche tempo prima, Pietro l’avrebbe trovato inquietante, ma adesso non gli importa: quell’uomo, per lui, è come una visione mistica. Mai avrebbe pensato di sentirsi così felice in vita sua, e gli sembra impossibile che possa andare meglio, ma come se gli avesse letto nel pensiero e volesse dargli torto, il signore gli si avvicina, si inginocchia e lo abbraccia.
"Benvenuto, fratello."
Non gli aveva detto una parola, a malapena si erano guardati, eppure aveva subito intuito il suo stato d'animo e l'aveva accolto senza una parola di protesta. A questo punto l'emozione è così forte che Pietro scoppia a piangere: non si sente solo felice, ora si sente compreso.
Poco a poco, anche le altre persone si avvicinano a lui e si stringono in un abbraccio collettivo. Per qualche minuto gli sembra di non riuscire più a respirare: il suo cuore batte all’impazzata e i polmoni si gonfiano fin quasi ad esplodere, è una sensazione così piacevole, così accogliente, che vorrebbe viverla in eterno.
Poi si ricorda il motivo per cui si è spinto fin lì e rinviene. Si alza di scatto e guarda dritto il signore di mezz’età, che ha ormai capito essere il leader.
"Dobbiamo scappare: questo bosco non è sicuro, in poco più di un giorno arriverà una squadra con lo scopo di catturarci! Dobbiamo fare in fretta!"
I due si guardano fissi, hanno l’attenzione di tutto il gruppo puntata su di loro. Pietro teme che gli venga chiesto come abbia quelle informazioni, di venire allontanato per via della sua precedente mansione, ma il signore si limita a sorridere, rincuorandolo in silenzio. Si tratta di un attimo, ma a Pietro sembra infinito, poi il leader si gira e dice: "Bene, sembra che partiremo un po’ prima. Raccogliete tutto."
Le cinque persone si mettono subito all’opera per raccattare quanto si trova attorno al fuoco — perlopiù pentole e posate — poi tutti insieme corrono attraverso il bosco fino a uscirne dallo stesso lato da cui i due agenti erano entrati. Nell’abbandonare il luogo, Pietro sente la sensazione di pace svanire, come un tessuto che si sfalda; guarda il leader preoccupato, che prova a rassicurarlo: "Non ti preoccupare: conoscevamo quel bosco ed era un luogo sicuro, mentre questo è un territorio più selvaggio, è vero, ma finché resteremo uniti non possono farci nulla. Ora siamo diretti in città, dove prenderemo le nostre macchine."
Per un momento, a Pietro viene in mente di prendere l’auto con cui è arrivato, ma si ricrede subito: gli è stata fornita dalla Fondazione e con ogni probabilità è dotata di un GPS per rintracciarla.
Impiegano circa mezz’ora per arrivare alla prima macchina e con quella fanno tappa per raggiungerne altre due, con cui poi lasciano la città. Tutte le vetture appartengono a membri del gruppo, così come gran parte degli oggetti presi.
Nell’allontanarsi da quel piccolo, isolato conglomerato di città rurali in cui ha vissuto per tre settimane, Pietro non prova nulla, niente di tutto ciò che aveva gli manca, non la casa che ha imparato ad amare, né il collega con cui ha piacevolmente lavorato a stretto contatto: tutto ciò di cui ha bisogno per essere felice è lì con lui. Non gli interessa dove siano dirette quelle macchine, gli basta essere con la sua famiglia.
Passa la notte, la sua prima notte da uomo libero. Viene gentilmente svegliato da uno dei suoi fratelli; è l’alba e non ha dormito molto, ma si sente più che riposato.
"Che succede?" chiede una volta in piedi.
Gli risponde una ragazza sulla ventina: "È ora dello Shu-ni: la preghiera del mattino. Serve a chiedere il sostegno degli dei, così che ci siano vicini. Fai come facciamo noi."
Pietro non è mai stato un tipo religioso, per cui è un po’ confuso da ciò che sta accadendo in quel momento, ma decide di fare tutto senza opporsi. In fondo, in una situazione come quella, lontani da casa e braccati da un’organizzazione con chissà quante risorse, essere uniti è il minimo che si possa fare.
Tutti quanti si siedono in cerchio, mentre il leader posiziona una radio al centro e la sintonizza. Una volta fatto, si sente una voce profonda che si diffonde in tutta la zona deserta; ci sono interferenze, per cui all’inizio è difficile capire cosa stia dicendo, poi Pietro comprende che sta parlando ai suoi spettatori come in una sorta di messa.
"-che possano assicurarci una vita gioiosa e priva delle catene che ci costringono in esistenze vuote, e che siano propizi alla nostra unione. Per questi motivi, preghiamo."
Il gruppo di fedeli si inginocchia e allunga le mani verso il cielo, unendole all’altezza del polsi e tenendole aperte come a formare un fiore; Pietro li imita, poi dalla radio iniziano a uscire parole che non comprende, ma che si potrebbero trascrivere come segue:
"Neen his fulao. Saai his ngao. Ghiero ndoia. Fulumina xeroja…"
Nonostante non capisca mezza parola di quell’arcana ed esotica lingua, ne percepisce il senso, comprende che in quel momento gli è stato concesso di mettersi in contatto con qualcosa di antico, quasi primordiale, si sente in comunione con un tempo andato, che il mondo moderno ha spazzato via con brutalità. Si sente parte della comunità: nonostante li conosca da meno di un giorno, gli sembra di aver condiviso un numero infinito di esperienze e che queste siano destinate ad aumentare.
La preghiera dura per circa cinque minuti, durante i quali Pietro, guidato dalla voce profonda e distorta proveniente dalla radio, si perde nei suoi pensieri e inizia a vagare con la mente. Si vede in un luogo caldo, soffia un leggero vento e non c’è nessuna traccia della presenza umana: non un palazzo, non un utensile, solo uomini e donne spensierati. Un’utopia, forse un qualcosa di irrecuperabile e bloccato in un passato remoto, ma in quel momento sente che è più che realizzabile: è una realtà che lo circonda e che deve cercare di rendere quanto più solida possibile.
Finita la preghiera, il leader spegne la radio, ridestando Pietro, poi gli chiede: "Dunque, ieri ci hai detto di correre per fuggire da degli inseguitori misteriosi, puoi dirci di più?"
"Onestamente," inizia "io non ne so molto più di voi: è un’organizzazione molto grande e con tante risorse, che si occupa di occultare le anomalie del nostro mondo. Ce ne sono tante, più di quanto crediate, ma io sono solo un investigatore, per cui non mi è permesso conoscerle nei dettagli; riguardo a cosa gli vien fatto so molto poco, solo delle voci di corridoio, ma ho sentito parlare di isolamento a vita all’interno di camere deserte, trattamenti disumani. C’è molto di quell’organizzazione che non ho mai capito, ma finora avevo continuato a lavorare senza farmi domande. Io- io ho destinato a quella sorte alcuni di noi, e so che sta accadendo lo stesso in varie parti d’Italia. È orribile."
"Suvvia, non avvilirti. Il passato è passato; certo, il nostro cuore piange per tutti i nostri fratelli destinati a questa orribile fine, ma non sei colpevole, non eri ancora stato liberato dal tuo giogo." Fa una pausa. "Dimmi, come ti chiami?"
"Pietro Briso."
"Dimenticalo. Da oggi tu sei un membro del nostro Branco. Non usiamo nomi, siamo tutti fratelli e sorelle."
Senza esitare, l'ex agente abbassa la testa, accettando la sua nuova identità.
Nel complesso, il resto del viaggio è tranquillo: non c’è traccia di inseguitori, ma per precauzione decidono di abbandonare l’auto a qualche chilometro di distanza dalla loro meta per continuare a piedi. Il tragitto attraversa un lungo tratto di campagna disabitata, fatta eccezione per un paio di appezzamenti coltivati; il vento è forte e porta con sé odori sconosciuti, molto più concentrati di quanto lui non fosse abituato a sentirli, la stessa cosa si può dire per i suoni: ora riesce a sentire gli animali spostarsi tra le foglie e sul terreno secco. Non è diventato più sensibile, lo esclude: è solo più attento, più cauto, si sta concentrando per individuare ogni possibile minaccia all’incolumità del suo Branco.
Per quanto quest’inusuale attenzione sia di per sé utile, rischia di rivelarsi un’arma a doppio taglio in alcune situazioni, prima fra tutte quando si trova da solo: capita, ogni tanto, che in lontananza il Branco avvisti un’auto; in questi casi tutti si allontanano il più possibile dalla strada, se possibile addentrandosi tra la vegetazione. In questi momenti è comune che, data la sua eccessiva attenzione, la mole di figure, suoni e odori percepiti lo mandi in confusione, che diventi una massa di informazioni incoerenti che gli impedisce di processare correttamente il mondo circostante: fruscii che diventano rombi, rami spezzati che provocano terremoti, le feci che lo intrappolano in un insieme di odori pestiferi, piccoli animali che si trasformano in bestie da cui guardarsi le spalle. E in questo caos di nozioni si fanno strada anche loro: le ombre, che ora iniziano a prendere forma sfocata di vermi, grandi insetti volanti e trasparenti, con zampe dove non dovrebbero essercene, fauci atipiche, simili a becchi muniti di denti, che si aprono e chiudono con la rapidità di un battito di ciglia, intrappolando al loro interno altri esseri egualmente informi e mostruosi. Alcuni, in cerca di pasti, avvistano gli inerti membri del Branco, puntandoli con i loro arti lunghi e atrofizzati e sibilando per richiamare i loro simili, che subito giungono per accerchiare la loro inusuale preda, la cui unica risorsa a quel punto è la fuga disperata verso i propri compagni, sbraitando nella speranza di spaventare i predatori fino a raggiungere un'area sicura.
Il viaggio finisce soltanto di sera, quando iniziano a percepire di nuovo la sensazione di benessere che permeava il bosco; è debole, ma presente ed è indicatore della presenza di altri fratelli. La seguono come cani che fiutano una preda, tutti insieme; avvicinandosi alla fonte di questa sensazione possono percepire le minacce diradarsi, svanire come in dissolvenza, e finalmente possono smettere di stare all’erta: il battito cardiaco rallenta, le orecchie si rilassano e gli occhi smettono di muoversi follemente a destra e sinistra.
Alla fine giungono ai piedi di una grande villa a tre piani dai muri bianchi, dove vengono accolti da dei signori anziani. Anche loro hanno un innaturale sorriso stampato in volto, ma al gruppo di viaggiatori non dà fastidio, anzi, si stanno tutti omologando a quello standard, lentamente.
Le stanze sono tutte spaziose e scarsamente arredate, nonostante ciò lo spazio abitabile è minimo: in tutto ci sono una trentina di persone lì dentro, tutte ammassate l’una accanto all’altra, prive di qualunque desiderio, oltre a quello di vivere vicino ai propri fratelli, per cui nessuna cerca di farsi spazio o si lamenta quando il proprio viene invaso.
Il fu Pietro — ormai depersonalizzato come tutti — aggrappandosi a quel poco di carattere che gli resta, chiede a un fratello: "E ora? Qui che facciamo?"
"Aspettiamo."
"Che cosa?"
"Aspettiamo che arrivi il nostro sacerdote. L’uomo che ci ha raccolti e risvegliati."
Il sacerdote…
Non gli servono altre spiegazioni: il sapere che c’è qualcuno a cui dovere quella felicità, qualcuno che incontrerà, gli basta. Ha tante cose che vorrebbe sapere, in realtà, ma la sua mente è stanca e non riesce a metterle in ordine, gli ci vuole un po’ di riposo, poi potrà tornare operativo come prima.
Vaga per le stanze della villa senza meta, facendo attenzione a non pestare i suoi fratelli, poi, trovato un angolino abbastanza caldo, forse in un salotto, si accuccia e chiude gli occhi.
La vita alla villa procede placida per molto tempo, non succede molto durante la giornata, semplicemente ci si sveglia, si prega e si parla. Gli argomenti delle conversazioni sono spesso gli stessi, come il cibo, i sogni o la religione, e ogni conversazione porta sempre allo stesso esito: "Sia resa grazia al Sacerdote".
Il lavoro è poco, basta pulire qualche piatto e dare da mangiare agli animali, e per la maggior parte del tempo si sta seduti a parlare con chi capita, in dialoghi lenti, quasi sonnolenti; il sonno stesso non segue più il normale ciclo circadiano, ma è casuale, si dorme quando si dorme, così come si mangia quando si mangia. L'ex Pietro non ha idea di quanto sia passato, forse una settimana, forse un mese o forse un anno, nessuno lo sa; tutto ciò che conta è che un giorno arriverà il Sacerdote e tutti lo stanno aspettando con trepidazione.
Alla fine giunge il giorno: il suo arrivo viene annunciato con poche ore di anticipo e la villa si anima per la prima volta in chissà quanto tempo. C’è gente che si muove da una parte all’altra e fa spazio spostando i fratelli e le sorelle dai corridoi e dalle sale principali, ammassandoli in stanze di pochi metri quadrati e senz’aria.
Arriva all’alba, da solo, è vestito di stracci ed è visibilmente trascurato, i vestiti sono sporchi e puzza notevolmente, ma non ha alcun effetto sui membri del Branco: ai loro occhi lui non è altro che un signore forte, vigoroso, che emana un’aura di calore capace di allontanare le bestie e qualunque altra minaccia alla loro pace. Per diverse ore, resta isolato senza che ai fratelli di minore importanza sia permesso anche solo avvicinarglisi, per cui restano ad aspettare sdraiati sui pavimenti, parlando con gran lentezza di quanto siano trepidanti per quell’evento. Quando finalmente esce allo scoperto manca poco a mezzogiorno e subito il Branco gli si accalca lasciandogli uno spazio vitale di pochi centimetri, al che, con un semplice gesto della mano, chiede e ottiene maggiore aria, abbastanza da muoversi liberamente per qualche metro.
"Fratelli!" Comincia aprendo platealmente le braccia; tutti riconoscono la voce della radio, è bassa e rauca allo stesso modo, seppur priva delle fastidiose interferenze. "Oggi mi sono presentato qui, in questa deliziosa villa, per vedervi tutti di persona, per vedere i frutti del mio lavoro. Anni fa — ho ormai perso il conto di quanti — mi sono fatto carico di una missione ben precisa: quella di risvegliare l’umanità, di restituirle la libertà che le è stata negata all’alba dei tempi. Questa libertà di cui siamo stati derubati, che ha sempre costituito la base del concetto stesso di 'umano', si chiama Fratellanza.
Voi, fratelli, siete nati in un mondo buio, la vostra percezione era bloccata da una maschera di cui non vi siete mai accorti, che vi impediva di comprendere la vera natura di molte tossiche dinamiche della nostra vita. Io, invece, sono nato con un dono: non ho mai avuto la maschera d’ignoranza che ho amaramente visto costringere i miei fratelli a un'esistenza di tristezza, e ho giurato che mi sarei preso le responsabilità di questa dote salvando tutti dal loro orribile destino." Qui fa una pausa per riprendere fiato, poi ricomincia.
"Purtroppo, ho dovuto constatare che ciò è un’utopia: è innegabile, infatti, che mentre molte persone sono semplicemente incollate alla maschera, rendendo vano qualunque mio intervento, esiste anche gente ignorante e ingrata, che teme la verità e vuole cancellare quanto ho fatto, precludendo la salvezza a tutti. Questi uomini sono più influenti e organizzati di quanto temessi e mirano a far di tutto pur di distruggerci: ci stanno alle costole e si infiltrano tra di noi, per questo vi chiedo supporto e collaborazione, miei fratelli, e confido che neutralizziate qualunque minaccia così che io possa portare a termine la mia missione."
Quando il sacerdote finisce di parlare, nel salone si leva un applauso scrosciante. Tutti sono gioiosi, tutti vogliono ringraziarlo per averli salvati e per aver dato loro una casa e una famiglia e gli si ammassano intorno quasi soffocandolo. Alcuni, passando sopra i propri fratelli riescono addirittura a toccare la loro guida: la sensazione che li pervade è più tonificante di qualunque cosa possano aver provato in vita loro. Vengono percorsi da un'improvvisa euforia, una scarica di adrenalina che li fa urlare ed esplodere in una serie di spasmi violenti. Questa condizione si diffonde quasi come un virus, e una ad una anche le persone loro vicine iniziano a comportarsi allo stesso modo, e così i vicini dei vicini, e i vicini dei vicini dei vicini.
Tra loro, l’ombra di quello che qualche tempo prima doveva essere un uomo, ora priva di qualunque iniziativa e impegnata a imitare nei festeggiamenti i suoi fratelli, lodando il sacerdote che sta ora svicolando tra la folla nel tentativo di dileguarsi in qualche altra stanza, avverte un disturbo. Ricorda di aver percepito una cosa simile in passato, prima di rinascere e di incontrare i suoi fratelli: un odore sottile, vagamente fastidioso e difficile da distinguere dall’esplosione di odori gioiosi che lo circonda, ma sa che c’è; sente che c’è un pericolo di qualche sorta, o almeno qualcosa di cui essere inquieto, ma decide di ignorarlo. In quella villa sta vivendo felice, senza pensieri, non gli va di rovinare e rovinarsi l’atmosfera, e poi ha con lui i suoi fratelli e soprattutto il sacerdote, lui saprà di certo proteggerli meglio di tutti.
E mentre tutti in quella casa giungono alle stesse conclusioni, attorno ad essa si muovono delle oscure figure mascherate, fredde e insensibili, troppo miopi per comprendere le infinite stranezze nascoste ai loro occhi e troppo ottuse per accoglierle.
È notte fonda e il Sito Minerva è particolarmente silenzioso: la gran parte dell’attività si consuma negli uffici e sono poche le persone che escono nei corridoi, tipicamente per trascinarsi fino alla macchinetta del caffè. Il Dottor Giulio Seponte è uno dei pochi ricercatori nel pieno della loro giornata, ora si sta dirigendo ai piani sotterranei, in una piccola stanza per gli interrogatori dove si trova la chiave per risolvere il mistero su cui lavora da tre mesi.
È stato catturato due giorni prima mentre sostava in una delle sue ville, circondato da quelle creature incapaci anche solo di pensare senza che gli venisse ordinato, che Seponte difficilmente definirebbe "umani". Si è trattato di un’operazione rapida e priva di complicazioni, dopo la quale era stato spedito in Sardegna e preparato per l’interrogatorio nel minor tempo possibile.
Finalmente giunge alla stanza, protetta solo da una guardia sul punto di addormentarsi; all’interno, lo aspetta la piccola e familiare camera divisa da una lunga scrivania, a sua volta sormontata da del vetro protettivo, che taglia la sala da parte a parte. Dall’altro lato c’è un uomo sulla sessantina, dalla barba incolta e i capelli lunghi e arruffati, gli occhi stanchi e lo sguardo perso nel vuoto: è lui che per mesi ha guidato un culto anomalo su scala nazionale e ora, accortosi del dottore, è rannicchiato su sé stesso, costretto su una sedia, sguardo basso e braccia protese in avanti per assecondare le corte manette che lo tengono ancorato al tavolo.
Dal lato dell’intervistatore è già stata preparata tutta l’attrezzatura per la registrazione, per compiacere l’impaziente ricercatore.
"Quindi, PdI-4262, ha voglia di iniziare?" chiede Seponte mentre avvia i dispositivi; non ricevendo risposta, continua: "Chi tace acconsente. Spero che apprezzi l’accoglienza, le ricordo che i trattamenti che seguiranno dipendono unicamente da come deciderà di porsi, quindi che ne dice di collaborare?" Ancora nessuna risposta.
"Magari ha solo bisogno di scaldarsi, vuole parlare un po’ di lei, signor Leonardo Serra?"
Il sacerdote alza la testa di scatto, gli occhi sbarrati. Seponte continua: "Lavorava come professore alla facoltà di archeologia di Torino fino al 1991, anno in cui è sparito dalla circolazione poco dopo l’omicidio di Umberto Lavigna. Dico bene? Certo che da qui a guidare un culto è un bel salto di qualità."
Il suo interlocutore è pietrificato, sarebbe incapace di rispondergli anche se lo volesse, ma il dottore decide di continuare a provocarlo: "Forse non le è chiara la sua posizione: se non risponde oggi, lo farà domani e se non risponde lei, lo farà uno dei suoi sottoposti." Si china in avanti per scrutarlo, poi elenca: "Folignano, Molfetta, Paliano." Sono le città in cui i suoi adepti si sono raccolti a dormire e mangiare crogiolandosi nell'estasi; si definiscono un branco, ma Seponte ritiene più adeguato chiamarli "gregge" o "topi".
Nel sentire queste parole, l’uomo sbianca e va nel panico: "No, vi prego! Lasciateli stare, non fategli del male! È più importante di quanto crediate!" Urla dimenandosi nel tentativo di sfuggire alle manette.
"Diciamo che se lei si dimostra collaborativo, e se ci dà qualche buon motivo, allora considereremo di accettare la sua richiesta. Che ne dice?"
Prima di rispondere, il sacerdote si guarda intorno tremando e ansimando: "Va bene, accetto!" L’ha detto tutto d’un fiato, come se si dovesse liberare di un peso.
"Avete ragione: il mio nome è Leonardo Serra, e anche tutto il resto è vero, ma la storia… è complicata."
"Ce la racconti, allora, abbiamo tutto il tempo del mondo."
Sospira. "È iniziato circa un anno prima dell’omicidio: nel febbraio del 1990. Conoscevo già Umberto, ma non eravamo propriamente in confidenza. Era venuto a cercarmi a casa mia per chiedere un favore: voleva che analizzassi per lui dei reperti acquistati a un’asta — era uno ricco, come già saprete — e che gli riferissi ogni particolare degno di nota. Qualcosa non mi tornava, ma offriva buona paga, per cui alla fine ho accettato."
"Di che tipo di reperti si trattava?"
"Una statuetta e un sigillo di fattura sumera, databili a prima del 4000 a.C. La statuetta raffigurava un uomo in abiti nobiliari atipici, mentre sul sigillo era ritratta una scena mitologica in cui un uomo con gli stessi vestiti si confrontava con una chimera serpentiforme, che non esiste nella mitologia sumera. Quando l’ho visto con quegli oggetti in mano mi è bastata un’occhiata per dirgli ‘sono dei falsi’, ma ha insistito.
Sul momento mi sono sentito preso in giro, ma più analizzavo quei reperti e andavo in cerca di un dettaglio anche minuscolo che provasse la mia ipotesi, più mi rendevo conto che dovevano essere dei falsi eccellenti… o delle opere reali.
"Alla fine ho chiamato Umberto perché se li riprendesse e ho rifiutato il pagamento: in cambio volevo sapere solo dove e come li avesse ottenuti. Ero pronto anche a bloccarlo in casa, ma non si è rivelato necessario, ha parlato senza opporsi. Mi ha confermato che la storia dell’asta era falsa: in realtà aveva ricevuto quegli oggetti in prestito da un suo amico proprio perché io li analizzassi; mi ha detto che in realtà conosceva bene la loro natura e il loro significato: la statuetta rappresentava un protettore in vesti da sciamano, il che continuava a sembrarmi assurdo.
"Il sigillo raffigurava, invece, uno sciamano nell’atto di allontanare la chimera da un villaggio.
A quel punto la faccenda era diventata insopportabile e gli ho chiesto — o forse gliel’ho ordinato — come sapesse tutte quelle cose e chi fosse. Solo allora ha ammesso di far parte di una 'società segreta di filantropi' e che intendeva 'arruolare' anche me. Lo credevo pazzo, o parte di una cerchia di matti, ma ero così preso da non interessarmene e l’ho lasciato parlare: affermava che il suo fosse un gruppo secolare e custode di conoscenze più antiche dell’uomo. Mitiche e mostruose creature oggi morte, resuscitate da miti e leggende, capacità degli uomini perse nel tempo, e che così dovevano restare, giochi di potere politico su scala mondiale. Erano queste le storie che mi ha raccontato e di cui abbiamo discusso per un’intera notte, dopo la quale ero stordito e ammaliato; gli ho chiesto di continuare a parlarmene e di portarmi prove della loro veridicità, e lui ha acconsentito, a patto che io prendessi parte all’ordine e sostenessi le loro azioni."
Seponte prende appunti durante tutto il discorso e una volta finito chiede: "Mi racconti di quest’ordine." Ormai ha annusato la possibilità che dietro a quell’anomalia d’ordinaria amministrazione si nasconda una trama ben più fitta, forse un ottimo appiglio per la carriera.
"Mi spiace deluderla, ma non posso dirle molto.
Poco dopo quella notte ho prestato giuramento di fedeltà e Umberto ha cominciato a visitarmi periodicamente, parlandomi delle loro leggende e portandomi artefatti sempre nuovi, ma ogni volta non mi era concesso di tenerli, né di prendere appunti, e non ho intenzione di infrangere ulteriormente il mio giuramento."
"Comprendo," grugnisce il ricercatore, "ne discuteremo in futuro. Continui a parlarmi del signor Lavigna."
Leonardo sospira e guarda il ricercatore per qualche momento: odia quello che sta facendo, non dovrebbe rivelare nulla a quell’uomo, che userà quelle informazioni per chissà quali scopi, che potrebbe mandare a monte tutte le sue fatiche, o potrebbe mettere il suo intero gruppo sulle tracce dell’ordine, così da impadronirsi e manipolare le conoscenze custodite per secoli. Ma non ha altra scelta: deve salvare i suoi fedeli, è questione di necessità, dovrà soddisfarlo dicendo il meno possibile.
"Io e Umberto abbiamo continuato a frequentarci per un anno e, nonostante io apprendessi sempre di più, non mi è mai stato concesso di incontrare altri membri al di fuori di lui ‘per sicurezza’. Nel tempo, però, ho cominciato a sentirmi in opposizione con l’obiettivo dell’ordine: volevano tenere nascoste le capacità dell’uomo, che loro stessi vantavano di aver sottratto. Ho pensato che non fosse giusto, che tutti dovessimo conoscere la nostra vera natura per vivere in pace con noi stessi; lei chiederebbe mai a un pesce di nuotare senza le sue pinne? O a un uccello di volare senza le sue ali? Perché è questo che siamo noi ora: animali mutilati.
"Ho atteso a lungo l’occasione giusta, finché un giorno Umberto non si è presentato con una serie di fogli: mi ha spiegato che erano dei processi magici basilari, non mi avrebbe permesso di studiarli, ma potevo guardarli per quella notte e farmi un'idea di ciò che dovevo proteggere. Mi è bastata un’occhiata per capire che facevano al caso mio. Quella notte mi sono macchiato dell’omicidio del mio amico per il bene della nostra specie: quattro coltellate al cuore ed era andato."
La voce di Leonardo si era fatta sempre più incerta e tremolante, fino a bloccarsi. Dopo essere rimasto diversi secondi come pietrificato, il corpo scosso da tremiti inarrestabili, l’anziano uomo scoppia in lacrime.
Seponte lo osserva per un po’, mettendo in ordine i pensieri, poi lo interrompe: "E ora questi fogli dove sono?"
"Li ho memorizzati e bruciati molto tempo fa." Risponde singhiozzando.
Amareggiato, il ricercatore continua: "Quindi è così che lei spiega il comportamento dei suoi seguaci? Semplice magia?"
"Già."
Seponte rilegge i dati raccolti. Le analisi più recenti hanno evidenziato che gli infetti producono in gran quantità un feromone — evidentemente non percepibile da tutti — che stimola la produzione di dopamina, causando dipendenza nei soggetti che "infetta", portandoli inoltre a produrre essi stessi il feromone, che diffondono nell’aria per calmarsi ed espandere l’ "infezione". Possibile che quest'uomo abbia agito senza comprendere i reali effetti delle sue azioni e il funzionamento della sua magia?
"Quindi anche le preghiere sono in una lingua antica?"
"No, non mi è mai stato detto nulla a proposito di lingue: le preghiere sono canti che ho creato io stesso per i miei fedeli. Non vogliono dire nulla in nessuna lingua."
Il dottore continua a tormentarsi alla ricerca di qualche domanda che possa dargli informazioni interessanti: ha trovato una miniera d'oro, ma gli viene impossibile scavarla. "Ma c’è una cosa che non mi torna. Perché si ostina a difendere quest’ordine se avete una differenza di vedute così evidente?"
"Il nemico del mio nemico è mio amico. Io non sono d’accordo con il loro obiettivo, ma sono d’accordo che certe informazioni dovrebbero essere in mano alla gente giusta, e voi, guidati dai vostri interessi personali, non siete adatti: è evidente che sappiate molto di più della gente normale su questo mondo e non so quanto sappiate di quel che so io, ma per nessuna ragione vi rivelerò più di quel che vi ho già detto. Inoltre, per quanto oggi e in passato io l’abbia infranto, il mio giuramento è ancora valido: io sono ancora un membro dell’ordine, ho solo adottato una politica differente."
"È così che ci vede? Gente guidata dai propri scopi egoistici? Si sbaglia: qui alla Fondazione lavoriamo per il bene comune, è per questo che sono così importanti le sue informazioni."
"Se è vero, voglio che me lo dimostriate. Ho lavorato tre anni per avviare il mio piano e per salvare l'umanità, io ho aperto loro il mondo e restituito le ali di cui erano stati privati. Purtroppo non è stato sufficiente ed è necessario altro lavoro per ritornare alla nostra libertà, ma con le vostre risorse sarebbe possibile." Leonardo riprende a singhiozzare.
"Vi prego, vi scongiuro: non toccate i miei fedeli, non uccideteli. Sono tutta la mia vita e rappresentano la speranza del genere umano. Se rispettate questa condizione, allora potrò fidarmi di voi."
Seponte resta in silenzio a scrutare il vecchio Leonardo, quelli come lui sono i peggiori: dediti alla loro causa al punto da dare la vita, non parlerebbero nemmeno sotto tortura.
Dopo degli incessanti secondi, il ricercatore si alza. "Per oggi abbiamo finito, portatelo nella sua cella."
La Fondazione non può permettersi simili azzardi: la malattia sarà arginata e occultata, i fedeli saranno uccisi o contenuti in spazi minuscoli come gli animali che sono e Leonardo Serra vivrà il resto dei suoi giorni in una cella, isolato da qualunque contatto. Questo è come la Fondazione salverà il genere umano.