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Il dottor Thaddeus Xyank stringeva il futuro tra le mani. E la cosa lo faceva sorridere.

Era un pezzo di metallo grigio, freddo al tatto, con un numero di serie inciso con un laser, un ritratto di George Washington e il codice UPC dei fagioli stufati della Bush. Ci era voluto un pezzo per far approvare il tutto, ma aveva bisogno di andare sul sicuro. Non si poteva sputare nella divisione Multi-U senza che atterrasse in qualche mondo parallelo o in un vero e proprio buco nero che conduce direttamente due centimentri su per il retto di qualcuno. A Xyank non importava del solito vecchio presente in qualche realtà remota in cui le persone sono lucertole giganti. Gli importava del futuro. Ed eccolo lì.

«Melissa?»

«Sì, signore!» disse lei, scattando come i giovani fanno di solito quando va tutto secondo i piani.

«Il dispositivo era acceso quando avete trovato il mattone?»

«Ehm… signor Kim?»

L’assistente ricercatore Leonard Kim levò lo sguardo dal pannello di cablaggio, battendo le palpebre:

«Sì?»

«Il dispositivo è stato lasciato acceso di notte? Il dottor Xyank voleva sapere in che condizioni era quando il campione è stato ritrovato»

Melissa Brooks faceva sempre così, in un vanitoso tentativo di ingraziarsi i suoi superiori. Pensava che forse le avrebbe fruttato una promozione. Peccato che fosse così leccaculo che nessuno si fidava di lei.

Gli occhiali di Xyank iniziarono ad appannarsi. Le sue dita fremevano. Il suo pollice si soffermò sul naso di Washington. Quasi senza pensarci, afferrò un pezzo di nastro dalla scrivania, lo incollò al mattone e vi scrisse “Ritrovato” con un pennarello nero. Non si sapeva mai.

Kim tacque a lungo.

«Ehm… allora, tanto per cominciare, non ho fatto niente con quella cosa»

«Stavolta non mi interessa davvero, Larry. Dimmelo e basta»

«Va bene, sì, mi scusi. L’ho lasciato acceso a fare una messa a punto per ore. Quei riferimenti continuano ad apparire all’infinito, qualunque cosa faccia. Adesso ci sto lavorando»

Xyank annuì. Era una risposta che gli poteva bastare.

«Melissa, scansiona le registrazioni della sorveglianza da ieri sera a stamattina. Voglio sapere di ogni scintilla, scoppio, farfallamento e lampo»

Dall’altro lato del pavimento, oltre dieci dozzine di tubi di liquido refrigerante e trenta cavi industriali ad alta resistenza, piazzò il campione accanto ad un altro preciso identico, proprio mentre Gerald Kingston stava mettendo gli ultimi ritocchi sull’UPC.

«Porca troia! Questo quando è entrato?»

«Oggi, poco prima di aprire; Brooks sta controllando la registrazione»

«…Cristo santo» disse Gerry, tirando su il piccolo mattone.

Se lo rigirava tra le mani e controllava i piccoli solchi paralleli impressi sulla superficie dell’oggetto con le pupille fisse, mentre si sforzava per concentrarsi.

«Sembra quello autentico, ma voglio osservarlo al microscopio e tagliare la testa al toro»

«Datti da fare – disse il dottore, guardandosi l’orologio – Voglio l’originale fuori da qui entro la fine della giornata»

«Certo, certo, certo!»

«E porta qui Foreman per accertarci che la calibrazione sia immacolata. Kim sta avendo problemi di riscontri di nuovo»

Giurava su Dio che Larry sarebbe stato la morte di quel progetto, sempre a fare il passo più lungo della gamba. D’altronde, Thaddeus era fatto così. Questo era ciò che l’aveva fatto alzare dal letto, quella mattina.

Degli sbuffi di gas caldo lo travolsero da tutti gli angoli, mentre girava su se stesso. Dopo sei mesi passati facendo così, ormai per lui era naturale come respirare. Appese per bene la tuta nel suo armadietto ed uscì.

Era in piena vista. Dalle sue parti, non sarebbe mai stato tollerato… e, probabilmente, non sarebbe stato tollerato lì ancora a lungo. La Fondazione era stata negligente a sistemarlo lì. Però c’erano cartelli del rischio biologico, simboli di materiali tossici, tante luci lampeggianti e ciminiere che rilasciavano fumo nero nel cielo, e questo gli bastava. Chiunque fosse così stupido da provare a sgattaiolare in una raffineria chimica, ci avrebbe trovato due carrelli elettrici che passavano ogni mezz’ora e degli agenti dal fisico ingannevolmente paffuto. Inoltre, non c’era una torre radio o un segnale satellitare più forte di venti watt per almeno cinquanta kilometri in qualunque direzione e la cittadina di Podunk, dove avevano preso gli R&R, distava quaranta minuti in automobile. Era abbastanza lontana. Era abbastanza isolata. Le bande dello spettro elettromagnetico erano abbastanza sgombre.

Forse.

Tossendo, salì le scale fino all’ufficio ed entrò. Le lampade a scarica lampeggiavano fastidiosamente con quel bagliore al mercurio; roba da età della pietra. E le lavagne bianche. Tre delle quattro presenti erano piene fino ai bordi di diagrammi ed equazioni scritti col tipico inchiostro rosso. Xyank prese una ciambella e del succo d’arancia e li fissò, cercando di ricordare. Cercava di riempire i vuoti. Cercava la via d’uscita da quel labirinto per topi di causalità e di sorvolarlo. Lui non era un topo, era un uomo. E se una cosa del genere poteva succedere una volta (adesso due, a dire il vero, perlomeno), allora avrebbe potuto farla succedere ancora.

La sua calcolatrice si caricò e lui pensò con essa per un pezzo. Gli inquietanti testi bianchi e luccicanti a cui un uomo non si abitua mai riempirono il suo campo visivo, registrarono il suo caos scritto a mano e cominciarono a cercare eventuali errori. Mancava poco. Molto poco.


Il telefono suonò e lui rispose.

«Thad Xyank»

«Ehi doc, qui Gerry»

«Spara»

«Paulson sta perdendo la testa»

Il buon dottore sorrise e annuì a nessuno, festeggiando dentro di sé.

«È davvero il nostro mattone, fino all’ultimo difetto. Quando vuoi mandarlo?»

«Aspetta un minuto…»

Premé due tasti e osservò mentre Melissa alzava la cornetta.

«Sono Xyank. Metti Kim in linea»

Dunque il ricercatore trottò attraverso il piano, con gli appunti sottobraccio, e rispose al telefono.

«Quali sono le condizioni del dispositivo?»

«C’è lo stesso problema, ma almeno l’abbiamo isolato nell’Unità Beta con un po’ di scrittura creativa. L’Alfa si è accesa di una luce verde lungo la tavola» disse Kim, guardando fuori dalla finestra dell’ufficio e alzando i pollici.

«Il mattone?»

Sorrise e ricambiò il gesto.

«Date energia all’Alfa, è il momento. Sto arrivando – premé due tasti – Ci siamo. Vieni quassù e porta l’originale»

Non si era mai messo una tuta sterilizzata così in fretta in vita sua e i getti di gas erano appena cessati quando Kingston spuntò dall’ingresso meridionale dell’edificio col mattone in mano. Foreman aprì la porta della camera attiva e trattenne il respiro quando loro cinque si radunarono attorno ad essa. Facendo attenzione, la misero nella piccola scatola luccicante e chiusero. Xyank ridacchiò, all’idea di quanto sembrasse il forno a microonde più costoso e complesso del mondo. Mentre l’Unità Alfa si caricava di energia, il globo sopra di essa cominciò a girare in silenzio e i condensatori che lo circondavano gemerono.

«D’accordo, datevi tutti una mossa, iniziamo la registrazione dell’esperimento ufficiale»

Premettero dei bottoni su una tastiera e i microfoni nelle loro tute cominciarono a registrare.

«Sono il dottor Thaddeus Xyank, comincia la registrazione dell’esperimento 11924. È il 9 luglio 1992. Ricercatrice Brooks, qual è l’ora esatta?» chiese Thaddeus, rivolgendosi a Melissa Brooks.

«Le 10:35 e 15 secondi, al mio segnale»

Larry Kim si precipitò all’altro terminale e inserì l’ora.

«Tre… due… uno… via!»

Il ronzio cedé il posto ad un brusio costante, la prima luce verde si accese nella camera.

«Quando avete recuperato l’oggetto dell’esperimento?»

«Intorno alle 7:00 o giù di lì»

«Bene; per piacere, signor Foreman, inserisca la destinazione per la data di oggi, alle 6:30. Dovrebbe lasciare una finestra abbastanza ampia per la scoperta della signorina Brooks»

Ci furono dei ticchettii e dei battiti sulla tastiera, poi un’altra luce, che rimase gialla per qualche secondo mentre stabilivano il blocco. Poi diventò verde; il beato e benedetto verde.

«Signor Kingston, come sono i livelli degli ioni?»

«Abbiamo radiazioni alfa e gamma stabili a… 4 eV. I livelli ambientali sul pavimento sono di… 130 μGy. È tutto verde»

La squadra si sporse in avanti per guardare più da vicino, con le dita incrociate e il fiato sospeso.

Il dottor Xyank premé l’interruttore e, dopo un lampo accecante all’interno della camera, il mattone svanì. La manipolazione dei campi tachionici era stata confermata. Mangiati il fegato, Stephen Hawking!

Esultarono. Applaudirono, si diedero pacche sulle spalle. Il signor Kim dichiarò che avrebbe offerto un cicchetto di tequila a tutti dopo il lavoro. Ma il buon dottore lo sapeva bene. Stavolta era stato facile, sapevano che avrebbe funzionato ad un certo punto nel futuro, altrimenti c’era un paradosso in arrivo e i paradossi sono per la logica, non per la natura. La natura non ha certe convenzioni. Il dispositivo non poteva non funzionare.

«Silenzio, tutti quanti – ordinò, dopo un lungo sospiro di sollievo – Brooks, il tuo compito sarà controllare una, due, tre volte tutto l’equipaggiamento di sorveglianza e monitoraggio che abbiamo e, entro la fine della giornata, farmi rapporto del tipo esatto di condizioni che possiamo aspettarci quando succederà qualcosa. Foreman e Kim, voi due lavorate sulla Beta, correggete quell’errore di sistema. Kingston, voglio che tu ricalibri l’Alfa su un dislocamento temporale positivo e che prepari un nuovo campione»

«Paulson voleva un posto in prima fila alla prossima prova» disse Gerry, con uno sguardo speranzoso.

«L’avrà se viene quassù e ti aiuta a ricalibrare. E intendo gli oscilloscopi, i voltmetri… voglio che tutto venga spiegato, prima che archivi questo fascicolo. Io vado a vedere se non riesco a finire senza riempire la scatola nera»

La dannata scatola nera… l’incubo di tutti gli ingegneri. Era ciò a cui servivano tutte quelle equazioni. Thad ci rifletté per un secondo, grattandosi i capelli brizzolati sulle sue tempie mentre lo schermo blu si accendeva davanti a lui: cercava disperatamente di trarre un senso dalla matematica, che era sembrata così chiara quando aveva tenuto in mano l’emettitore di tachioni, se l’era rigirato fra le dita un po’ di volte e aveva sentito il caldo bagliore del tempo riavvolto. O forse era stata solo la forza della disperazione e la squadra aveva avuto fortuna. Magari tutte quelle equazioni non erano neppure necessarie e il tutto si riduceva al numero trodici o duattro o come diamine chiamavano SCP-033 di quei tempi. “Il Numero Mancante”, giusto? Davvero ridicolo.

E allora tutti gli altri? La sua autorizzazione non gli dava proprio un accesso succulento alle anomalie temporali toste con cui la Fondazione stava iniziando ad avere a che fare. Diamine, non sapeva nemmeno con certezza se SCP-711 era stato costruito, smantellato, racchiuso nel cemento o se era ancora disegnato su una lavagna nell’ufficio di qualcuno, come una sorta di “progetto da compagnia”. O magari lo stava concependo lui proprio adesso, in quella camera bianca, assieme ad un manipolo di ricercatori smaniosi e talentuosi.

E quando stavano per scoprire SCP-176… oh, santo Dio. Quella vista… come aveva fatto a non accorgersene prima?

La porta al piano di sotto si spalancò mentre Xyank balzava in piedi, appena in tempo per guardare il tutto succedere per la prima volta. Si sentivano tante grida. Tutti urlavano di inginocchiarsi, di allontanarsi dai macchinari e di mettere giù le cartellette e ognuno era troppo sconvolto per obbedire.

«No…»

Gerry Kingston morì per primo, due pallottole in testa.

«No»

Melissa si accucciò dietro la scrivania e si coprì le orecchie subito prima che Paulson si prendesse alcune raffiche di proiettili nel torace e si accasciasse sul pavimento, mezzo secondo dopo.

«No!»

Kim e Foreman caddero come due lattine usate come bersagli al poligono di tiro, giacendo in mezzo a pozze del loro stesso sangue. Poteva ancora sentire Kim che esalava i suoi ultimi, gorgoglianti respiri.

«No! No!»

Thad suonò l’allarme e lo lasciò squillare, mentre i quattro uomini entravano nella camera, scansionavano gli schermi dei computer e sfasciavano le attrezzature, per poi dirigersi verso i sotterranei, dove si trovavano gli altri tecnici urlanti. La sorpresa nello sguardo dell'assalitore armato di M4A1 era evidente, quando vide l’Unità Beta, sentì il brusio e i gemiti e vide le scintille. Gridò qualcosa a proposito di uscire e poi…

Ci fu il lampo bianco, in perfetto orario. E poi tutto ricominciò. Tutti e cinque si aggirarono per il piano, lavorando sulla ricalibrazione con assoluto disinteresse. Ciascuno di loro era convintissimo che avrebbero avuto un grande aumento, un’autorizzazione di livello più alto, magari persino un Nobel per la fisica, se il loro lavoro fosse mai stato reso pubblico.

«Dannazione, no!»

Thad prese il suo manometro 12 d’emergenza da dietro lo schedario e sfrecciò fuori dalla porta, giù per le scale e raggiunse l’ingresso della camera bianca. Magari lui faceva parte di tutto ciò. Magari ne era consapevole. Magari c’era tempo per salvarli e interrompere quel ciclo. Ma la maniglia era rovente e non osò entrare. Poteva benissimo avere già cinque tumori, adesso che la schermatura aveva ceduto. Lui non ne faceva parte e non c’era tempo. Se ne avesse fatto parte, ci sarebbe stato un paradosso in arrivo. I paradossi non esistono in natura.

Il fumo denso si levava a ondate dalle finestre. Il pannello bianco si stava già spegnendo, era troppo lontano per il dottore, che si appiattì contro la parete dell’edificio e aspettò. E aspettò. E aspettò.


Le SSM arrivarono due ore dopo, spensero l’incendio, insaccarono i resti carbonizzati e raccolsero le scorie per smaltirle in sicurezza. L’intero impianto fu etichettato, impacchettato e spedito per una revisione. Una betoniera riempì i sotterranei di cemento e, di colpo, era tutto finito.

Per Thad, stava ancora succedendo. Lo trovarono nel suo ufficio, dove stava riguardando la morte dei suoi assistenti ricercatori ancora e ancora con uno sguardo privo di vita e una pinta di whiskey in mano.

«Dottor Xyank?»

«Sì?»

«Si sente bene?»

«No. Proprio per niente»

Non aggiunse parola finché non salì sull’ambulanza.


Al Comando O5 non piacque il suo resoconto. Nient’affatto.

«Me lo spieghi ancora» lo esortò O5-5 mentre O5-3, O5-7, O5-9 e O5-12 sedevano a braccia incrociate e con le sopracciglia inarcate, attraverso gli schermi delle loro videochiamate.

«Cos’è il “confine degli eventi”?»

«È un fenomeno psicologico, il modo in cui il cervello cataloga gli eventi. Qualcosa di semplice, come uscire dalla stanza in cui ci si trova, dà inizio ad un nuovo “evento” che rimane impresso nella memoria. Ecco perché ci può capitare di andare in cucina perché vogliamo mangiare un tramezzino e scordare il motivo per cui siamo lì appena oltrepassiamo la porta»

Il dottor Xyank era agitato. La sua reputazione, il suo livello di autorizzazione, il suo futuro con la Fondazione era appeso ad un… eh. “Futuro con la Fondazione”. Questa era buona, avrebbe dovuto ricordarsela.

O5-7 rise, ma non tanto con lui quanto di lui:

«Lei si aspetta sul serio che crediamo che la psicologia umana abbia arrestato una cascata tachionica? È onestamente quello che ci sta dicendo?»

Thad rispose chinando il capo e fissando il pavimento:

«Sì, signore. Il macchinario aveva un drenaggio massimo di cinque megawatt, ma il campo tachionico vero e proprio conta solo quindici watt, che sono significativamente meno di…»

O5-3 lo interruppe:

«Ma se lei è stato un testimone diretto di quel fatto, perché non si è ritrovato costretto a riviverlo all’infinito, come loro? Sarebbe grazie alla sua fantasiosa ipotesi del “confine degli eventi”?»

«È così, signore»

«E gli assalitori che hanno provocato questo… sfacelo?»

Xyank sospirò a fondo:

«Ho il sospetto che la Coalizione Globale dell’Occulto sia venuta a sapere dell’esperimento usando degli apparecchi basati a terra di rilevazione dei tachioni e che si sia mobilitata per intercettare l’emettitore. Non so come ci siano riusciti»

O5-12 si schiarì la voce. Gli altri O5 si fecero silenziosi e seri.

«Agente Tomlin – disse O5-9 – Porti il dottor Xyank al sicuro. Saremo di ritorno con la nostra decisione dopo che ne avremo discusso»

Trascorsero i cinque minuti più tesi della sua vita, che passò fissando in silenzio quei merdosi schermi a LED mentre si chiedeva ancora e ancora e ancora perché non aveva provato a trasferire l’intera operazione sottoterra. Trentasette ricercatori erano morti, dell’equipaggiamento dal valore di milioni di dollari e cinque anni di ricerche con un emettitore di tachioni funzionante erano andati perduti in un batter d’occhio. Ne avrebbe costruito un altro nel giro di un’ulteriore anno, ma ormai non c’era più modo. Qualcuno l’aveva scoperto e l’aveva rotto. Il prezzo era sul suo conto e il sangue era sulle sue mani.

Quando le luci si riaccesero, gli O5 non poterono essere più rapidi e diretti:

«Date le preziose ricerche del dottor Xyank nel campo teorico dei tachioni, abbiamo deciso che è opportuno essere clementi quanto basta con lui. Dottor Xyank, lei è ufficialmente declassato alla sicurezza di Livello 3 e dovrà fare subito rapporto del nostro nuovo sito di contenimento. Il suo incarico sarà documentare, sperimentare ed implementare le procedure speciali di contenimento dell’anomalia temporale denominata SCP-176»

«Signore?»

«È il tuo casino, Thaddeus. Ora va’ e risolvilo» affermò O5-12, sporgendosi verso di lui.


Guardarlo era inquietante. Il suo biglietto di ritorno a casa era ancora lì. E avrebbe ancora potuto arrivarci, se avesse trovato un modo. Doveva aver visto quel sito una dozzina di volte, prima… prima. Ma adesso conosceva quelle persone, il macchinario, le circostanze e sapeva cosa sarebbe potuto succedere dopo, se solo tutto fosse andato secondo i piani.

Dopo averlo osservato per altre tre ore, l’effetto si esaurì e, davanti a lui, non c’era altro che l’ennesima anomalia da catalogare. È così che gira il mondo. Cancellando le equazioni dalla sua adorata lavagna, Thad si fece scricchiolare le nocche e cominciò a scrivere:

Descrizione: SCP-176 è un'industria chimica abbandonata situata vicino [DATI CANCELLATI].

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