Interiora

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Era una notte vivace, Mario Caneda camminava da solo in fretta e furia. Era troppo pensieroso, troppo conscio di ciò che aveva fatto. Così tanto, che non si accorse di aver camminato contro un palo. Stette un po' a guardarsi la mano con cui si era toccato la fronte, cercando del sangue che non aveva versato.
Si rese conto di stare bene e proseguì. Non appena notò lo sguardo degli sconosciuti, fu colto dalla paura. Se fossero della SIR-I? Se l'avessero scovato? No, impossibile, pensò. C'era un altro cadavere apposta. Gli agenti della SCP avrebbero trovato quattro cadaveri, e uno di quelli sarebbe stato di Carlo Lavista; ossia, Mario.

Il caposquadra l'aveva rassicurato: non ci sarebbero stati problemi. Il suo unico compito era portare l'allegra squadra dal pugno di ferro nella giusta tana della lupa, leggermente più lontano di dove era pianificato, e al resto avrebbero pensato i suoi compagni. I suoi veri compagni.

Ormai non avrebbe avuto problemi, conosceva la Squadra ε quasi meglio dei suoi camerati; non si era nemmeno reso conto di aver trascorso più di un anno con loro, che ormai si fidavano ciecamente di lui.
Fu relativamente facile convincerli. Bastò dire loro di aver avvistato un fascistello nel magazzino accanto a quello in cui gli era stato detto di andare, e furono convinti.

Scorse sangue repubblicano. Mario guardò con inquietante interesse la paura nei suoi compagni, che lentamente iniziarono a capire cosa stesse succedendo. Non ci fu nessun discorso da parte di Mario, nessun urlo contro di lui da parte dei suoi finti compagni. Fu una pioggia di piombo, tanto veloce quanto dolorosa; Mario si voltò non appena i colpi iniziarono, non avendo il coraggio di guardarli.
Ci furono degli spari continui, delle urla soffocate, dei rumori come di varie parti del corpo che si spezzavano. Decise di girarsi. Sapeva perfettamente cosa avrebbe visto, ma tenne comunque gli occhi sbarrati. Ciò che gli si presentò davanti fu uno spettacolo grottesco.

Della Squadra ε della Pugnus Ferri non rimasero che cadaveri, immobili e dagli occhi vacui. I corpi erano ammassati uno sopra l'altro, come vitelli finiti al macello e pronti al taglio, straripanti di sangue. La spilletta del quattro in numeri romani, dell'agente Laura Bianchi, si era staccata dalla sua divisa, cadendo ai piedi di Caneda.

Per un solo momento, un unico istante, il camerata sentì il bisogno di vomitare tutte le sue interiora. Il caposquadra si congratulò con la spia per l'ottimo lavoro svolto. Per quanto piccola, si trattava sempre di una vittoria contro i repubblicani.

Mario Caneda: fiero camerata del Consiglio Fascista dell'Occulto, spia nella Fondazione SCP. Toltosi lo sguardo dei passanti di dosso, si alzò la sciarpa e continuò per la sua strada, sì pensieroso, ma questa volta più attento a ciò che lo circondava. Salì i gradini del condominio, sperò di non aver perso le chiavi dell'appartamento, le inserì nella serratura ed entrò di corsa, sbattendo violentemente la porta.

Era al sicuro, nessun agente lo avrebbe potuto scovare. Si rilassò, pensando a cosa avrebbe potuto fare quella notte. E pensò. E continuò a pensare. Stette a fissare la finestra, un po' perché incapace di immaginare qualcosa per passare la notte, un po' perché ancora impaurito dalla possibilità di un agente alle sue calcagna. Doveva calmarsi, stava andando in paranoia.
Occhi chiusi, respiro profondo. Calma. Morti. Vomitare le interiora. Cosa significava, che senso dovrebbe avere vomitare le proprie interiora? Era un simbolo? Non poteva saperlo, non aveva mai studiato cose del genere. Un sintomo? Era ammalato? Non si era mai ammalato in vita sua, era impossibile. Ma certo. Era la voglia di festeggiare, ovviamente. La morte di un repubblicano andava sempre festeggiata, figuriamoci quella di un'intera squadra di repubblicani.

Una bottiglia di vino dalla marca sconosciuta era tutto ciò che aveva in frigo, e considerando l'ora tarda, tutto ciò che avrebbe avuto fino al mattino. Avrebbe voluto un vino più raffinato, ma non poteva permettersi di essere schizzinoso. Non con questo dolore allo stomaco.
Prese il primo bicchiere che aveva sotto tiro e lo riempì, lo alzò in alto brindando alla sua piccola vittoria e mandò il vino giù per la gola. Fu preso da bruciore intenso, era davvero di bassa qualità.
Il bruciore non dava segno di spegnersi, ed anzi diventava sempre più forte.
Per un momento sembrava gli stesse andando a fuoco la gola. Tentò di berne altro, e fortunatamente per lui cessò. Poi ritornò.

Non c'era nulla da fare, per quanto bevesse per alleviare il dolore, esso tornava dopo qualche secondo. Pur di fermarlo era disposto a bersi tutto l'intruglio spacciato per vino. Bicchiere e bottiglia erano poggiati sul tavolino, in uno scatto d'ira gettò via il primo con una manata e afferrò la seconda, alzando il gomito e trangugiando l'acqua di fogna corretta con succo d'uva.

Stette due minuti buoni attaccato a quella bottiglia come un neonato al seno della propria madre, nutrendosi come se la sua vita ne dipendesse. Le palpebre si stavano facendo pesanti, gli occhi si chiusero, per quella che sembrò un'eternità. Le gambe non riuscirono più a mantenerlo in piedi, costringendolo ad accasciarsi per terra. Quella sensazione. Come se stesse affogando in un mare di quel vino. Si svegliò, ricordandosi di avere ancora la bottiglia in bocca. Le interiora. Ancora quel dannato pensiero, ormai era diventato un punto fisso. Doveva vomitare le interiora. Non importava come, doveva ad ogni costo vomitare le interiora. Lo avrebbero consumato.

Si alzò dal pavimento su cui era finito mentre immerso nel vino, precipitandosi furiosamente in bagno. Alzò la tavoletta, si inginocchiò dinnanzi alla latrina, e finalmente uscirono.
Il cuore era bloccato in gola, non riusciva a respirare. Con l'aiuto di entrambe le mani riuscì a prenderlo, lacerato, grondante di sangue e ancora pulsante. Finì nel gabinetto, schizzando un po' dell'acqua sulla faccia di Caneda.
Seguirono i polmoni. La gola si allargò, questa volta per permettere ad entrambi i polmoni di uscire. Non gli sarebbero più serviti, non aveva più bisogno di respirare. Anche essi finirono nella tazza.
Infine, l'intestino uscì dal camerata come farebbero dei tovaglioli attorcigliati fra di loro dalla bocca di un pagliaccio, col camerata che lo tirava, senza sentire dolore. Anch'esso finì tutto nella disgustosa brodaglia.

Mario poggiò la faccia sul gabinetto, stremato dal gesto liberatorio. Sputò un po' di sangue, ma era solo quello rimasto dal passaggio del cuore, non era ferito. Al contrario, non era mai stato meglio. Quattro organi. Quattro agenti. Li rivide, uno dopo l'altro. Potrebbe anche non aver studiato questo genere di cose, ma ormai aveva capito il simbolo. Non ci pensò perché non voleva pensarci. Cercò di avere la mente offuscata, ma era inutile. Si era affezionato a loro.
Come poteva lui, un fiero camerata fedele al fascismo, affezionarsi a gente del genere? E rendersene conto solo dopo averli sterminati, per giunta. Per quanto volesse offuscarle, le memorie tornavano a galla. Tutte le risate, le missioni insieme. Tutto bruciato in una notte d'estate. Finalmente capì. Le interiora altro non erano che appesantite dalla responsabilità di tale atto. Troppo tardi.

Si risvegliò accanto alla latrina, disorientato, ricoperto dal suo stesso vomito e con gli organi tutti al loro posto. Era solo un brutto sogno. Erano le dieci del mattino, aveva dormito per mezza giornata nel suo rigurgito. Deluso dal risveglio, si rialzò, sapendo cosa fare. Si lavò sveltamente, prese qualche vestito adeguato alla Fondazione che gli era rimasto, prese i documenti suoi e di Lavista e uscì di casa. Tra qualche mese, sarebbe stato trasferito in qualche laboratorio in Sardegna. Non poteva vomitare da solo le proprie interiora, ma al Minerva ci sarebbe stata sicuramente qualche immagine in grado di farlo.

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