L'uomo giaceva su un letto d'ospedale.
Tubi partivano e arrivavano a macchinari posti ai lati del letto, coprendo quasi la vista ai lati della stanza. L'uomo aveva superato i novant'anni, ma ormai aveva smesso di tenere conto del tempo. Ogni giorno era uguale al primo, immobilizzato dalla vecchiaia e dalla malattia in quel letto, ma reso in salute dai farmaci quel tanto che bastava perché la carne della sua schiena non marcisse in piaghe e il suo cuore continuasse a battere. Nella prigione del suo corpo macilento, la sua mente era ancora vigile, nonostante il torpore della sua esistenza.
Ogni giorno era uguale al primo, con l'eccezione della domenica, in cui quell'uomo veniva a trovarlo. Era quello il suo scopo, rimanere in vita per la sua visita settimanale. Nella monotonia di quei sei giorni, il vecchio non aveva altra via di fuga che non fossero i ricordi, pur sapendo che pagava ogni viaggio nella sua mente barattando la noia con il dolore e la paura. Ma anche stavolta, cullato dal rumore di ogni macchinario che misurava battiti e respiri e che pulsava fluidi in lui, si abbandonò ad essi e ancora una volta, ricordò come iniziò tutto quanto.
Erano gli anni '60.
Aveva poco più di trent'anni e dopo un dottorato ed un paio di monografie che riportavano il suo nome tra gli autori, era pronto a farsi un nome nel mondo accademico dell'archeologia.
Un giorno di giugno, venne invitato dal direttore del Dipartimento di Archeologia, il professor Carli, ad un pranzo per discutere del suo futuro e delle sue prospettive. Era stato il suo mentore, la persona che aveva coltivato il suo amore per la storia e lo aveva condotto con sé ai suoi primi scavi, introducendolo a quella che allora pensava sarebbe stata la sua carriera, il suo mondo. Anche quel giorno stavano pranzando alla trattoria "La Botte" dove avevano mangiato insieme negli ultimi quattro anni e tra un bicchiere e l'altro, Carli gli pose una domanda.
"Filippo, cosa ne sai dei culti romani praticati nelle paludi del Nord Italia?"
Il ragazzo quasi si strozzò con una risata, mentre stava bevendo un bicchiere di vino della casa.
"Professore, immagino di sapere quello che lei e gli altri studiosi di Storia Romana sanno al riguardo: leggende tramandate da autori medievali, sconfessate dagli Illuministi e rievocate nel pre-Romanticismo."
Posò il bicchiere. "Come mai questa domanda?" chiese.
"Il Dipartimento sta valutando dei progetti di ricerca basati su fonti storiche minori, in particolare un manoscritto del nono secolo su Valerio Gallico, un questore morto nel quarto secolo." Prese la bottiglia e riempì il bicchiere a metà. "Basandoci su quanto è stato riportato, non c'è quasi nulla di nuovo rispetto ad altre trascrizioni di testi dello stesso autore o che non sia già stato trattato da scrittori e funzionari con un, diciamo, maggior talento letterario. Tuttavia, ci sono alcuni frammenti che io e i miei colleghi abbiamo trovato decisamente interessanti.".
Filippo lo fissava incuriosito: che legame c'era tra un autore semisconosciuto e quella zona?
Il bicchiere venne posato vuoto sul tavolo. "In questo manoscritto, sono stati riportati frammenti che menzionano, diciamo, molto animosamente, culti basati su riti apotropaici dedicati alla dea Febris.".
"Febris? La dea menzionata all'inizio dell'Apokolokyntesis di Seneca?" chiese Filippo.
"Esattamente." rispose il professore "La dea della febbre malarica. Se non ne avevi mai sentito parlare, non ti biasimo: a livello di fonti e reperti, abbiamo molto poco del suo culto. Quello che sappiamo è che, oltre a qualche tempio a Roma dove si riversavano malati e fedeli, molto probabilmente esistevano culti minori nei pressi di zone paludose, visto il legame con la malaria."
Fissò il ragazzo negli occhi sorridendo. "E se questi testi sono affidabili come ipotizziamo che lo siano, potremmo confermarne l'esistenza." Poggiò una mano sulla sua spalla. "Pensaci, reperti, forse delle rovine, che aspettano solo di essere recuperati da un metro o due di acqua stagnante. La scoperta che consacrerebbe i nostri nomi nella storia dell'archeologia italiana di questo secolo."
Premi, onori, riconoscimenti. Filippo poteva immaginare questo e altro, acceso nell'animo dalle parole del suo mentore.
"Per ora sarebbe interessante compiere un sopralluogo, ma i fondi attualmente non permetterebbero la formazione di un equipe da mandare sul campo" continuò Carli "Ma la tua esperienza ci aiuterebbe ad iniziare a-".
Filippo lo interruppe. Non c'era altro da aggiungere.
Appena uscito dalla trattoria si sarebbe precipitato nel suo appartamento per preparare il necessario per la spedizione e informarsi sugli orari dei treni.
Se solo…
Il viaggio non era stato comodo, ma non avrebbe potuto curarsene in alcun modo; aveva trascorso tutto il tempo leggendo e studiando gli appunti forniti dal dipartimento. La palude era grande, ma era abituato a condizioni impervie nei suoi ultimi scavi e non temeva di perdersi o di soffrire alcunché: la malaria ormai era un ricordo di decenni fa e qualche puntura di zanzara non lo avrebbe fatto desistere.
Studiando i frammenti delle cronache di Valerio Gallico e confrontando le poche informazioni geografiche utili con le mappe del luogo, era quasi sicuro di riuscire a delimitare un'area con la maggior probabilità di poter rinvenire segni di un passato culto romano. Segnò tutti i sentieri e le vie più sicure e attualmente praticabili nei pressi di alcune rive dell'acquitrino e disegnò un ulteriore area con la zona potenzialmente indicata dal pretore romano; con una matita rossa segnò l'area in comune tra le due zone.
Ecco l'area dove si sarebbe concentrata la sua ricerca.
Alla fine, il suo viaggio lo portò finalmente alla meta: la palude era lì, estendendosi lungo la pianura. Prima di arrivare, si era fermato per un paio di giorni nei paesi limitrofi per cercare di scoprire qualche indizio nelle storie locali, ma i risultati erano stati più deludenti del previsto: di tutti gli abitanti che avevano acconsentito a rispondere alle sue domande, nessuno aveva idea o memoria di una possibile presenza romana in quella specifica zona; al contrario, tutti conoscevano la stessa leggenda.
Un drago che vive nella parte più profonda e remota della palude, un drago il cui fiato è in grado di uccidere cento cavalieri e di cui perfino San Giorgio -e arrivati a questo punto, tutti praticavano un segno della croce- avrebbe avuto timore ad affrontarlo.
Tutto sommato, ragionò, ciò poteva essere comunque un indizio. Valerio Gallico aveva menzionato di sfuggita un monstrum a cui venivano offerti doni e benché la cosa gli risultasse estremamente improbabile, forse non era stato tempo perso. Non si sarebbe stupito se, dragando quelle acque, avrebbero trovato qualche statua orribilmente abbozzata o un fossile che la religione pagana aveva interpretato come un segno divino o una vestigia dei tempi degli Eroi.
Animato ulteriormente da questo ragionamento, si diresse verso la palude.
Aveva lavorato senza sosta, scandagliando acqua e fango e segnando croci sulle sue mappe e con una piccola barca noleggiata da un abitante della zona, aveva iniziato a muoversi verso le parti più profonde. Era sicuro, sicuro che qualcosa doveva pur trovarla, fosse anche un coccio ammuffito; lo sentiva nelle sue ossa, fin da quando aveva varcato i confini della vegetazione, che qualcosa si nascondeva lì.
Un pomeriggio, vicino la riva dove si era accampato, iniziò a studiare nuovamente le sue mappe, i suoi appunti, quando ad un tratto iniziò a sentirsi la testa pesante, a sentirsi sonnolente. Era forse l'aria della palude?
Provò ad alzarsi, ma le gambe gli cedettero e si ritrovo carponi nell'acqua.
Nelle acque salmastre, vide il riflesso di un tempio.
Come alzò lo sguardo, il tempio era lì, in tutto il suo decadente splendore. Filippo credette di essere impazzito: per un attimo pensò di grattarsi le palpebre, ma si rese conto di quanto stupido sarebbe apparso, lì nel mezzo della palude. Il tempio era lì, reale ed esistente come una qualsiasi altra rovina che aveva visto nella sua vita, con l'unica differenza che queste si ergevano direttamente dal pelo dell'acqua come se fosse solido terreno.
Non riusciva a muoversi, i suoi pensieri si stavano contorcendo nella sua mente senza che vi fosse ordine. Aveva trovato un tempio in mezzo alla palude. Aveva trovato un tempio romano che galleggiava sull'acqua come se il marmo fosse legno di balsa. Aveva fatto una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni. Come cazzo fa quel tempio a galleggiare sull'acqua. Dio assistimi perché sono diventato pazzo e non tornerò più a casa.
Un ruggito recise il filo dei suoi pensieri e il terrore invase il suo petto.
Dietro di lui vi era una creatura che si stava avvicinando decisa verso di lui; Filippo istintivamente si voltò e la sua mente terrorizzata venne sconvolta da un'ulteriore visione inspiegabile.
La creatura aprì le fauci preparandosi ad aggredirlo, ma una voce lo fermò all'istante.
Filippo non comprese cosa dicesse o da dove provenisse, ma con sua somma gioia, la creatura iniziò a retrocedere, per poi allontanarsi da lui a passo svelto. Sono morto sono impazzito sono morto sono impazzito sono all'inferno. La sua mente era tornata ad aggrovigliarsi nell'assenza di una spiegazione e sentì che qualcosa stava per spegnersi, tutto stava per svanire attorno a lui.
"Tu."
Quella voce lo riportò nuovamente nella palude e si girò nella direzione da cui è provenuta.
Vide una donna seduta sui gradini dell'entrata del tempio. Lei gli sorrise, si alzò e alzò il suo braccio verso di lui.
"Seguimi." disse e la sua voce giunse nuovamente alle orecchie del giovane archeologo come un suono irreale, ultraterreno. Lo shock di questi ultimi minuti lo aveva fatto dubitare di tutti i suoi sensi e non era più sicuro se quella voce fosse umana o meno.
"Seguimi, Filippo." ripeté la donna, scandendo il suo nome lentamente, come la resina che cola da un albero.
In qualche modo conosceva il suo nome, ma non si chiese come o perché. Ormai era convinto di essere giunto in un luogo dove nessun uomo doveva entrare e tutta questa follia era un mondo a lui incomprensibile: se lo dicevano le antiche ballate inglesi sui boschi in cui le fate puniscono gli intrusi e Rod Serling nella televisione, forse vi era un fondo di verità.
Lentamente, iniziò ad avanzare nell'acqua e nel fango, diretto verso il tempio. Come raggiunse i gradini dell'entrata, si arrampicò e riuscì a risalire i primi; come si rialzò, vide chiaramente la donna che lo aveva chiamato. Era una donna esile dalla pelle innaturalmente pallida; i suoi capelli bruni le scendevano fino alla schiena, ed erano leggermente più scuri del colore indefinito della veste logora che la ricopriva. Ma quello che lo colpiva e da cui non riusciva a distogliere lo sguardo erano i suoi occhi, da cui provenivano riflessi verdi.
"Chi sei? Come sai il mio nome? Cos'è questo posto?". Si sentì stupido ad urlare quelle domande, ma in tutta questa irrealtà, non avrebbe trovato altre parole da pronunciare.
Lei rise. Posò delicatamente una mano sulla sua spalla e sussurrò "Questo è la terra oltre i sogni, Filippo.".
"E' solo un sogno?" chiese sbigottito. Allora perché non si era svegliato dopo il terrore provato alla visione di quella creatura? Cosa stava succedendo?
"Perché stai ancora pensando al possibile e all'impossibile? Perché non ti fidi di quello che stai vedendo, di quello che stai sentendo?" disse lei, continuando a ridere.
Quella risata mescolava irritazione nella sua confusione e decise di prendere in mano la situazione: sogno o non sogno, era pur sempre un professionista e non avrebbe accettato di essere trattato così.
"Dimmi chi sei e dove siamo, dannazione!" sbraitò. Fece per afferrarle il polso ma lei fu più veloce e la sua mano si levò contro la sua, bloccandolo. La sua stretta era di una forza inconcepibile per il suo aspetto e Filippo cercò di fermarla, ma fu inutile. Lei strinse la sua altra mano contro la sua gola e lo fece inginocchiare, senza lasciare la presa.
"Filippo, Filippo…" lo ammonì con il tono di una madre che rimprovera il figlio "Perché cerchi di scoprire i limiti della mia pietà? Non ti ho forse salvato prima? Non ti ho forse invitato in questo luogo sacro?"
"L-lasciami…" esclamò Filippo, cercando inutilmente di rialzarsi.
"Ho letto il tuo cuore non appena hai raggiunto queste acque. Ricerchi la verità, ricerchi le ombre del passato. Io posso mostrartele, così come posso mostrarti il futuro."
La sua voce iniziò ad essere sempre più cupa e sibilante, come se non provenisse più dall'esile donna che si trovava su quei gradini.
"Ora saprai tutto, uomo. Io ti darò il passato e tu mi donerai il futuro."
E lasciando la presa sul suo polso, posò la mano sul suo viso.
Il cielo iniziò a rannuvolarsi e la luce del pomeriggio si oscurò. Filippo stava rantolando mentre la mano della donna era posata sulla sua fronte.
La sua mente stava precipitando in una tenebra senza fine. Non poteva percepire nulla: un momento era inginocchiato, ma non appena la donna aveva posato la sua mano su di lui, la sua coscienza era stata superata dalle sue membra.
All'improvviso, riebbe di nuovo percezione di sé e di dove fosse. Un lungo colonnato alternato da bracieri. Un altare davanti a lui.
"Cosa credi che io sia?". La voce della donna riecheggiò dall'altare come se provenisse dalla pietra stessa che lo componeva.
Filippo si sentì trascinato in basso da una forza invisibile, e si trovò prostrato a fissare l'altare, da cui ora proveniva una luce sempre più abbagliante. E iniziò a vedere qualcosa in essa.
"Cosa credi che io sia, Filippo?" chiese
"Io sono la malattia, io sono la cura"
Mari ancestrali e davanti ai suoi occhi vede cellule che si riproducono e si moltiplicano, per poi essere assorbite da cellule più grandi
"Io sono la malaria e il miasma, io sono la febbre e la purificazione"
Un esercito di malati in adorazione su un pavimento di pietra che si estende senza fine
"Io sono la paura della morte e della sofferenza, io sono la speranza della guarigione"
Una mano che si posa su un volto morente in cui inizia a infondersi nuovamente vita e calore
"Io sono una dea, io sono il personaggio di un'opera satirica, io sono una storia da raccontare ai bambini perché stiano lontani dalle paludi"
Un imperatore che si inginocchia ad una vecchia decrepita dalla cui bocca zannuta cola melma nerastra
"Io sono tutto questo, io sono un'infinitesima frazione di tutto ciò"
Nebbia e volti che si sovrappongono ad altri volti, voci che si sovrappongono ad altre voci, infiniti nomi che vengono urlati
"Io sono da prima che abbiate pensato in cuor vostro cosa dovessi essere, io ho contato le vostre ossa prima ancora che nelle vostre labbra nascesse il mio nome mentre innalzavate palafitte"
Una radura avvolta dall'oscurità e all'improvviso, templi e altari iniziano a sorgere dalla terra e ad estendersi senza fine verso il cielo
"E se anche il mio ricordo venisse cancellato dalla storia, com'è avvenuto ai miei templi ed ai miei fedeli, rimarrei comunque tra voi insieme ai miei fratelli e sorelle, a tormentarvi e a gratificarvi secondo i nostri capricci o il volete del Fato. E voi nemmeno lo sapreste."
La visione era terminata e la forza che lo tratteneva era scomparsa, ma non poteva muoversi.
Accanto a lui apparve la donna, che si avvicinò al suo volto.
"I tempi sono ormai maturi, Filippo. La vostra specie ha scoperto i segreti della vita ed è prossima a scoprirne altri ancora. Ora siete nuovamente degni di ricevere la mia Sapienza e di usarla in nome mio. Ma stavolta sarà un mio campione a custodirlo."
Mentre sussurrava queste parole, Filippo vide i suoi occhi illuminarsi di una luce verde simile a quella dell'altare.
"Gli dèi non combattono per gli dèi, ma un eroe sì."
La luce aumentò e il suo volto iniziò a mutare.
E Filippo urlò.
Si svegliò di soprassalto sulla riva.
Rialzando di scatto, urlò al punto da far allontanare ogni uccello posato sugli alberi vicini.
Poi si calmò. Era vivo, era salvo.
Forse era stato tutto un sogno, forse erano stati i miasmi della palude a farlo svenire o a produrre allucinazioni del genere; aveva letto dei gas naturali utilizzati da Pizie e Sibille per ricevere la Follia Divina necessaria per vaticinare. Cercava di convincersi che fosse solo questo, che fosse solo un avvelenamento misto alla sua suggestione, ma c'era una sensazione dentro di sé che non riusciva a scrollarsi di dosso.
Era successo ma non poteva essere successo. Non era possibile.
"Perché stai ancora pensando al possibile e all'impossibile? Perché non ti fidi di quello che stai vedendo, di quello che stai sentendo?"
Un pianto stridulo lo distolse da quel pensiero; si voltò e a distanza di pochi metri, vide un neonato che si dimenava a terra. Si girò ma non vide nessun altro lì: come aveva fatto a finire lì?
Si avvicinò e vide che al suo collo era stato appeso un monile: un'antica statuina di ceramica di una donna alata. La sfiorò appena e quella voce trapassò la sua mente.
"Nutri il mio Campione e preparalo per la sua missione. Nel tuo sangue ora scorre un frammento della mia essenza e con ciò pascerai il suo corpo. Ma perché possa trionfare, dovrà trovare la Sapienza che ho affidato ai padri dei vostri padri. Quando sarà il momento, gli mostrerò la via per essa. Nutri il mio Eroe e preparalo, altrimenti conoscerai la mia ira."
Filippo si allontanò di scatto dal bambino e cadde a terra. Era tutto vero, è tutto vero.
Si rannicchiò in posizione fetale e pianse.
Quando ormai fu sera inoltrata, si alzò lentamente e si diresse verso il bambino, che ancora piangeva disperato a terra. Lo prese delicatamente tra le sue braccia e iniziò a cullarlo. Che lo volesse o no, ora la sua vita sarebbe stata improntata alla cura di quel bambino, alla sua crescita, finché non sarebbe venuto il suo momento di seguire il piano per cui era stato generato.
Avrebbe rinunciato alla sua carriera, alle sue aspirazioni, purché lei non tornasse più da lui.
Prese un coltellino dal suo zaino e incise la punta del suo indice. Lasciò che le gocce di sangue colassero su quelle piccole labbra e il neonato smise di piangere. I suoi occhi iniziarono a risplendere di luce verde.
La porta della stanza si aprì all'improvviso, riportando l'uomo nella Terra del Presente; entrarono due figure, una giovane infermiera e quell'uomo.
"Ci lasci pure da soli, mi occuperò io della procedura." mormorò l'uomo.
"Come preferisce, dottore." disse con referenza la donna. Non era la prima volta che il Dott. Farnesi gestisse da solo la terapia di quel paziente, come avveniva ogni settimana.
La porta si richiuse e i due uomini rimasero da soli.
L'uomo in piedi, vestito elegantemente, prese una sedia e l'avvicinò al letto.
"Non credo che ci sia bisogno di chiederti come stai. Qui hai il meglio che la scienza medica oltre il Velo possa offrire." disse sedendosi.
Si accese una sigaretta e attese che il vecchio mormorasse qualcosa. Ma lui rispose alle sue parole con un'espressione di profondo ed incommensurabile odio.
Uno sbuffo di sigaretta si fuse ad una risata.
"Ogni settimana, sempre questo silenzio e questa espressione. Eppure, pensavo che portarti nella nostra nuova clinica ti avrebbe ridato il sorriso." disse. "Non c'è uomo, creatura o spirito di Gorična che non pagherebbe moneta sonante pur di ricevere le nostre cure e guardati, ti abbiamo riservato una delle stanze migliori, degne di un VIP."
Altro fumo andò a mescolarsi all'aria della stanza, iniziando a formare una densa cappa plumbea.
Il volto del vecchio continuava ad essere una maschera di odio e disprezzo.
"Capisco. D'altronde queste chiacchiere dovrebbero servire solo a rendere il tutto più semplice, trovo così noioso questo tuo dibatterti. Suppongo che quello che ti scorre nelle vene, ti renda parzialmente immune al mio anestetico, ma non è stato, non è, e di certo non sarà un problema."
L'uomo posò la sigaretta su un vassoio posto sul comodino, ed estrasse una vecchia siringa arrugginita dalla giacca.
L'uomo prese un laccio emostatico dal vassoio e lo applicò al braccio scheletrico del vecchio. Avrebbe voluto combatterlo, anche solo ritrarre il braccio, ma sapeva che era inutile. Era troppo anziano, troppo malato, troppo debole per farlo e, anche se fosse stato in salute, anche se fosse stato l'uomo che era 60 anni fa, non sarebbe stato comunque in grado di fermarlo. Era solo un uomo. L'ago penetrò la sua carne e sentì nuovamente il dolore che percepiva ogni settimana, e di cui non si sarebbe mai abituato. Un urlo squarciò il fumo nella stanza, mentre la siringa si riempiva di sangue e di acqua salmastra.
Una volta riempitasi, il Dottore staccò il laccio dal braccio del vecchio torturato e, dopo essersi tolto la giacca e sollevato la manica della camicia, lo applicò al suo; dopo di che, procedette ad iniettarsi il contenuto della siringa. Un sospiro languido uscì dalle sue labbra, mentre i suoi occhi iniziarono a risplendere di un bagliore verdastro.
"Molto bene, molto bene." mormorò all'anziano, il cui tormento sembrava diminuire. Si riabbottonò la manica e indossò nuovamente la giacca, per poi riporre la siringa nella tasca interna. Né lui né il vecchio avevano segni sul braccio che testimoniassero quanto era appena accaduto.
"Sto per morire e nemmeno tu potrai impedirlo. Morirai come me, presto o tardi, e finalmente questo orrore finirà."
Le parole del vecchio uscirono dalla sua bocca trainate da un tono di rivincita.
Ma l'uomo vicino al suo letto non ne sembrò turbato.
Si avvicinò a lui, accostandosi al suo viso, così vicino da sentirne il fiato gelido sulla pelle.
"In questa clinica la vita di ogni anima sofferente mi appartiene e ti assicuro che finché avrò bisogno di te per rimanere in forza e potenza su questa terra, non conoscerai il riposo della morte."
Diede un veloce bacio alla guancia del vecchio, che si ritrasse inorridito.
"D'altronde, non servono a questo gli ospedali?".