In Morte d'un Trevisano
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Silvana era in ritardo e continuava a ripetersi che doveva sbrigarsi. Eppure, stava camminando piano. Nemmeno la pioggia scrosciante poteva convincere le sue gambe ad accelerare il passo. Ormai era zuppa d'acqua, ma non le importava. La verità è che non voleva arrivare per davvero, sperava che non arrivando la realtà sarebbe cambiata; che il tempo potesse riavvolgersi, ma sapeva che era impossibile. Teneva la testa bassa, cercando di non pensare e fallendo miseramente. Fu così che si ritrovò a fissare il sagrato della chiesa. Alzò lo sguardo e guardò l'entrata dell'edificio silenzioso. Vi era entrata centinaia di volte nella sua vita, specialmente da piccola, ma questa volta la vedeva come un posto tenebroso, nemico, ostile. Rimase ferma qualche secondo, indecisa, quando d'un tratto un uomo le posò una mano sulla spalla. Il contatto terminò di colpo com'era iniziato, senza che lui dicesse una parola. Silvana non fece in tempo a riconoscere la figura che questa varcò la porta nella chiesa. A quel punto, la donna prese un respiro profondo ed entrò a sua volta.

Una volta all'interno, Silvana continuò a camminare a testa bassa. La messa non era ancora iniziata, ma ormai erano arrivati quasi tutti. Si diresse verso l'altare proseguendo a lunghi passi tra le file centrali di panche. I presenti si giravano a guardarla quando passava, riconosceva molti di loro, alcuni le fecero dei cenni di saluto. Silvana arrivò in testa alla fila e si avvicinò alle prime panche. Era lì presente la famiglia Trevisano al completo. O quasi. Rimanendo in silenzio, si sedette vicino a suo fratello Nicola in seconda fila. Questi le fece spazio e lei poggiò una mano sulla spalla di sua madre, davanti a lei. L'anziana donna era in lacrime, e si vedeva che aveva pianto molto nei giorni precedenti, ma cercò comunque di sorridere alla figlia.

Anche il marito si girò e incrociò lo sguardo di Silvana per poi avvicinare a sé la moglie, tentando inutilmente di confortarla. Entrambi si girarono nuovamente verso l'altare e Silvana si appoggiò allo schienale della panca. Accanto a lei, Nicola aveva la testa bassa, talmente tanto che sembrava si stesse fissando i talloni. Stava semplicemente facendo quel che anche lei avrebbe voluto fare: tenere lo sguardo lontano dalla bara a qualche metro di distanza. Si girò nuovamente verso il fratello e gli toccò leggermente la spalla. Lui alzò finalmente gli occhi per fissarla, non disse nulla. Fu Silvana a dover rompere quel silenzio di tomba con un sussurro all'orecchio di Nicola.
"Qualcuno sospetta qualcosa?"
Il volto del fratello assunse un'espressione di dolore che fece sobbalzare il cuore a Silvana stessa.
"No."
La donna annuì in silenzio e abbassò lo sguardo. Ecco il prete entrare da una porta laterale; la funzione stava per incominciare.

A questo punto anche Silvana guardò la bara che avrebbe dovuto contenere i resti di sua sorella Patrizia. Dentro, ovviamente, lei non c'era. Così era la vita alla Fondazione: bugie, menzogne, inganni e se ti va male nemmeno una degna sepoltura. Tutto quel che rimaneva della sorella non era che un mucchietto di cenere in qualche laboratorio dell'Asclepio.
Silvana scoppiò a piangere.


Quel caffè faceva davvero schifo. O forse, a pensarci meglio, era lei ad avere l'amaro in bocca. Se la funzione in chiesa era stata difficile da sopportare per la famiglia della defunta, allora la calata della bara al cimitero era stata a dir poco straziante. Silvana e Nicola avevano deciso di andare al bar a prendersi un caffè, nella speranza che li riscuotesse dallo stato in cui si trovavano. I loro genitori avevano preferito andare a casa, dopo aver fatto promettere ai figli che sarebbero tornati per pranzo. Nicola non aveva fiatato da allora.

Silvana stava fissando il suo caffè ormai freddo da cinque minuti quando finalmente il fratello mormorò qualcosa.
"Non doveva andare così, dannato insieme di circuiti…"
"Nico?"
"ROWSANNAH, Silvana. Ha ucciso nostra sorella."
"Hai letto pure tu il rapporto. L'IA ha fatto quel che era programmata per fare, Patrizia era spacciata in ogni caso."
"Ma forse avrebbero potuto trovare una cura, forse…" l'uomo sospirò. "Lo so, lo so. Continuo a ripetermi che non c'era alternativa, ma poi ripenso al suo viso, alla sua risata, a quando eravamo piccoli. Non doveva andare così."
"È morta tanta brava gente quel giorno. Come Patrizia erano al posto sbagliato nel momento sbagliato."
"Ma lei era nostra sorella! Era compito mio proteggervi!"
"Sono i rischi del mestiere, li corriamo tutti in qualche maniera."
"Sì, ma io vi ho fatto entrare alla Fondazione, io vi ho fatto correre quei rischi e adesso Patrizia è morta. Ho davvero fallito come fratello maggiore."
"Non dire così, sai benissimo che ci siamo entrambe guadagnate l'ingresso alla Fondazione."
"Lo so, ma sono stato io a segnalarvi inizialmente ai reclutatori. Forse non vi avrebbero mai trovato se non fosse stato per me."
"Ora non fare il coglione, sai benissimo che potevamo rifiutare il posto. Ci hai offerto l'opportunità di una vita."
"Sì, bella vita."
Nicola aprì il portafogli tirò fuori una banconota da cinque e la poggiò sul tavolo prima di mettersi la giacca e uscire dal locale. Silvana, ora sola, lo guardò allontanarsi attraverso la vetrina. Sentiva di dover fare qualcosa, ma non sapeva cosa. Data la fastidiosa mancanza di idee in proposito, decise che forse lasciarlo un po' da solo era l'idea migliore.


Nicola per poco non sbattè la porta del locale. Era furioso, triste, confuso, non si diresse nemmeno verso la sua auto, s'incamminò in una direzione a caso a passo spedito. Forse il gelo di quella giornata, davvero strano considerata la stagione, avrebbe raffreddato i suoi bollenti spiriti, ma ne dubitava. Tutti intorno a lui parevano felici, solo in pochi notavano l'uomo che camminava svelto e rigido tra loro. Avrebbe voluto urlare quanto stava soffrendo, ma non poteva, non voleva. Loro erano felici e non voleva di certo rovinar loro la giornata, ma più li guardava, più si arrabbiava.

L'uomo si fece forza e prese un respiro profondo. Doveva calmarsi. Vide una panchina e si sedette. Si trovò di fronte ad un parco giochi e gli scese una lacrima sulla guancia, non poteva fare a meno di sostituire i volti dei bambini che giocavano con il suo e quelli delle sue sorelline. Continuò a fare respiri profondi ancora per qualche minuto… inspirare, espirare. Inspirare, espirare. Inspirare, esp- un insetto gli entrò in gola facendolo tossire. Dannazione, non voleva uscire, Nicola tossì ancora per una ventina di secondi prima che l'invertebrato molesto venisse espulso; tirò un sospiro di sollievo. Solo allora notò una bambina che lo fissava. Stava ridacchiando, doveva aver visto la scena. Nicola la guardò un attimo e, temporaneamente distratto dal mondo e da tutti i suoi problemi per merito di quel piccolo evento, non riuscì a evitare di sorridere pure lui.

Anche se con animo più leggero, qualche secondo dopo tornò alla realtà. Alle sue colpe, al suo dolore. Era ora di tornare a casa. Nicola si alzò e si diresse vero la sua macchina.


Il pomeriggio e la sera si svolsero con fare stranamente allegro, rivangando nei bei ricordi, ma la notte non fu altrettanto clemente con Nicola.

Era morta per un incidente, questo si ripeteva. Un incidente quasi impossibile da prevedere al tempo. Perché non era malata quel giorno? Perché non era in vacanza? Perché non era il suo giorno di riposo? Perché doveva finire proprio all'Asclepio? I pensieri si alternavano, di continuo, vorticosamente, e se prima Nicola si sentiva impotente, adesso si sentiva in colpa. Perché l'aveva fatta avvicinare alla Fondazione? Perché non l'aveva protetta? Perché?!

La sua lotta interiore gli sembrava senza fine e senza pari. Da un lato, non era colpa sua. Forse l'aveva indirizzata per quella strada, ma lei aveva scelto di percorrerla e ne era molto felice. Era il suo lavoro e quel che Nicola provava non era altro che una reazione psicologica senza ragioni logiche di esistere, d'altronde era uno psicologo, casi simili al suo gli capitavano spesso. Dall'altro lato, gli mancava sua sorella, le voleva bene come a poche altre persone al mondo. Si sentiva in colpa, provava emozioni forti e non voleva che quello che stava passando si trasformasse in un fenomeno psicologico da studiare.

Sprofondò la faccia nel cuscino. Per una dozzina di minuti, o forse mezz'ora, o forse ore, Nicola stette immobile a pensare, riflettere, soffrire, cercare di capire cosa fare. Fu a quel punto che capì. Non poteva fare nulla.

Era tardi ormai, quel che era successo era successo e non si poteva cambiare. Parole che lui stesso aveva detto ad altri in situazioni simili, ma che solo adesso comprendeva davvero. Sua sorella era morta. Era stato un incidente, un tragico incidente, ma era vissuta felice. Ogni volta che si vedevano, lei lo ringraziava per l'opportunità che le aveva dato e gli riempiva il cuore di gioia. Gli diceva di come si sentisse utile al mondo e speciale, parte di una specie di 'élite mondiale', espressione che divertiva parecchio il fratello. Le piaceva pensare che tutto quel che faceva fosse, in un modo o nell'altro, per il bene dell'umanità e avrebbe di sicuro trovato conforto nel fatto che la sua morte avesse impedito un disastro di proporzioni maggiori. E anche Nicola avrebbe dovuto trovare consolazione in ciò.

La vita di Patrizia era finita, ma la Vita andava avanti. Il mondo continuava a girare e Nicola avrebbe continuato a fare il suo lavoro, giorno dopo giorno. Forse non era una visione allegra e ottimistica, ma lo aiutò a mettere il cuore in pace. Tutto quel travaglio interiore gli aveva seccato la gola, come se avesse parlato per ore e non fosse stato tutto nella sua testa. Quindi l'uomo si alzò e andò in cucina a bere un bicchier d'acqua.
"Oggi è un nuovo giorno."
E lo era davvero, erano già le tre del mattino.

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