“Forza, dobbiamo muoverci il più rapidamente possibile! Non mancherà ancora tanto…”
Parlava così Marcello Maso ai suoi due amici, il giovane Saverio Cuomo e il vecchio Giovanni Paoli. Quest’ultimo era retto dal ragazzo nella corsa verso il mare, mentre il vigoroso Marcello apriva la strada. Non avevano fatto in tempo a recuperare nulla dall’assedio, come loro molti altri dell'Ordine. Erano quasi tutti scappati nella campagna e nei boschi attorno al Castello. La fuga era stata prevista, ma nessuno avrebbe potuto immaginare sarebbe dovuta essere preparata così improvvisamente. Il suono della spada di Marte li aveva destati dal torpore, per gettarli nella polve senza preavviso alcuno.
La roccaforte dell’Ordine, bastione della libertà e delle antiche coscienze, era ora caduta in mano al nemico. La sua furia non avrebbe certo risparmiato né gli oggetti né le anime che vi risiedevano, tantomeno quelle di coloro ch'avevano invano tentato di resistere al suo assedio, ma che non si erano voluti o potuti muovere da esso. Al rombo del cannone, le alte torri di Castel del Monte, le sue mura e le sue porte dovettero cedere; attraverso esse ora entrarono i cavalieri dallo stendardo rosso crociato, che piantando le loro insegne all’interno del cortile centrale intonarono orazioni al loro patrono e alla Madonna, a ringraziamento per la tanto attesa vittoria. Dalla pianura sottostante, i tre videro levarsi un debole fil di fumo dalle colline, che ancora si ergeva verso il cielo.
“Tutto è perduto” disse mesto Giovanni “ormai non ci resta davvero altro. Nessun rinforzo, nessun aiuto. Guarda per l’ultima volta questa terra Saverio, forse è l’ultima volta che la rivedremo e che vi ritorneremo…”
“Ritorneremo” disse Marcello “in un modo o nell’altro. Dobbiamo.”
“Come? E quale importanza ha? Dimmelo, ti prego.” chiese Saverio, con la voce rotta e il pianto a stento trattenuto. “Fatico a vedere un senso nella nostra fuga.” Era giovane e inesperto, ma le cose le vedeva per come erano.
“I-io…” Marcello non sapeva che dire.
Era spiazzato quanto i suoi altri sodali, ma avrebbe voluto rimanere ottimista. Se lo era imposto: doveva muovere i compagni verso la salvezza e la speranza è il più forte tra i motori.
Ma a cosa serviva in effetti il loro fuggire? L’Ordine era caduto, per sempre. Le sue sedi in Italia, prese d’assalto dai cavalieri giorgiti, erano state catturate una a una, con l’eccezione di Castel Del Monte, protetto fino a poc'anzi dalla mano del sovrano borbonico. Ma il re Francesco II era improvvisamente morto senza lasciare eredi maschi, e il nuovo re Luigi I, salito al trono grazie all'appoggio pontificio, aveva lasciato che le grinfie del vicario di Cristo arrivassero nelle terre del Tavoliere. Non prima di averli bollati come sediziosi una volta per tutte come quarantottini e rivoltosi, una piaga per il nuovo stato italiano a guida petrina. A nulla erano valse le rimostranze, il dissenso, le suppliche: la loro voce rimaneva nel deserto e la volontà del soglio romano li voleva morti.
Tutti questi pensieri annegavano la fede e la lealtà di Marcello verso l’Ordine. Forse che era meglio arrendersi, rimettendosi nelle mani dei cavalieri, sperando nella loro possibile clemenza?
E a che pro? Passando il resto dei giorni in qualche sudicia prigione, o lavorando quasi come schiavi nelle solfatare? Cosa valeva di più al mondo, la vita o la libertà? Pensando a questo, gli ritornavano alla mente i dibattiti filosofici che erano soliti tenere, in compagnia dei dotti dell’Ordine, nei primi giorni del loro noviziato al suo interno. Parevano alle volte così astratti e lontani dal loro vivere quotidiano, ineffabili e irraggiungibili, che non se ne era mai curato molto. Ora che la loro vita era appesa a un filo, quelle domande divenivano, da potenza, atto. Non era più il tempo di chiedersi cosa fare, ma di agire.
Ma dove? E come? Arrendersi non valeva dire di aver salva la vita, tutt'altro; scappare pareva vano, data la fatica della fuga e la desolatezza della situazione.
“Non lo so.” Non seppe che altro rispondere. Le parole non raggiungevano la sua lingua.
Gli altri due amici rimasero fermi: Giovanni teneva lo sguardo fisso a terra mentre il povero Saverio, con il volto rigato da calde lacrime, sembrava aspettare una risposta, quasi disperato.
Nella mente fiaccata di Marcello i pensieri non facevano altro che affollarsi e deformavano il suo contenuto come martellandolo, al pari del martello con cui Vulcano sull’incudine piega il metallo rovente. Forse ispirato dal pensiero della fucina del nume e dalle fiamme che vi ardevano eterne, si ricordò del sacrificio di Clelia Concordia, quando la furia dei fanatici niceni distrusse l’ultimo focolare dell’antica Roma e quella preferì morire con esso che sottomettersi ai nuovi dominatori. Non si sottomise la grande sacertodessa del culto, non si sarebbero potuti arrendere nemmeno loro, semplici uomini.
“So che abbiamo perso questa battaglia, ma finché noi viviamo l’Ordine vive, e con esso moriremo se ci è concesso. Siamo i custodi del sapere antico, siamo come le nobili Vestali che conservavano il fuoco dell’Urbe. Fuggiamo per proteggere questo fuoco.”
“Quale fuoco? Siamo solo noi, Marcello, solo noi!” esclamò Giovanni. “L’Ordine è estinto, con quale fiamma pensi di rianimarlo, eh?”
Marcello indicò la parte destra del suo petto e portò il proprio palmo là dove batteva il suo cuore, ancora palpitante: “Questa. Finché battono i nostri cuori, finché il sangue ci scorre nelle vene, finché esaliamo respiro, ecco, ci sarà sempre modo di rintuzzare questa vampa, per Giove!”
I compagni rimasero in silenzio, come assorti. Non avevano ancora visto eccitarsi il loro capitano, ma questo rese i loro animi più leggeri; avevano di fronte un uomo come loro, che nel momento della disfatta rimaneva appigliato ad un barlume di speranza. Saverio si asciugò le lacrime, Giovanni prese un lungo respiro. Di nuovo alcuni secondi di silenzio; nel mezzo della macchia, solo i grilli li sentivano.
Marcello riprese: “Andiamo, manca ancora poca strada”
Ricominciarono il loro cammino verso la spiaggia dove altri membri dell’Ordine li stavano aspettando. Molti erano fuggiaschi da tutta Italia, altri, come loro, compagni da Castel del Monte, altri ancora da Trieste. Tutti aspettavano la notte per imbarcarsi, grazie ad alcune navi recuperate per fortuna, onde attraversare l’Adriatico. Dalle Puglie i Balcani non erano così distanti dopotutto; all’interno delle tortuose Alpi Dinariche avrebbero organizzato una futura resistenza, raccogliendo supporto e coordinando attacchi contro l’autorità. La tirannia pontificale doveva essere fermata.
In poche ore, giunsero infine presso la spiaggia che giaceva tra Trani e Bisceglie, dopo un tortuoso viaggio che li aveva portati al di fuori dei centri abitati. I giorgiti erano sicuramente sulle loro tracce: bisognava dunque evitare ogni contatto umano che non fosse conosciuto. Là, oltre a quelli di Castel del Monte, li aspettavano i superstiti delle sedi di Trieste e Ravenna. Amici di lunga data, semplici conoscenti e volti nuovi rianimarono i tre fuggitivi, provati dopo tanto perigliare. Era quasi l’ora dei vespri.
“Amici, compagni, alleati” intonò con voce solenne il grande sacerdote di Trieste, Maurizio Stoltz, unico membro di alto rango sopravvissuto tra loro “siamo giunti all'ultima nostra spiaggia. La Fortuna pare averci volto le spalle, riservandoci questi tempi crudeli in cui siamo braccati come volpi, senza dimora, senza patria e senza protezione. E’ dunque deciso, quando il grande carro del Sole avrà volto le spalle alla terra, partiremo. Dobbiamo abbandonare l’amata terra italica: forse per sempre, forse per pochi anni, solo i numi sapranno dircelo; che la loro guida possa essere sempre benevolente… Sarà la sola e unica bussola nel nostro impervio cammino che ci attende. Rendiamo dunque grazie alla nostra amata terra Italia e al nostro grande custode Giano, intonando per lui l’ultima orazione in patria.
Iane biceps, anni tacite labentis origo,
solus de superis qui tua terga vides,
dexter ades ducibus, quorum secura labore
otia terra ferax, otia pontus habet:
dexter ades patribusque tuis populoque Quirini
et resera nutu candida templa tuo.
…
Dopo la lunga orazione a Giano, Marcello guardò i suoi due amici: il loro animo si era apparentemente risollevato. Sorrise, con fatica, ma sorrise. Era venuto il tempo di lasciarsi alle spalle quella terra dove non c’era più posto amico e dove tutti avevano volto loro le spalle. Le barche li attendevano, il cielo era quasi del tutto terso: la luna e le stelle erano già apparse in cielo, splendenti più che mai.
Tra i singhiozzi di addio degli altri per l’amata terra e il mesto tonfo del remo, Marcello, Saverio e Giovanni si guardarono senza parlare, con gli occhi inumiditi, stringendosi tra loro nel freddo della notte prima del viaggio verso la libertà.
“Vedi, quello lassù in cielo è il Grande Carro, e sopra di esso vi è il Piccolo Carro, alla cui sommità è posta la Stella Polare, la stella più brillante del cosmo visibile, che ora noi lasciamo quasi alle nostre spalle.”
Saverio ascoltava con attenzione quasi religiosa le parole di Giovanni sul cielo e sulle costellazioni che lo popolano; quando era ancora a Castel del Monte, le occasioni per discutere sugli astri e sul cosmo erano state poche per il giovanotto partenopeo, ancora alle prese con lo studio dei grandi autori classici. Pareva non aver mai visto il cielo notturno illuminato a quel modo.
Marcello, che aveva preso i remi al posto del ragazzo, se ne stava in silenzio, ascoltando ogni parola che i due si scambiavano.
“Che cosa pensi di questo cielo, Saverio?” chiese Giovanni, prendendosi una pausa dalla descrizione “Parecchio diverso da quello di Napoli, non trovi?”
“Oh sì, molto diverso. Non me ne ero mai reso conto, nemmeno da quando ho lasciato la città per venire nelle Puglie, se non ora.”
“Capisco molto bene. Sei un giovine ben portato per gli studi, da quanto ricordo… non mi stupisce che tu non abbia mai alzato la testa dai libri.” un accenno d’ironico sorriso si formò sulle labbra e sul volto dell’astronomo.
“M-ma no, orsù…” rispose Saverio, con quell’imbarazzo che contraddistingue i giovanotti quando punti dall’ironia dei più anziani “diciamo che alcune cose le si danno sempre per scontate e non le si considera mai… se non quando si è per necessità posti di fronte loro. Tutto qui.”
“Assolutamente.” Riprese serio Giovanni “Ed è eloquente pensare che proprio ora ti trovi a considerare ciò che per i latini era bene considerare, gli astri: Cum sidera, considera; ora siamo in mezzo a loro, siamo con loro. Il nostro essere esuli, sia politici che fisici, ci avvicina alle divine forze che osservano il mondo, là con le stelle. Più ce ne allontaniamo, più le desideriamo: de sidera, senza stelle. E posso affermare con certezza che, dall’espressione del tuo volto, quando il grande carro celeste tornerà a balzare fuori dalle acque inizierai a desiderarle come mai prima.”
“Sì, vorrei poterle vedere ogni notte.” Calò un breve silenzio, interrotto solo dallo sciabordio dei flutti.
“Ebbene, come saprai dai miei studi di astronomia, sono sempre lieto di sentir parlare della mia materia. Vorrei da te un'opinione: bada però, che sia senza fronzoli, spontanea.”
“Ditemi.”
“Orbene, cosa rende per te questo cielo così desiderabile?”
Il volto di Saverio, rivolto ancora verso la volta celeste, rimase immobile per alcuni istanti, accarezzato dal vento che spirava a Nord-Est.
“La sicurezza che concede.” Esordì.
“Anche in una giornata come questa” continuò “nonostante il nostro esserci ricongiunti agli altri, sentivo dentro di me di non essere esattamente… sicuro. Manchevole, ecco, così potrei definire il mio animo. Qualcosa era fuggito.”
“Bene, e ora invece?”
“Sento, pian piano, di riavvicinarmi a quella congiunzione perduta. Una vaga sensazione, eppure confortevole…”
“Le sensazioni sono, al netto delle nostre facoltà razionali, ciò che forma il nostro essere. Sono sicuramente effimere, eppure non ci lasciano mai, di qualsiasi natura esse siano.”
Marcello si intromise nel discorso, mentre lasciava il remo ad un altro vogatore.
“Vedo che gli insegnamenti del filosofo samio ti guidano ancora, Marcello.” rispose Giovanni.
“Fintanto che vivo.”
“E sono certo che tu non riterrai tale fonte di conforto provenire dunque dalle forze che ci governano, ma dalle sensazioni che esse procurano dal contatto visivo.”
“Precisamente. So bene che tu non sia di questo parere.”
“Non nego che per alcune cose Epicuro svolga un certo fascino per me, ma mi sembra sbagliato ridurre il tutto a mera sensazione fisica. Osservare il cielo non ti porta forse a slanciarti in alto, a considerare gli dei vicini? Impossibile che dal solo nostro osservare giunga un sì grande conforto, come dall’esserlo vicini ad un fuoco acceso. Lo vedi tu stesso in Saverio: la sola vista di essi ha rianimato quello che nel suo cuore si stava spegnendo, ma che ora conserverà come tesoro per i momenti bui, non è qualcosa di meramente fisico.”
“Eppure non è qualcosa che può essere sempre disponibile, visto il dì e la notte.”
“Ma esse sono ancora lì, non scompaiono. Sono solo celate dal Sole.”
“Ma perché dunque celarsi? Perché lasciarsi desiderare?”
“Se essi sono per forma simili a noi, saranno mossi a ragione da passioni simili alle nostre.”
“Ma questa non è che una supposizione. La certezza di ciò non è nelle nostre mani. Lo abbiamo visto con il mostro che si cela nelle viscere del castello. Diresti mai che sia qualcosa di simile a noi?”
“Non penso che quello potesse essere annoverato tra le divinità che ci governano, anzi.”
“E tuttavia presenta caratteristiche che potremmo ascrivere alla divinità.” Silenzio “ Se quello ne condivide le caratteristiche, esso sarebbe in grado di influenzare le nostre vite… cosa che ha tentato di fare. Ma i nostri antenati lo hanno fermato prima che potesse compiere i suoi propositi. Ora, presumiamo che le forze che sono lassù abbiano effetti verso di noi: lo farebbero dunque con intenzionalità, o per accidente?”
“Ciò non è rilevante.”
“Invece lo è: quando tu indaghi su questa materia, dovresti porti domande sulla causa degli effetti, non solo goderne.”
“E non sono d’accordo su questo. Effetti così potenti non possono scaturire solo e semplicemente dalle facoltà umane, e non possono essere come sostenevo prima qualcosa che ha origine involontaria, come il calore della fiamma.”
“Ciò che sentiamo può coincidere con ciò che vediamo: nondimeno, questo gioco di associazioni ritengo sia prodotto in prima istanza dalla mente umana. Tu ritieni sia prodotto dalla mente divina, che come ho detto prima, non pare essere del tutto simile a quella umana.”
“Forse… in ogni caso, credo che sia giunto il tempo di terminare questi discorsi.” disse a bassa voce Giovanni, indicando Saverio, che si era nel frattempo addormentato. Il cielo sopra di loro, da luminoso che era, non avevano notato essersi incupito.
“Mi rincuora poter parlare di queste cose” poseguì il vecchio “è un segno effettivo che l’Ordine e il suo spirito siano ancora vivi.”
Marcello sorrise. Per un attimo aveva quasi dimenticato di essere in mezzo al mare, gli era parso di trovarsi nelle calde stanze di Castel del Monte.
"Speriamo" disse "che la nostra traversata sia facile. Il cielo si sta annuvolando."
"Con l'aiuto di Nettuno e di tutti gli altri dei" disse Giovanni "il nostro cammino proseguirà senza intoppi."
Il cielo autunnale color dell'ambra avvolgeva con la sua patina la grande Cupola del Bernini, mentre stormi di rondini si libravano come danzanti nell'aria attrono alla sua imponente mole. Il silenzio sembrava regnare all'interno del cuore della cristianità.
Se non che, dallo scranno di Pietro, il sommo pontefice Pio IX era in preparazione per il Te Deum, ed era attorniato dai prelati che volteggiavano attorno a lui con solerzia e dovizia. Sarebbe stata una cerimonia importante, con la quale il santo padre si rivolgeva ai cuori della nazione e dei suoi potenti, in qualità ormai non solo di capo onorario d'Italia, ma anche come pastore supremo della penisola. Gli incensieri, i paramenti, i corredi: tutto emanava un'aura di solennità confacente al nuovo signore d'Italia.
Eppure, il santo padre non appariva tale in volto. Anzi, qualcosa pareva turbarlo; in minima parte, ma qualcosa pur sempre c'era. La tanto attesa notizia della cattura di Castel del Monte era giunta ormai da giorni, se n'era allietato tutto il conclave; ma con essa giungeva pure la notizia della fuga di molti dei suoi membri. La loro azione per poco non aveva contribuito alla scomparsa della Chiesa, durante la guerra tra Piemontesi e Austriaci, ma per grazia divina l'imperatore Napoleone non solo non aveva ceduto, ma pure aveva preteso che il papa fosse eretto a solido detentore della libertà della giovane e neonata Italia.
Quei faziosi avrebbero favorito qualsiasi tra gli opponenti pur di liberarsi della Chiesa: averne ancora altri a piede libero, in Italia come in Europa, era un pericolo. Solo egli lo vedeva come tale però; nonostante le cure e le rassicurazioni della sua corte, non poteva non pensare alla sua vita come a rischio da possibili attentati. Il suo ciglio incupito non era passato inosservato, tant'è che tutti gli attendenti lavoravano con particolare perizia perché la cerimonia fosse perfetta.
Tutt'a un tratto però, alle spalle del pontefice comparve una figura interamente vestita di nero, passata inosservata da tutti. Con passo quasi felino, si inginocchiò alla destra del santo padre, che sulle prime nemmeno lo notò ma che, come destato da un sogno, si accorse della sua presenza. La figura prese la sua mano e ne baciò il pastorale. Il pontefice alzò la sinistra verso quell'individuo misterioso. imponendogli di alzarsi.
"Sua Santità." disse la figura, con profonda voce baritonale.
"Laudante Ulloa, alzatevi. A cosa devo la vostra presenza, in un momento come questo?"
"Sua Santità vorrà perdonare la mia più che impropria presenza in questo dì, ma ho notizie di importanza vivissima da comunicarvi."
"Di cosa si tratta? Qualche demone a spasso per Roma, o una nuova reliquia scoperta nelle catacombe?" rispose il pontefice, con una punta di sarcasmo.
"Nulla di tutto ciò, Sua Santità. Porto buone notizie."
"Oh, un gesuita che porta buone notizie. Questa mi è sicuramente nuova."
"Sua Santità" continuò il laudante, evidentemente in imbarazzo "abbiamo recuperato dei naufraghi presso le coste di Lecce."
"Ebbene? Che c'è di tanto importante in questa notizia?"
"… sono gli ultimi membri dell'Ordine."
Il santo padre non proferì verbo. Era come paralizzato.
Un segno divino! La benevolenza di Cristo aveva nuovamente accarezzato la sua ormai canuta gota, sorridendo alla Chiesa per l'ennesima volta.
"Benedetto sia Iddio, figliuolo, e tu stesso per avermi recato simile notizia. Che cosa ne è stato di loro?"
"Essi progettavano di salpare verso la Dalmazia in una notte apparentemente quieta. Tuttavia, li colse una tempesta d'improvviso, che ne provocò il naufragio lungo le coste del Salento. La Divina Provvidenza volle che là i nostri uomini fossero presenti e raccolsero molti di loro naufraghi; gli altri sono dispersi." Si fermò un'istante, riprendendo fiato.
Il Laudante riprese, con tono leggermente ironico: "Forse non propiziarono a dovere i giusti numi, hehe."
L'erede di Pietro non vi fece caso. La letizia che lo aveva colto inondava ogni fibra del suo ormai vecchio corpo. Lo sguardo perso in cielo, osservava le figure: i Cherubini, i Serafini, San Paolo, gli apostoli, il Battista, la Madonna e Gesù Cristo tutti parevano sorridergli, pacati.
"Questo è certamente un segno del Padreterno. Che fu di loro?"
"Proprio per questo sono da voi, Santità. Essi furono portati nella più vicina prigione della Confraternita; là attendono la vostra decisione. Ecco, Sua Santità."
E il Laudante estrasse dalla sua tunica un foglio
"Con questo atto firmate il vostro assenso per la… condanna a morte. La Confraternita assegna voi l'onore di tale decisione, Santo Padre."
Un momento che sarebbe rimasto scolpito nella memoria della Chiesa e della Confraternita: la fine dei pagani, la fine dei sediziosi, la fine di un'era. Il papa, sebbene riluttante vista la presenza del luogo santo, firmò quasi senza esitazioni il foglio, che riconsegnò immediatamente al Laudante.
Con volto sollevato, disse: "Ora va, figliuolo. Che Iddio ti benedica" e impose lui il segno di croce.
"Grazie, Sua Santità." Con un solenne inchino, il gesuita sparì come era arrivato.
La sera era ormai giunta. La mente del pontefice era pronta, il suo cuore rivolto a Dio. Era venuto il tempo di celebrare la prima messa, liberata da un male che era per secoli parso inestirpabile. Un nuovo inizio. Le porte della basilica si spalancarono verso il cielo dorato.
Adjutorum nostrum in nomine Domini
Qui fecit coelum et terram
Sit nomen Domini benedictum
Et hoc nunc et usquem in saeculum
Te Deum laudamus
Te Dominum confitemur
Te aeternum Patrem
Omnis terra veneratur