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CONTENUTO PER ADULTI
Questo lavoro contiene contenuti per adulti non adatti a tutti i lettori.Rappresentazione grafica di sangue, gore o mutilazione di parti del corpo
Presenta temi o linguaggio a sfondo sessuale, ma non raffigura atti sessuali.
Rappresentazione esplicita di atti sessuali.
Presenta atti sessuali non consensuali.
Presenta gravi abusi su minori.
Presenta scene di autolesionismo
Presenta scene di suicidio.
Presenta scene di tortura.
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La tomba si chiude e non resisto più. Cado a terra, le ginocchia nel fango, e scoppio a piangere. Non posso più trattenere le lacrime, l'ho già fatto per troppo tempo. Per fortuna, Vincenzo ha avuto la buona idea di portare via Alice, affinché lei non mi veda piangere. Ha tre anni e mezzo, non deve vedermi crollare. Sono suo padre, non posso piangere di fronte a lei, devo proteggerla, occuparmi di lei: è l’unica che può ancora mantenermi vivo.
Voglio urlare, esternare tutta la mia rabbia, la mia tristezza e la mia disperazione, ma non posso. Se lo faccio, la mia mandibola si slogherà di nuovo e non voglio tornare all'ospedale. Devo essere forte e calmo, almeno per lei, è l'unica ragione che impedisce che anche io possa morire.
Dietro di me, la mia famiglia, quella di Donatella e i nostri amici. E nostra figlia, che non capisce perché è qui, troppo giovane per capire che sua madre non tornerà mai più. Crescerà senza una figura di riferimento di cui avrà tanto bisogno. Una settimana dopo l’incidente, non posso pensare che non sia colpa mia. Anche se facevo attenzione, anche se la macchina a destra doveva fermarsi per lasciarmi passare, anche se non ho niente da biasimarmi, so che è comunque colpa mia.
Donatella… mi dispiace tanto…
Dietro di me, sento qualcuno pregare. I miei genitori. Sanno che le preghiere non mi restituiranno Donatella, lo fanno soltanto per la pace della sua anima. Non posso impedirmi di fare la stessa cosa, anche se non sono più così bigotto come loro. Lacrime scorrono sulle mie guance, fiumi salati che avevo trattenuto troppo tempo. Non provo nemmeno vergogna, ne avevo bisogno, anche se mi hanno sempre insegnato che un uomo non piange.
Ma ora come ora me ne frego se pensano che io sia debole, ho 33 anni e la mia vita è già distrutta. Gli assassini sono fuggiti senza nemmeno avere il coraggio di verificare se avessero investito qualcuno. Non c’erano testimoni, eravamo su una strada di campagna, siamo stati soccorsi da un contadino che passava di lì, allarmato dal fuoco che si levava dalla nostra macchina. Donatella era già morta, colpita in pieno dalla macchina. Il signore ha salvato Alice, mentre aprivo la portiera e mi lasciavo cadere al suolo, strisciando per scappare. La macchina è esplosa, i vigili del fuoco hanno ritrovato il corpo di Donatella completamente carbonizzato. L'autopsia ha "fortunatamente" dimostrato che non è stata bruciata viva: è morta sul colpo a seguito dell'impatto con la macchina che non ha rispettato la precedenza. Ma ciò non toglie il fatto che non saprò mai chi sono i responsabili e che non troverò mai la pace interiore.
— Lorenzo? Vieni o preferisci rimanere ancora un po’ con lei?
Non posso muovere la testa per guardarla, ma sento che è mia madre a parlarmi. Non so cosa rispondere. Non voglio abbandonare Donatella, ma non voglio rimanere da solo.
— Non so, mamma. Non so.
Le prendo la mano.
— Perché è dovuta andare così, mamma? Perché noi? Perché ci hanno fatto questo, perché non si sono fermati, perché l’hanno uccisa? Perché, mamma, perché?
Mia madre mi abbraccia.
— Non lo so, Lorenzo. Non lo so.
Mi abbraccia ancora più forte.
— Rimango un po’ con te?
Accetto. Dieci anni fa, non voleva nemmeno parlarmi. Ma con il mio ritorno a Trento dopo la nascita di Alice e il fatto che Vincenzo abbia ripreso in gestione il ristorante, la situazione è migliorata. Ora che sono diventati nonni e che hanno un erede, hanno accettato di riprendere contatto con il loro primo figlio che oggi ha disperatamente bisogno di risposte e di supporto. Avrò il sostegno, ma non avrò mai le risposte.
Mi sento solo. Sono circondato dalla mia famiglia, dai miei amici che mi compatiscono, ma sono tanto solo.
— Non l’ho salvata, mamma. Ho fallito.
Una lacrima cade sulla tomba, rapidamente aspirata dalla terra. Viene rapidamente seguita da altre. Un nuovo fiume salato che scorre sulle mie guance, che non provo nemmeno a fermare. Donatella non tornerà più. Ho sperato nel suo ritorno fino ad oggi, ma ora che la tomba è chiusa realizzo che è davvero morta. Non la rivedrò mai più. Non sentirò mai più quelle risate che mi rendevano così felice. Non vedrò mai più il suo magnifico sorriso né i suoi splendidi occhi azzurri.
— Non hai fallito, Lorenzo. Non sentirti in colpa, non sei il responsabile dell’incidente.
— Non potrò trovare un po' di sollievo fino a quando non ritroveranno i suoi assassini, mamma. E non verranno mai ritrovati, ne sono sicuro. La morte di Donatella non sarà mai vendicata. E non dormirò mai più, sapendo che questi figli di puttana saranno liberi per il resto della loro vita.
Mi sveglio nella camera nella quale ho dormito per ventuno anni della mia vita. Ho dormito un’ora. In tre giorni ho dormito sei ore, e solo perché ho preso un sonnifero. Mi alzo come un cadavere appena rianimato e metto una camicia verde e dei semplici pantaloni azzurri. Mentre mi vesto, guardo le mie mani. Vedo le ossa sotto la pelle, sono sicuro che sia la stessa cosa per il resto del mio corpo. Respiro profondamente e mi guardo nello specchio. Sono magro, più del solito. Sono spettinato, non riesco a muovere la testa, ho delle occhiaie nere, la cicatrice sul mento è disgustosa e ho perso cinque denti. L'avvocato Ferri è miserabile. Miserabile e colpevole. Se fossi l’avvocato di me stesso, mi sarei fatto volontariamente condannare a trascorrere l'eternità in prigione per l’omicidio di Donatella Ferri, mia moglie. Non avrei nemmeno provato a difendermi.
Sento delle voci provenire dal piano di sotto. Gli ubriaconi sono già arrivati, non vedevano l'ora che il ristorante riaprisse, dopo un giorno di chiusura per “colpa” del funerale della moglie del figlio. Alcuni li conosco sin da bambino, ridevo con loro, mi pagavano le birre, parlavo di tutto con loro, sono in un certo senso i miei amici, sono cresciuto nel loro bar-ristorante preferito. È una vita che ho abbandonato dopo la maturità, dopo il litigio con i miei genitori quando avevo 21 anni. Forse la loro compagnia mi sarà benefica. Decido di pettinarmi un po’ i capelli con la mano e scendo nella sala del bar. Apro la porta e mi compro un pacchetto di tabacco. Avevo smesso quando avevo incontrato Donatella, ma ho ricominciato.
Appena arrivo, le voci scompaiono e cala il silenzio. Li capisco. Vedono uno zombie cadaverico, ammalato, distrutto. Non sono più quell'adolescente studioso che scherzava molto; non sono più io, sono diventato un corpo vuoto e scheletrico.
— Porco cane, è completamente devastato…
— Siete sicuri che sia Lorenzo?
— Sì, è lui. Povero…
Li guardo senza davvero vederli. Sono esaurito. Non riesco più a stare in piedi, non cerco più di capire niente e nessuno, non ne ho voglia. Le cose che accadono intorno a me non sono interessanti. Tutto gira in continuazione, non riesco a camminare, non sento niente, non capisco niente, sono esaurito e abbandonato. Mi sento lentamente cadere all’indietro. Magari è la Morte che è venuta a prendermi, il Diavolo che arriva per portarmi all’Inferno e farmi bruciare nelle fiamme del suo regno, perché in fondo non merito altro.
— Lorenzo!
Tutto sta girando. Galleggio nel vuoto, indifferente al rumore e al freddo. Tutto è nero, il silenzio mi ingoia, e per la prima volta sin dall’incidente, mi sento bene. Non avverto più alcun tipo di male, non sono più triste. Voglio restare così per sempre. Nel buio, nel silenzio, troppo debole per pensare e per muovermi. Sono pronto per la fine. Lo merito pienamente.
— Roberto, porta una coperta, Lorenzo è svenuto! Porta una coperta e chiama il medico, potrebbe essere grave!
— Gabriella, calmati e guarda se respira, io chiamo il medico.
Le voci mi fanno male alla testa. Smettetela di urlare, vi prego, non voglio conservare grida ed emicrania come ricordi dei miei ultimi istanti di vita…
— Signora Ferri, suo figlio respira ancora, è stato un svenimento! — Grida la voce del vecchio Giovanni.
Acqua fresca e piccoli schiaffi sulle mie guance. Gemo di dolore.
— Idiota, smettila, ha la mandibola rotta!
Avverto una coperta che viene avvolta attorno a me. Apro gli occhi. Vedo tutto sfocato.
— Lorenzo, tutto bene?
Volti ansiosi sopra di me. Troppi volti, mi manca l'aria.
— Lasciatelo respirare!
Sono caduto all’indietro, nelle braccia di qualcuno che mi sta sdraiando sul suolo del ristorante. Vedo il soffitto di legno, i salumi appesi, le lettere appese alle corde, un ambiente che avevo dimenticato.
— Lorenzo, cosa ti è successo?
Non rispondo. Non posso parlare.
— Vuoi dormire?
Emetto un gemito che significa più o meno “sì”. Sono troppo stanco per parlare.
— Lorenzo, niente ti impedisce di dormire un po’.
Qualcuno mi solleva di terra e mi riporta nella mia camera. È mio padre. Non resisto mentre mi mette a letto e mi aiuta a bere un po’ d’acqua.
— Il medico arriverà tra poco. Ne hai bisogno, non negarlo.
Non nego niente. Non so se voglio compagnia o stare da solo, non o se voglio morire o essere vivo, non so se ho voglia di stare qui o di scendere.
— Dormi un po’, Lorenzo. Se hai bisogno d’aiuto, batti un colpo sul muro, Tullio è in camera sua, accanto alla tua.
Emetto di nuovo un gemito che conferma la mia approvazione. Tullio è un imbranato, ma può essere utile quando vuole. È il vecchio che i miei genitori hanno accolto a casa, non l’ho mai visto fare qualcosa in questo ristorante. Avevo 17 anni quando è arrivato ed era già vecchio, ora ne ho 33 e lui deve averne 95.
— Ora dormi, ti prego. Ci occupiamo noi di Alice.
Mio padre mi mette la mano sulla spalla e se ne va. Respiro profondamente per provare a rilassarmi. Convincermi che non è colpa mia se Donatella è morta è impossibile. Ma tutti hanno ragione, dovrei dormire.
Proverò…
È un bip ripetuto a svegliarmi. Non riesco ad aprire gli occhi. Il letto è molto confortevole, anche il cuscino. Il collo non mi fa male. In realtà, non sento nemmeno il resto del corpo. Sono felice. Mi sento bene. Rilassato. Il silenzio imperante mi fa pensare che sono da solo e non a casa. Magari sono morto.
— Si è svegliato.
Voci sconosciute. Non sono a casa, questo è sicuro.
— Vado a controllare se riesce a parlare.
Sospiro. Posso udire, ma non vedo niente. E non penso sia così importante, dopotutto. Non so se sono incapace di aprire gli occhi perché non posso o perché non voglio.
— Signor Ferri? Chiede una voce femminile.
Non sono a casa. Sono all’ospedale. Il bip è quello della macchina che sta sorvegliando i battiti del mio cuore. Una porta si apre e qualcuno entra. Penso sia un’infermiera o una dottoressa.
— Hm?
— È all’ospedale di Trento. È svenuto e il medico di famiglia ha deciso che fosse meglio portarla di nuovo all’ospedale, signor Ferri.
Forse è meglio, sì.
— E mia figlia?
— Se ne stanno occupando i suoi genitori, signor Ferri.
Menomale. Sono un padre di merda, ma almeno Alice ha dei nonni competenti.
— Ci sono dei nuovi sviluppi nell’indagine riguardante il vostro incidente stradale. Il capitano dei carabinieri vorrebbe parlarle, se la sente?
— Sì.
L’infermiera esce. Sento delle voci nel corridoio, ma non riesco a capire cosa dicono. Non so se sono in grado di aprire gli occhi. E poi, cosa potrebbero dirmi i carabinieri? Nessuno ha visto niente e l’unico colpevole sono io che non sono riuscito a salvare mia moglie.
— Avvocato Ferri?
Sforzandomi, riesco ad aprire un occhio. Il sole è troppo forte e lo richiudo rapidamente. Ho comunque avuto il tempo di vedere un tizio di circa 50 anni che indossa l'uniforme da carabiniere. Sembra capire il mio problema, perché chiude le tende.
— Abbiamo nuovi indizi riguardanti l’indagine sul suo incidente. Un guidatore di mietitrebbia ha visto tutto e ha riconosciuto il modello e il colore della macchina che vi ha travolti, assieme a una parte della targa. Le ricerche sono in corso.
— Ritroverete gli assassini di Donatella?
— Stiamo facendo il possibile.
Non ci credo molto, ma so che sta provando a tirare su il mio morale, quindi non protesto.
— Sa se sua moglie aveva dei nemici?
— Era giudice, ha condotto diversi processi sensibili, quindi suppongo di sì…
Non mi ci vogliono ore per capire. La mia respirazione accelera. Non posso crederci ma purtroppo è un'ipotesi ben realistica.
— Sarebbe stata assassinata? Non sarebbe un semplice incidente stradale?
— Per il momento, non possiamo scartare nessuna ipotesi, signor Ferri.
— No…
Scoppio a piangere. Non era un incidente stradale. L’hanno assassinata. Omicidio volontario, per puro scopo di vendetta. Donatella faceva il suo lavoro ed è morta per questo.
Assassinata. Solo perché faceva il suo cazzo di lavoro!
— Signor Ferri, vuole che ci fermiamo qui?
Provo a scuotere la testa, ma mi hanno rimesso il collare cervicale. Il che non è un male.
— No… Voglio continuare… Dovete ritrovarli. Dovete cercare negli atti delle udienze che ha presieduto, nelle sentenze che ha emesso, chi avrebbe voluto assassinarla, chi non è stato soddisfatto del risultato del processo… Tutto, dovete indagare su tutto.
Sono subito esausto, come se avessi pianto tutte le mie lacrime e pertanto ho ancora voglia di piangere.
— E lei, signor Ferri, sa se ha dei nemici?
— Ne ho un sacco, sì. Sono avvocato della difesa e riesco spesso a ridurre le condanne dei miei clienti. Le vittime o i loro famigliari se la prendono molto spesso con me, ovviamente…
Penso subito a qualcosa. Qualcosa che mi spaventa.
— Volevano prendersela con me e non con Donatella?
— Non lo sappiamo, signor Ferri. Avremo bisogno dei dossier sui processi ai quali ha partecipato. Se qualcosa le torna in mente, non esiti a dircelo.
E appunto, qualcosa mi torna in mente.
— Forse ho una risposta.
— L'ascolto.
Ho difficoltà a parlare, la mia bocca è come paralizzata. Ma devo spiegare, questi tizi sono pericolosi.
— Faccio spesso volontariato in prigione, e seguo attentamente i miei clienti incarcerati. Da un paio di mesi ho constatato che molti di loro scompaiono. Ho indagato, ma sono venuti diversi tizi a intimarmi di smetterla, a dirmi che non dovevo più intromettermi. Volevano chiaramente farmi paura, ma non so chi sono. Rintracciate anche loro, per favore… Potrebbero ricominciare a minacciarmi.
Mi hanno messo una flebo per potermi nutrire. Sono troppo debole per farlo da solo, e comunque sia sono ancora incapace di aprire la bocca. Al massimo posso bere, ma anche questo mi fa male. Sono assonnato e inebetito, a causa degli antidolorifici e dei sedativi usati per lenire sia il dolore fisico che psicologico. Passo il tempo a dormire o a fissare il soffitto senza pensare a niente. Non so da quanto tempo sono qui, non so quanto tempo dormo, non so quanto tempo rimango sveglio, ho perso la nozione del tempo. Niente mi fa sorridere, tutto mi ricorda Donatella. Ogni giorno mi aspetto di vederla addormentata a fianco a me, ma non succede, ogni giorno penso che avrei potuto salvarla o evitare l’incidente, ogni giorno rifletto su chi avrebbe potuto o voluto ucciderla e non trovo alcuna risposta. Chissà se le avrò un giorno? Nessuno lo sa, forse non le avrò mai.
Mi hanno assegnato uno psicologo. Mi sfogo senza vergogna, e insieme alle visite della mia famiglia, è l’unica cosa che mi fa bene. I genitori di Donatella non ce l’hanno con me, il che mi rassicura. Mi sento ancora in colpa, ma mi hanno detto che per loro non sono in alcun modo responsabile, che non ho fatto niente. Soprattutto, mi piace vedere Alice. Mi manca, mi manca tanto, è l’unica traccia che mi resta di Donatella su questa terra. Ho pensato al suicidio più volte, ma se non lo faccio è per lei, perché è mia figlia. Ha tre anni e non voglio che cresca senza entrambi i genitori, anche se so che sono responsabile del fatto che il suo braccio destro non potrà mai più muoversi. Crescerà con un handicap, un braccio paralizzato che le impedirà di fare sport, di partecipare a tante cose, di avere una vita normale, per colpa di alcuni figli di puttana che volevano vendicarsi. Devo essere qui per lei, per sostenerla e aiutarla.
Una persona che mi aiuta molto è Luciano, il fratello di Donatella. È infermiere all’ospedale di Trento e viene a visitarmi ogni giorno. Posso chiacchierare senza riserve, sfogarmi con lui, mi ascolta senza giudicare. Anche lui mi dice che non è colpa mia e mi rassicura. Mi dice che è qui per me e che posso chiamarlo quando voglio. Preferisco non farlo, ha molto lavoro da fare, ma quando viene a visitarmi, ne sono molto contento e ne approfitto. Condividiamo molte cose insieme, in particolare mi mostra i suoi disegni, che sono bellissimi. Avrebbe dovuto diventare artista invece di infermiere.
Mi dice che un giorno tutto questo sarà finito, e che avrò finalmente un po' di pace.
Spero abbia ragione.
Oggi è il gran giorno. Grazie alle cure dei dottori, degli infermieri e dei chirurghi, posso finalmente uscire dall’ospedale. Ovviamente sarò sotto cure attente, con un’assistenza psicologica molto stretta e antidepressivi, ma questo me lo aspettavo e lo accetto senza protestare. Fino a quando non sarò guarito, rimarrò a casa dei miei genitori. Devo riposarmi, ma so che li aiuterò in cucina. Non ho mai voluto riprendere a lavorare per il ristorante, ma so comunque cucinare. Non ne farò mai il mio mestiere, ma mi piace molto. Apparentemente ho passato dieci giorni all’ospedale per riprendermi. Ho perso più di dieci chili, arrivando ad un peso di 61 chili per un metro e 86, per via della malnutrizione conseguente alle lesioni. Tuttavia, mi hanno assicurato che da adesso potrò tornare a mangiare correttamente, seppur masticando solo piccoli bocconi di cibo. Per ogni pasto ci vorrà un tempo incalcolabile; per fortuna i miei genitori sono molti pazienti.
È Luciano ad offrirsi per riportarmi a casa, appena finito il suo turno di lavoro, permettendo ai miei genitori di preparare la mia camera e quella di Alice. S'impegna davvero tantissimo per me e l'apprezzo molto. È come se non potessi più vivere senza il suo aiuto, gli dovrò un enorme favore appena sarò del tutto guarito.
— Allora, ce ne andiamo?
Mi aiuta a mettere la felpa. Siamo in agosto, ma ho comunque freddo. Secondo lui è normale. Mi fido, ne sa comunque molto più di me.
— Il viaggio rischierà di essere un po’ stancante e doloroso per te, ti do una medicina preventiva per evitare che ti senta male.
Accetto. Dato che non posso ingoiare niente di solido, Luciano mi fa un'iniezione.
— Avrà effetto tra qualche minuto, abbiamo il tempo per andare in macchina.
Mi aiuta a camminare e a scendere fino al parcheggio. La sua macchina non è lontana. Sono contento di tornare a casa. I movimenti della macchina mi fanno venire voglia di addormentarmi. È molto piacevole, così rilassante…
Ovviamente mi sono addormentato. Non mi stupisce, ho troppi sedativi nel sangue. Sono in un letto, ma il soffitto non è quello della mia stanza. Forse non lo vedo bene, non ho gli occhiali. Qualcuno li ha messi sul comodino, basterà prenderli. La maggiore difficoltà sarà non poter girare la testa per osservare bene.
Ehi, non posso muovermi! Le mie braccia sono bloccate! Qualcosa mi mantiene i polsi al letto!
Ma dove sono? Cos’è questa faccenda? Perché non sono a casa?
— Aiuto!
Parlare è già complicato, urlare lo è ancora di più. Non riconosco niente, non so dove sono, e sforzandomi ad alzare le braccia, comprendo una cosa terribile.
Sono legato al letto.
Cosa cazzo succede, mi hanno spedito in manicomio senza dir nulla?
— Aiuto!
Non viene nessuno. Mi lasciano da solo, senza spiegarmi niente. Ho paura. Perché non mi hanno detto niente?
Provo ad alzarmi, ma c’è una cinghia che blocca il mio collare cervicale, forzandomi a rimanere sdraiato. E questo non lo fanno in psichiatria.
Sono stato catturato! Devono essere stati quei tizi che mi hanno minacciato e ordinato di smetterla di indagare sulle sparizioni dei miei clienti! Non ho mai smesso e hanno deciso di ricorrere alla forza!
— Per favore! Aiutatemi!
Una porta si apre. Provo a dibattermi, debolmente, ma anche le mie gambe non rispondono.
— Alla fine ti sei svegliato, stronzo?
Ricevo uno schiaffo, direttamente sulla mandibola, a livello della frattura. Trattenendo un grido di dolore, metà stordito, vedo sovrastarmi un uomo vestito di nero, con un cappuccio dello stesso colore sulla testa. Non lo riconosco e la sua voce non mi ricorda nulla di familiare.
— Cosa vuole?
— Lo sai, figlio di puttana.
— No, non so…
Si avvicina al mio orecchio.
— Sei un assassino, Lorenzo.
Ha saputo di Donatella. Da un lato, non è niente di così diffile da sapere: ne hanno parlato dappertutto, Donatella era diventata abbastanza conosciuta per colpa di questo processo che aveva gestito. Ma chi conosceva suo marito? Nessuno sapeva di me, sono solamente un avvocato della difesa.
— So che sono un assassino… è morta per colpa mia, perché non so guidare.
Stringe di più il collare, con un’espressione furiosa sul volto. Vedo la follia nel suo sguardo e tanta, tanta rabbia, mentre lo fisso con occhi spalancati, provando a respirare invano, implorandolo silenziosamente. Sembra passare un'eternità. Ogni secondo che passa, l’aria diventa più rarefatta e lo imploro di lasciarmi respirare. Cosa vuole, cosa gli ho fatto? Perché mi fa questo? Dov’è Luciano, cosa gli è accaduto? Anche lui è in una stanza, legato, impotente tra le mani di un sadico sociopatico?
Sto per sprofondare nell'incoscienza, quando il mio rapitore decide di rilasciare la pressione sul mio collo e inizia a slegarmi le mani. Provo ad alzarmi, devo fare in fretta. Devo scappare, trovare i carabinieri, cercare aiuto. Alzando il braccio, riesco a dargli un pugno in faccia e farlo indietreggiare. Mi metto in piedi e corro verso la porta, anche se tutto gira e non riesco a respirare, ma è l'istinto di sopravvivenza che mi dà la forza. Devo scappare.
— Dove credi di andare, bastardo!
Mi ha afferrato le gambe. Cado per terra e sbatto il cranio sul pavimento. La testa comincia ad urlare di dolore, il naso diventa un fiume rosso in piena. Lo sento sopra di me, poi mi fa girare bocconi. Sono senza forze per resistere. Non posso difendermi quando mi mette le braccia dietro la schiena e mi lega i polsi con nastro adesivo, posso solo implorare a voce bassa.
— Per favore, giuro che la smetterò di indagare!
— Sta zitto, stronzo!
Mi costringe ad alzarmi e mi trascina verso una sedia sulla quale obbliga a sedermi. È scomoda, la schiena comincia a farmi fa male. Dovrei essere sdraiato in un letto normale, a casa mia, non qui, rapito da un pazzo che vuole fare di me il responsabile della morte di Donatella, come se non sapessi perfettamente che è la verità.
— Ma chi è lei?
Mi tira i capelli e mi toglie il collare cervicale. Senza sostegno, la mia testa cade all’indietro e il dolore è orribile. Lo fa sorridere. Fissa i miei occhi spalancati e si avvicina di nuovo all'orecchio per sussurrarmi:
— È solo l’inizio, Lorenzo.
È notte. Mi lascio cadere per terra, senza fiato. Sono paralizzato e il corpo intero è un ammasso pulsante di dolore. Intorno a me, il buio, il buio completo, e il silenzio, appena turbato dal vento che sento tra i miei capelli intrisi di sangue. Siamo da soli, senza aiuto. Non so nemmeno dove sono, forse su una strada di campagna, non vedo nessuna luce.
Cos’è successo?
Sono sdraiato sull’erba di un prato. Una macchina si allontana, ne vedo i fari. C’è un incidente e non intervengono.
— Donatella? Alice?
L'aria è calda dietro di me. Spaventato, vedo la macchina in fiamme, ma mia moglie e mia figlia non sono fuori con me.
— Lorenzo! Aiuto!
Provo ad alzarmi, invano. Non riesco a fare niente e nella macchina, sento Donatella urlare, chiedendomi aiuto. E non riesco a muovermi.
— Lorenzo, ti prego, aiutami!
— Papà, c’è il fuoco!
— Non riesco più a respirare, aiutaci! Lorenzo!
Posso solo guardare, impotente. Mia moglie e la nostra bambina stanno morendo, urlano di terrore e di dolore, e non posso far nulla. Non posso chiamare nessuno, non posso gridare. Alice e Donatella stanno per morire. Le loro grida risuonano nella mia testa, mentre rimango paralizzato.
— Non lasciarci morire! Per favore!
Vedo i loro occhi, entrambe ce li hanno azzurri, fissarmi dalla macchina. Il fuoco fa brillare il volto di Donatella di una luce di morte. Con tutti i miei sforzi, posso solo allungare la mano nella sua direzione, mentre il pianto di Alice si fa più forte.
— Lorenzo…
Con un rumore che mi perfora i timpani, la macchina esplode. Non sento più niente. Posso solo osservare, impotente, mia moglie e mia figlia che muoiono,dilaniate e divorate dalle fiamme.
Nessuno è venuto.
Non ho fatto niente.
— Donatella…
— Ah, sei sveglio.
Uno schiaffo mi fa tornare in me stesso. Sono ancora legato su questa maledetta sedia, impossibilitato a fare qualsiasi movimento perché ciò mi causa dolori muscolari terribili. Non vedo niente perché il mio rapitore rifiuta di darmi gli occhiali. Non ha tolto il suo cappuccio, non so chi è, finge di avere una voce molto più grave del normale, e ovviamente non vuole dirmi il suo nome. So solo che conosce Donatella e che le voleva molto bene. Un amico? Un collega? Un ex ragazzo?
Non posso credere… anzi, non voglio credere che sia Luciano, non è possibile. Quest’uomo ha anche rapito Luciano e lo tiene prigioniero in un altro posto. Mio cognato non può trattarmi così, non dopo tutto ciò che ha fatto per me. Non può, non può essere lui.
— Oh, no…
Ha un nuovo foglio tra le mani. Me ne aveva già mostrato diversi e avevo avvertito dei brividi di freddo, nonostante io sia sicuro che dovrebbero esserci almeno 30 gradi fuori. Poi mi ha mostrato un altro foglio ed era… come se stessi soffocando. Non capivo nulla, provavo a liberarmi da questa orribile sensazione ma senza successo. Sembra essere durato per ore, ore interminabili, come se mani invisibili stessero provando a strangolarmi. E lo sentivo ridere. Si godeva la mia sofferenza e la mia disperazione. Mi mostra dei disegni e ogni volta ride vedendomi colpito da questa… questa… strana follia. A volte non funziona e vedo solo bei disegni. Ma non cambia molto : divento pazzo guardando dei disegni, non dovrebbe essere possibile.
Non dovrebbe essere possibile.
— Ho qualcos'altro da mostrarti, dimmi cosa ne pensi.
Mi chiamo Lorenzo Ferri. Ho trentatré anni. Sono nato a Trento il 20 gennaio 1962. Sono avvocato difensore. I miei genitori hanno un bar-ristorante. Ho un fratello, Vincenzo, nato nel 1966.
— L’ho persa per colpa tua! L'amavo più di te!
Ho studiato giurisprudenza all’Università del Piemonte Orientale di Alessandria. Qui ho incontrato Donatella nel 1986 e ci siamo sposati nel 1989. Nostra figlia, Alice, è nata il 29 gennaio 1992.
— Te lo farò pagare, bastardo di merda!
Sono alto 1 metro 86. Ho i capelli biondi e gli occhi castano scuro. Ho una severa miopia che mi costringe a usare gli occhiali sin dal 1977.
— Guarda questo, Lorenzo! Guarda o ti piglio a schiaffi!
Dovevo riprendere il ristorante dei miei genitori ma non lo volevo… Allora… allora hanno provato ad impedirmi… di andare… all’università… Ci sono potuto andare… a 21 anni… Quando sono fuggito da casa…
— Apri gli occhi, figlio di puttana!
L’università… fu il miglior… momento della… mia vita. Cinque anni… fuori da Trento… senza nessun contatto con la famiglia… tranne… che Vincenzo…
— Se non li apri tu, ti ci obbligo io! Apri gli occhi!
Mi chiamo Lorenzo Ferri ho trentatré anni sono nato a Trento il venti gennaio 1962 sono avvocato difensore i miei genitori hanno un bar ristorante…
— E sia, ti prenderò a schiaffi. L’hai voluto tu!
Sono laureato in giurisprudenza, una laurea magistrale, ero il secondo migliore dei miei corsi perché mi sono tanto impegnato, soprattutto per non finire a cucinare nel ristorante dei miei genitori…
— Ahi!
— Non ti lamentare, stronzo!
Sono sempre stato un fan degli AC/DC. Mi piace la musica, mi piace cantare. Non ho mai avuto l’occasione di andare ad un concerto, ho dovuto aspettare 23 anni per vedere dal vivo un concerto, a Torino, con amici che si sono impegnati nel farmi scoprire la “vita reale”. Per la prima volta nella mia vita, mi sentivo libero. Libero di divertirmi, di ridere, di fare qualunque cosa volessi.
— Mi lasci… per favore…
Ho incontrato Donatella durante un corso d’inglese…
— Sta zitto!
Non mi è mai piaciuto l’inglese…
— Ahi!
Preferivo il tedesco…
— Sei tu il responsabile, hai capito? Hai capito?
Mi chiamo Lorenzo Ferri. Ho trentatré anni. Sono nato a Trento il 20 gennaio 1962. Sono avvocato della difesa. I miei genitori hanno un bar ristorante…
— Non… non ce la faccio più…
Dopo la laurea ho trovato un lavoro a Milano…
— Sta. Zitto.
Ho sempre voluto… difendere tutti… Anche i criminali…
— La smetta… la prego
Tutti hanno il diritto di essere difesi da qualcuno…
— Vuoi davvero un altro pugno in faccia?
— No! Per favore, no!
Anche lui… anche il mio rapitore ce l'ha… ma se lo merita?
E Io me lo merito?
— Allora sta zitto, è la terza volta che te lo dico! Giuro che se osi ancora una volta parlare, protestare o qualcosa del genere, passerai dei guai veramente seri.
Non volevo… Non volevo…
— L’hai uccisa. L’hai lasciata morire e sei fuggito, lurido codardo!
— Non volevo… Non volevo…
Non volevo!
— Se devo usare la forza per zittirti, allora lo farò.
— Nonono! Mmmmmmmmh!
La mia mandibola! Perché?
Sapeva che ho la mandibola frantumata. Sapeva che non riesco ad aprire la bocca senza provare un dolore atroce… Mi ha imbavagliato nel modo più orribile e doloroso…
Non riesco a respirare… Sanguino dal naso e la palla che mi ha messo in bocca non lascia passare l’aria…
Vi prego, aiutatemi!
Uno schiaffo mi fa emettere un ennesimo grido. Delirando sotto l’effetto della sofferenza, mi ripeto per la quarta volta chi sono, quando sono nato e dove, che lavoro faccio. Per non dimenticare, per non diventare pazzo, per non soccombere al dolore. Le sue dita mi forzano ad aprire gli occhi. Lo vedo, il suo cappuccio, i suoi occhi pieni di rabbia, di crudeltà e di determinazione.
— Guarda questo com’è bello. Dimmi cosa ne pensi.
È notte. Mi lascio cadere per terra, senza fiato. Sono paralizzato e il corpo intero mi fa male. Intorno a me, il buio, il buio completo, e il silenzio, appena turbato dal vento che si insinua tra i miei capelli imbrattati di sangue. Siamo da soli, senza aiuto. Non so nemmeno dove sono, forse su una strada di campagna, non vedo nessuna luce.
Riesco ad alzarmi. Tutto il mio corpo è una massa dolorosa, stordita dall’incidente. Vedo delle luci di abitazioni in lontanza, poi anche una macchina che si allontana. Non c’è nessuno e la macchina sta bruciando. Sto vagando in tondo, cercando aiuto. Nessuno accorre. Ci vedono tutti e nessuno accorre. Sono da solo, solo e ferito, a salvare le due persone che amo di più al mondo. Posso a malapena camminare, ma devo farlo. Devo portarle in salvo.
— Donatella… Donatella, ti prego, apri gli occhi…
Mia moglie mi guarda. Anche i suoi capelli neri sono bagnati di sangue.
— Abbiamo avuto un incidente, Donatella, dobbiamo cercare aiuto.
Mia moglie si alza.
— Lorenzo, allontanati, faccio uscire Alice.
Donatella apre la porta. Non oso muovermi.
— Alice? Tesorino?
— M- mamma…
Donatella mi fa segno di allontanarmi. Obbedisco e attraverso la strada, titubante, in direzione delle case.
— Alice, esci, continueremo a piedi. Guarda, ci sono delle case, andremo a dire alla gente che abbiamo un problema con la macchina. Raggiungiamo papà, guarda.
A malapena, appoggiandomi su un bastone trovato per terra, cammino verso le case. Ogni passo mi fa male.
— Lorenzo, aspettami.
Mi fido. Donatella è lucida, si occuperà di noi, troveremo aiuto. Sono in salvo con lei.
— Alice, prendimi la mano. Non avere paura, tesorino, raggiungeremo papà e busseremo alle porte di case per chiamare i pompieri.
Vedo mia moglie estrarre nostra figlia dalla macchina. Ancora qualche metro da fare e saremo salvi. Donatella prende Alice nelle sue braccia e inizia a correre.
— Non mollare, Lorenzo, arrivo!
Un rumore infernale si fa sentire. Donatella non ha il tempo di fare qualsiasi movimento. In un flash di luce rossa, la nostra macchina esplode. L'onda d'urto dell’esplosione mi fa cadere per terra, i timpani perforati. Vedo i corpi di Alice e Donatella ardere come grotteschi falò, come se fossero due anime già condannate all'Inferno. Urlando, la mia visione offuscata dalle lacrime, attraverso di nuovo la strada e cado per terra, spaventato, da solo, abbandonato su una strada, ad abbracciare i corpi carbonizzati di mia moglie e di mia figlia. I fari della macchina sono ormai scomparsi all'orizzonte.
Nessuno è venuto.
Nessuno mi ha aiutato.
Non ho fatto nulla per salvarle.
Tossisco così forte da quasi strozzarmi, la gola zeppa di saliva. La stanza è nera, buia. Non c’è alcuna fonte di luce, tranne che quella che scorgo dalle fessure della porta. La vedo nettamente, ho i miei occhiali. Non so se è una buona cosa. La mia bocca è intorpidita, ma sento comunque il dolore. La mia maglietta è bagnata. Con orrore e disgusto, mi rendo conto che mi sono sbavato dappertutto e che ho ancora la palla in bocca.
Provo a respirare profondamente. Mi rendo conto di aver ancora pianto. Questa volta, però, era diverso dall'altra volta, ma era anche diverso della realtà, questo tizio vuole rendermi pazzo: si chiama tortura psicologica.
Una volta, prima di diventare avvocato della difesa, mi ero occupato di una donna che ne era stata vittima, rimanendo gravemente traumatizzata. Ero riuscito a ottenere la massima pena per questo tipo di delitto. Seguendola. come ho sempre fatto con i miei clienti, ho capito che la tortura mentale fa molti più danni della tortura fisica. E adesso sulla mia pelle so cosa si prova; posso comprenderlo perfettamente. Non so da quanto tempo sono qua, non so da quanto tempo mi trattiene qui, abbandonandomi per ore con una palla in bocca che mi toglie solo per darmi da mangiare o da bere. È l'unica attenzione che ricevo, e si trasforma in umiliazione quando i miei bisogni corporali si fanno sentire. Non mi lascia usare la toilette e ride quando mi vede urinarmi addosso, ride quando mi vede piangere di vergogna. Non ho nessuna dignità. Non so quante volte mi ha svegliato prendendomi a schiaffi, perché ha dichiarato che non ho il diritto di dormire. Non so quante volte mi ha messo una borsa sulla testa per impedirmi di vedere per ore, per giorni. Non so quante volte mi ha mostrato quegli strani disegni per farmi rivivere, ancora e ancora, la morte di Donatella, ogni volta in modo differente, per confondermi e farmi dimenticare com’è davvero accaduto. So che se continuerà con questa strada, riuscirà a confondermi definitivamente. Ci riuscirà perché mi ha indebolito mentalmente, perché ero già fragile prima, già confuso e così tremendamente colpevole. Ha preso la cavia perfetta.
Non ne uscirò illeso.
Se mai ne uscirò…
— Credo sia tempo di togliere questo, che è un po’ disgustoso, eh.
Le sue dita si infilano nella mia bocca e tirano via quella maledetta palla. Cade sui miei pantaloni un filo di bava. Il mio rapitore tira una sedia e si siede di fronte a me, prima di prendermi il mento per forzarmi a guardarlo. Mi osserva e ride. Mi trova patetico.
— Allora, Lorenzo, com’era questa volta? Anche Alice è morta, ed è ancora colpa tua.
— No. Lo… lo fa apposta… per rendermi… pazzo. Ma non sono pazzo… Alice… è viva. È viva, non è morta nell’incidente! Lo fa per… farmi sentire in colpa… Ma Alice non è morta. Non è morta!
Un pugno dritto in faccia mi fa urlare. Metà stordito, lo sento tirarmi i capelli per mettermi la testa in giù. La bocca riempita di sangue, lo vedo di nuovo fissarmi. I suoi occhi, pieni di follia e di rabbia…
— Ma mia sorella lo è!
— Cosa?
No…
— È morta per colpa tua!
Non può essere…
— Hai pensato prima a te che a lei! Egoista di merda!
No…
— Hai ucciso mia sorella!
Mi fidavo di lui… mi ha aiutato, si è occupato di me, si è occupato di Alice, ha detto che era qui per me…
Mio cognato… Mio cognato, che ho sempre considerato come un fratello, come un amico… Mio cognato mi ha tradito.
— Luciano… perché?
— Sta zitto, stronzo! Meriti pienamente di essere qui! Meriti le cose orribili che ti faccio! Ho perso mia sorella perché ti sei salvato tu, invece che lei!
Non serve difendersi, ha ragione. Ha perso sua sorella e cerca qualcuno per sfogare la sua rabbia. Visto che non è stato ancora possibile rintracciare i veri responsabili, si scatena sull’unico che ha sua disposizione. Posso capirlo e non posso nemmeno rimproverarlo: se avessi fatto attenzione, sarebbe ancora viva. Aveva un legame stretto con Donatella, era sua sorella gemella, l'amava più del resto del mondo e l’ha persa, brutalmente, violentemente, senza preavviso. Doveva trovare un capro espiatorio e il destino ha voluto che fossi io. Perché me lo merito, non sono niente.
— Luciano… per favore…
— Sta zitto! Crepa, bastardo di merda!
Il dolore per aver perso Donatella l’ha fatto diventare completamente pazzo. Non mi ascolterà. Vuole che io lo ascolti. E non posso davvero fare altro.
— Se vuoi… parlarne… ti ascolto… Luciano… Potremmo aiutarci… sostenerci… Amavamo la stessa persona e l'abbiamo persa… Posso aiutarti, Luciano.
Il suo sorriso nella semi-oscurità mi spaventa.
— Lo stai già facendo, Lorenzo. Sfogarmi su di te mi fa un bene che non puoi immaginare. Debole, stanco, incapace di difenderti, sei la cavia perfetta.
— La cavia per cosa?
— Eh, ma sei davvero scemo?
Mi mostra un altro disegno. Chiudo immediatamente gli occhi.
— No, non ti preoccupare, quella l’ho già testato su di te e non ti ha fatto niente. Ma continuerò fino a quando non ne farò uno che ti ucciderà tra sofferenze inimmaginabili.
Mi tira un nuovo schiaffo.
— Gli assassini meritano la morte, Lorenzo. Una morte lenta e dolorosa. Ti torturerò fino alla fine.
Inizio a piangere.
— Non sono un assassino…
Un lampo di sadismo compare nei suoi occhi.
— Sei un assassino! Donatella era bella, giovane. Era intelligente, talentuosa, la amavo, la amavamo tutti, ed ora è morta per colpa dello stronzo che le funge da marito, perché… perché… perché?
Un pugno più forte degli altri colpisce la mia bocca. Luciano scoppia a piangere.
— Hai ucciso mia sorella! Hai ucciso una parte di me! Me l’hai strappata via, l’hai massacrata, l’hai lasciata morire! Hai ucciso la persona che amavo di più al mondo! Perché l’hai fatto, perché? Perché? Mi hai fatto credere di renderla felice, di amarla nel bene e nel male, l’hai resa madre, hai giurato di fronte a Dio di renderla una donna felice, pienamente soddisfatta, per l’eternità. E invece è morta per colpa tua! Avevi giurato di proteggerla, di aiutarla, di sostenerla contro il resto del mondo e l’hai uccisa! L’hai uccisa, stronzo! Ma la vendicherò! Vendicherò Donatella e morirai lentamente e dolorosamente, perché non meriti altro!
— Luciano…
Parlare si rivela sempre più complicato, più doloroso. Ma devo continuare.
— Non è vero… Luciano, ascoltami… Ti prego, ascoltami…
— No. Basta, Lorenzo, apri la bocca.
— Ti prego…
La sua mano mi infila in bocca un enorme pezzo di stoffa che sa vagamente di detersivo. Più grosso di quanto io possa aprire la mia bocca già martoriata. Fa troppo male, voglio morire, no, ce la faccio più…
— Per favore…
— Zitto, nessuno capisce un cazzo di cosa blateri.
Lo imploro con lo sguardo, invano, mentre mi ricopre la bocca con cellofan.
— Luciano…
Eccolo che mi osserva con il suo sorriso che fa sembrare gentile e premuroso ma che nasconde tutto l'odio che ha per me.
— Che c'è, Lorenzo? Vuoi dirmi qualcosa?
Lo imploro di nuovo. Ti prego, se davvero vuoi zittirmi, mettimi il nastro adesivo sulla bocca, toglimi la palla…
— Hai uno sguardo molto espressivo, Lorenzo, non ne n'ero mai reso conto prima. Quando mi vedi entrare, ci sono nei tuoi occhi tante emozioni che riesci a esprimere anche con un bavaglio in bocca. La paura, la disperazione, il dolore… Spesso, vedo anche la rabbia e la stanchezza.
Come può dirlo in un modo così calmo? Come può parlare così dopo avermi pestato? Come osa?
— Vedo una disperazione immensa. Non sai più cosa dirmi per farmi capire che non sei un assassino. Sei esausto, la tua bocca ti fa tanto soffrire, vuoi uscire, sei stufato… Tutto questo lo vedo, Lorenzo. Lo vedo.
Allora perché lo fai? Perché lo fai, Luciano?
— Ma non ho più voglia di vederti implorare, mi sono stufato di vederti chiedere pietà per qualcosa che non posso perdonarti.
Lo vedo prendere la colla. Cosa cazzo sta per fare?
— Ora è finita. Hai ucciso mia sorella, non meriti nemmeno che io ti ascolti o ti presti attenzione.
Si mette la colla sulle mani e le appone sui miei occhi. Mi dibatto, sapendo cosa sta facendo.
Mi sta apppiccicando le palpebre così che io non possa più aprire gli occhi.
— Luciano, no!
— Non capsico un cazzo di cosa dici, zitto!
Devo aprire gli occhi. Devo apprire gli occhi! E mentre Luciano toglie le sue mani dalla mia faccia e si allontana, riesco a socchiudere un occhio. Non abbastanza affinché il mio cognato possa vederlo, ma abbastanza per me da poter vedere un po'.
— Aspetta, Lorenzo, non ho finito.
E sento un tessuto sul mio volto. Mi ha messo una benda sugli occhi. Doppia protezione, doppia privazione sensoriale. Doppia tortura psicologica.
— Ora non puoi più comunicare. Diventerai pazzo, Lorenzo. Vorrai urlare, vorrai moverti, vorrai vedere qualcosa, vorrai sapere cosa succede, ma non potrai. Non potrai, Lorenzo. Semmai ti lasciassi libero, finiresti il resto della tua misera vita all'ospedale psichiatrico, distrutto dalle mie torture che ti costringeranno a non poter più esprimerti, all'essere umiliato, sottoposto ad angherie, all'essere ignorato, preso in giro. Non guarirai mai, Lorenzo. Mai.
Mi mette la testa in un sacco. Scoppio a piangere. Ha ragione, questa è la cosa peggiore: ha assolutamente ragione.
— Non ho più tempo per ascoltarti piagnucolare, Lorenzo. Sono le 17:30 e devo andare al lavoro. Torno domani alle 6:00. Buona fortuna, è difficile resistere tutta la notte con questo coso in bocca…
Tenere gli occhi chiusi. Sempre. Non aprirli mai è l’unica cosa che mi salverà. Non ho sentito la porta chiudersi, non l’ho sentito allontanarsi, è ancora qui, mi osserva, posso sentire il suo respiro. È ancora qui, mi spia, mi farà vedere una nuova immagine se apro gli occhi. Sto facendo finta di dormire, ma lo sa. Aspetta il mio crollo, ma per il momento riesco a resistere.
Ma per quanto tempo?
Sto diventando paranoico. Sono giorni che non dormo; sono esausto, ma non posso dormire, mi fa troppo male e la posizione è troppo scomoda. E sapere chi è il mio rapitore e perché l’ha fatto non mi rassicura, anzi il contrario. È da nove anni che lo conosco… che conosco uno psicopatico. E le sue immagini… i suoi disegni… so che disegna molto bene, mi ha già mostrato le sue "opere", ma da quanto tempo ne fa che hanno questi effetti? Da quanto tempo è cosciente di cosa fa? E da quanto tempo fa volontariamente questo tipo di disegni? Dalla morte di Donatella o molto prima? E perché mi dice che sono la cavia perfetta? Ha appena iniziato a comprendere bene gli effetti delle sue immagini testandole su di me, o ne ha fatte di più pericolose e mi sfrutta per verificare quanto siano temibili? È l’unico a poter produrre questi effetti ai suoi disegni o ce ne sono altri?
E soprattutto: è davvero possibile una cosa del genere?
Oltre alla paura, la cosa peggiore è l’attesa. L’attesa e la solitudine. L’attesa di non saper quando tornerà e cosa mi farà quando tornerà. Come si sentirà, arrabbiato, avendo voglia di pestarmi, di torturarmi… Mi ha messo la testa in un sacco. Non posso muovermi, non posso parlare, non posso vedere, posso a malapena respirare. Mi faccio troppe domande, mi mantiene in uno stato di stress permanente. Divento pazzo. E questo dolore ai denti…
Sento la sua presenza, ma non so nemmeno se è davvero qui. Non lo vedo, non lo sento, e se è davvero qui, non parla. E posso sentire, mi ha privato della vista e della libertà di muovermi, ma posso ancora sentire. Ascoltare. Ogni singolo rumore mi fa sobbalzare. Ad ogni momento mi aspetto a sentirlo arrivare, togliere il sacco e farmi vedere un disegno. All’inizio, mi lasciava da solo, di fronte all’orologio. Iniziava un’attesa lunghissima, a contare i secondi, i minuti, le ore, aspettando che Luciano tornasse dal lavoro. Ero quasi impaziente rivederlo, anche se era per torturarmi.
Effettivamente, la cosa peggiore è la solitudine. Non c’è nessuno che si cura di me, non c’è nessuno con cui parlare. Non so come sta Alice, non so come stanno i miei genitori e mio fratello. Sono dipendente dal mio rapitore, il mio boia. L’unica persona che vedo da… da quando sono uscito dall’ospedale. Non so nemmeno quanto tempo è passato, ma mi ha reso dipendente di lui, sono il suo burattino, la sua cavia, mi ha manipolato affinché io non possa fare niente senza di lui. Poi, mi ha torturato. Si è accanito su di me. Mi ha fatto morire di freddo, mi ha strangolato fin quasi alla morte, mi ha fatto bruciare, ho rivisto tante volte la morte di Donatella, ogni volta in modo diverso, e infine, mi forza a parlarne. Rifiuto sempre e poi me ne pento quando se ne va, quando mi abbandona, perché quando lascia la stanza, non ho più nessuno con cui parlare.
Mi sento tanto solo…
È notte. Mi lascio cadere per terra, senza fiato. Sono paralizzato e il corpo intero mi fa male. Intorno a me il buio, il buio completo, e il silenzio, appena turbato dal vento che sento nei miei capelli bagnati di sangue. Siamo da soli, senza aiuto. Non so nemmeno dove sono, su una strada di campagna, non vedo nessuna luce.
Oh no… non di nuovo!
No, devo ricordare bene. Devo resistere. Non è accaduto così… non è accaduto così!
A questo punto, Donatella è già morta, non c’è più niente da fare. Eppure non lo sapevo e quindi dovevo salvare lei e Alice. Incapace di muovere la testa, apro comunque la portiera.
— Alice? Tesorino?
È addormentata. Oppure svenuta. Non lo so ancora. E non ci penso nemmeno, devo salvarla dall’incendio. E far uscire Donatella, se possibile.
Deve essere possibile.
— Alice?
Per fortuna, respira.
— Alice, ti prego, apri gli occhi! Alice, dobbiamo cercare aiuto!
Vedo la macchina allontanarsi: gli assassini di Donatella. Non sono venuti in nostro soccorso perché non è un semplice incidente. È un omicidio volontario. Quei bastardi volevano la sua morte.
— Papà…
— Alice, vieni con me, dobbiamo cercare aiuto.
Un rumore infernale dietro di me. Mi giro, mia figlia tra le braccia, e vengo accecato dai fari di un’enorme mietitrebbia. Si ferma ad un centinaio di metri e mi immobilizzo. Il rumore del motore, mischiato a quello dell’incendio, mi perfora i timpani. L’autista spegne il motore e scende.
— Ho visto l’incendio mentre tornavo a casa. Ha avuto un incidente?
Sì, è successo così nella realtà. Qualcuno è arrivato e ci ha aiutati. Il contadino con la mietitrebbia. Si chiama Giorgio Melloni, ora ricordo il suo nome.
— Mia moglie è nella macchina!
Sono disperato. In quel momento, non ero cosciente della morte di Donatella. È morta, ma ero ancora convinto del contrario. Il contadino esamina le mie ferite, Alice metà incosciente nelle mie braccia, la macchina che continua a bruciare allegramente.
— Come si chiama, signore?
— Lorenzo Ferri. Mi chiamo Lorenzo Ferri. Mia moglie si chiama Donatella e mia figlia si chiama Alice. Ci aiuti, la prego!
Il contadino capisce.
— Signor Ferri, vado a cercare sua moglie. Si calmi, per favore, farò del mio meglio.
— Grazie, signore!
Ha rischiato la sua vita, quella notte. Terrorizzato, lo vedo aprire la portiera ed estrarre il corpo di mia moglie. Ha avuto appena il tempo di allontanarsi, di raggiungerci, che la macchina esplode. Sempre illuminato dai fari della mietitrebbia, vedo il corpo di mia moglie, incosciente, trafitta da un pezzo di metallo. Mi metto a piangere, capendo finalmente cos’è successo.
Donatella è morta.
Qualcuno è venuto, ci ha aiutati, ma non ha potuto salvarla.
Ho perso mia moglie.
— Mi dispiace, signor Ferri.
— Lorenzo.
Torno in me stesso, mentre Luciano mi toglie il sacco e la benda. Il mio occhio sinistro non è forzatamente chiuso, riesco a vederlo. Mi osserva, furioso. Inizio a tremare e a gemere. Si avvicina e, con mia grande sorpresa, mi toglie il bavaglio e mi mantiene chiusa la bocca, il che mi fa gemere di dolore.
— È divertente quando sei sotto l’effetto dei miei disegni, perché parli — mi dice, mentre continua a tenermi la bocca chiusa, facendomi gemere sempre più di dolore. — Parli, ma ovviamente non ti capisco. Cos’è successo stavolta?
Tremo di freddo. Faceva freddo in quella terribile notte. Luciano mi avvolge in una coperta e mi tiene la testa in una posizione confortevole, ne sono quasi sorpreso.
— È accaduto così com’è accaduto in realtà.
Riesco a parlare quasi normalmente. È dovuto alla posizione della mandibola.
— Cioè?
Gli racconto la verità. Non cambierà nulla, Donatella era già morta ed è convinto che sono il responsabile. Non cambierà un bel niente, ma almeno saprà la verità.
— Quindi una mietitrebbia. Conosci il nome dell’autista?
Devo mentire. Non so cosa potrebbe fare Luciano a quel buon uomo.
— Non me lo ricordo, Luciano, mi dispiace…
Si trattiene dal picchiarmi, lo vedo.
— Dannato scemo di merda.
Lo fisso, terrorizzato, pronto per ricevere altri pugni in faccia ed essere di nuovo imbavagliato, ma Luciano ha un mezzo sorriso stampato in faccia. Questo non mi rassicura: fa chiaramente finta di essere contento, è la premessa a una nuova tortura mentale o di una serie di pugni, calci e violenza.
— So che dici la verità quando sei sotto l’effetto di agenti memetici.
Cosa?
— Agenti… memetici? Luciano… non… non capisco.
Ridacchia.
— Non ti preoccupare, Lorenzo, sei solo un avvocato di merda, non puoi capire. Oggi non te ne farò vedere uno che ti faccia nuovamente rivivere la morte di mia sorella. Anche se te lo meriti pienamente.
Abbasso gli occhi.
— Lo so, Luciano. Lo so. Ma per favore, non farmi soffrire di più…
Ridacchia di nuovo.
— Se lo facessi subito potresti morire, sei troppo debole per resistere a un secondo attacco, soprattutto con una tale potenza. Ma ora che so che mi dici la verità, ho deciso di lasciarti un giorno di tregua. Per riposarti, capisci? Inoltre, fa freddo e non voglio tu abbia la febbre, nel tuo stato sarebbe molto pericoloso. Ti lascio anche la coperta.
So che domani, tutto ricomincerà, forse ancora più violentemente. Sarò “guarito”, in grado di sopportare un nuovo “attacco”, un nuovo “agente memetico” e ne testerà uno che finirà per uccidermi. Lo so. Ma ho tanto bisogno di lui da essere totalmente ai suoi ordini, sotto il suo potere, pronto a sorridere.
— Grazie, Luciano!
Mi dà un piccolo schiaffo “affettuoso”.
— Ne hai bisogno, Lorenzo. Ecco, per te.
Sto quasi per ringraziarlo di nuovo mentre mi fa indossare il collare cervicale. È infermiere, è il suo lavoro, sa che mi fa bene.
— Ovviamente non ti slego le mani o qualcosa del genere, non ci sperare. È per il tuo bene, non saresti in grado di camminare.
— Non speravo in niente. Luciano?
— Sì, Lorenzo?
— Ora che sai la verità, cosa mi farai?
Mi guarda, furioso.
— Ti vedo, hai potuto aprire un occhio. Allora, invece di fare domande stupide che non dovresti fare, guarda questo.
Chiudo immediatamente gli occhi.
— Non una quarta volta, ti prego…
— No, no, ho detto che devi riposarti, quindi non userò nessun agente memetico su di te, oggi. Calmati, Lorenzo.
Ma non sono per nulla rassicurato. Credo aver capito.
— Cos’è un agente memetico, Luciano, perché non vuoi dirmelo?
— Perché sei un avvocato, Lorenzo, non potresti capire. Ora sta zitto o ti rimetto il bavaglio.
Ho capito: non vuole dirmi niente. Di certo è così che chiama i suoi disegni che mi fanno bruciare, crepare di freddo o farmi rivivere la morte di Donatella.
— Lorenzo. Guarda fuori il vento che c’è!
Effettivamente, sento un rumore di vento tremendamente forte. Apro gli occhi per vedere gli alberi piegarsi sotto la forza del vento.
Ma è un disegno. Molto bello, devo ammetterlo. E come già successo, sento il mio corpo diventare rigido, immobile. Le mie braccia si bloccano contro i fianchi e dietro la sedia, e le mie gambe rifiutano di alzarsi. Provo a parlare, ma nessun suono esce dalla mia bocca. Luciano ride in un modo che fa accapponare la pelle, se non fosse già accapponata di suo.
— Eh sì, Lorenzo, ti ho mentito!
Per favore, no…
— Sta tranquillo, questo non fa altro che paralizzarti. Puoi respirare, puoi sentire il dolore, puoi muovere gli occhi. Ma nient’altro.
Perché?
— Ah, dimenticavo: puoi pensare e riflettere. Approfittane, è l’unica cosa che potrai fare per le prossime ore.
Aspettare… ancora e ancora. Non posso fare altro. Non posso muovermi, ogni volta che ci provo il mio corpo diventa sempre più rigido, i muscoli come se fossero sul punto di rompersi. Solo i miei occhi possono muoversi. Essere completamente paralizzato è ancora peggio, perché se Luciano torna non potrò provare a difendermi. Col senno di poi, non so se preferisco rimanere da solo legato su una sedia con un bavaglio in bocca.
Luciano ha ragione: posso solo pensare. E penso troppo, come ogni volta che sono da solo e non sotto l'effetto di un disegno. Una volta mi ha abbandonato per due giorni dopo avermi mostrato un altro dei suoi "agenti memetici", ma che non ha funzionato e ho avuto tempo di pensarci. Mi sono addormentato e ho sognato di essere di nuovo all'ospedale. Parlavo con lo psicologo. Mi diceva che il sentimento di colpevolezza era perfettamente normale, ma che non ero responsabile della morte di Donatella. Non la mia. Io non ho niente da biasimarmi.
Non ero io. Devo convincermene. Non sono responsabile, non ho fatto niente di male, guidavo correttamente, alla velocità giusta, avevo i fari accesi, non sono fuggito, ho cercato aiuto, ho salvato Alice, Donatella non è morta per colpa mia, ho fatto il meglio che potevo fare, non merito la prigione, non merito cosa mi capita.
Me lo sono ripetuto trecento volte, come un mantra quando Luciano non è casa. "Non ho fatto niente di male, non ero io, non è colpa mia". Sono una vittima, la polizia e lo psicologo me l'hanno assicurato.
Il mio udito sembra essere migliorato. Posso sentire il più piccolo rumore come se fosse cento volte più forte. Sono le 21:00, Luciano dovrebbe ancora essere al lavoro, ma sento altri rumori. Vive da solo, non capisco chi è. Un ladro? Luciano stesso? Un'eventuale ragazza? Se sono dei ladri, forse verranno qui, perché c’è il computer di Luciano, mi troveranno e mi salveranno. Ma se è la sua ragazza, sono sicuro che non verrà qui.
Spero che siano dei ladri… Se sarà il caso, potrò testimoniare a loro favore e avranno una pena più lieve.
Un urlo mi fa sobbalzare. È una donna. Sicuramente la ragazza di Luciano. C'è anche lui, riconoscerei in ogni caso queste grida e questi grugniti. Sento il cigolio continuo del letto, le loro respirazioni accelerate, i loro gemiti così inquivocabili.
Non sono dei ladri.
Oh cazzo.
Sono Luciano e la sua ragazza che stanno copulando.
Oh cazzo.
Piango silenziosamente. Li sento come se urlassero nelle mie orecchie e ciò mi causa un mal di testa lancinante. È insopportabile… vorrei tapparmi le orecchie, o diventare sordo. Luciano, ti prego… fammi vedere un disegno che mi toglierà l’udito… rendimi sordo!
Ma non lo vuole. Lo so, l’ha fatto a posta. L’immagine che ha mostrato non solo mi paralizza ma amplifica anche il mio udito. E lo sapeva, ha deciso di chiedere alla sua ragazza, che di sicuro non sa della mia presenza, di venire a casa sua. Di urlare, sotto pretesto di dargli più piacere, forse, per darmi un altro dolore insopportabile… fisico, stavolta.
Luciano, ti prego, smettila! Non ho fatto niente e lo sai, lasciami in pace!
— Allora, Lorenzo, ne hai approfittato?
Ho contato tutta una notte. Una notte intera con Luciano e la sua bella che non smettevano di far festa. La sentivo come se fossi posto di fronte a degli altoparlanti. Non ho potuto dormire e sono sicuro che si noti perfettamente. Per non concentrarmi suoi rumori, ho pensato a mia figlia, ho immaginato il suo sorriso, ed è stata l’unica cosa che mi ha un po’ dato la forza di non impazzire del tutto.
— Come vuoi essere legato? Su una sedia o su un letto? Ti lascio scegliere.
Lo fisso senza poter parlare. Ho perso le mie forze. Guardo a destra, in direzione del letto.
— Sul letto? Hai ragione, Lorenzo, devi riposarti. Prova a muoverti?
Provo ad alzare una gamba. Luciano sorride.
— Perfetto.
— Ho… sonno…
Ho la bocca secca. Luciano lo nota e mi dà un bicchiere d’acqua fresca.
— Grazie…
Mi trascina per terra. Non riesco nemmeno a stare in piedi, sono solo due metri da fare e non ce la faccio. Luciano mi butta per terra e mi lascio cadere, come la merda impotente e stupida che sono, e non mi difendo nemmeno, non ne ho la forza. Sbatto la testa contro il muro e tutto inizia a girare intorno a me.
— Cosa fai?
Non mi risponde. Prende una cinghia per legarmi le gambe. E come uno stupido, come un animale maltrattato dal suo proprietario, spaventato, senza possibilità di scappare, lo lascio fare.
— Non provi a fuggire?
Non rispondo. Questo lo fa ridere.
— Dai, Lorenzo, ti ho davvero distrutto?
Non posso nemmeno muovermi, sono troppo debole e per metà paralizzato.
— Ora sei come un burattino. Il mio burattino. Di te faccio tutto ciò che voglio.
— Mettimi sul letto. Mettimi sul letto!
Un calcio spezza la mia debole protesta.
— Zitto.
Ma non voglio stare zitto. Devo parlare, devo chiedere, devo avere le risposte alle mie domande.
— Luciano… ascoltami… So chi ha voluto uccidere Donatella. So chi ha travolto la nostra macchina.
Ridacchia.
— Davvero? E chi sarebbe?
— Ho due ipotesi…
Mi prende per la camicia e mi scuote violentemente. Reprimo una voglia di vomitare.
— Parla, stronzo, parla!
Ho catturato la sua attenzione. Devo continuare a spiegare, devo fargli capire la verità, forse mi lascerà in pace e mi aiuterà.
— La prima è semplice: Donatella ha giudicato diversi processi eclatanti, come quello della gang di Trento, ad esempio. Te lo ricordi? 25 persone imprigionate.
Annuisce. Se lo ricorda, per fortuna. Continuo.
— Ma siamo davvero sicuri che siano stati arrestati tutti, e non ci siano dei membri ancora in libertà? Non pensi che avrebbero potuto uccidere Donatella per vendicare i loro compagni?
Mi fissa. Mi aspetto nuovi calci.
— E la seconda ipotesi?
— Sai che sono avvocato difensore e che seguo attentamente i miei clienti incarcerati, per aiutarli a reinserirsi nella vita dopo essere usciti dalla prigione.
Luciano ridacchia di nuovo.
— Quanto sei bravo, Lorenzo… continua.
— D’accordo. Sei mesi fa, ho scoperto che alcuni dei miei clienti sparivano nel nulla. Ho indagato, ho cercato di sapere perché, e un mese fa, due tizi sono arrivati al tribunale e hanno cercato di farmi paura. Hanno detto che dovevo smetterla d’indagare, che era meglio per me. Volevano intimidirmi, Luciano. Non li ho presi sul serio e ho continuato. Hanno ucciso Donatella per farmi paura, per punirmi.
Allo sguardo di mio cognato, capisco che non avrei dovuto dire le due ultime frasi. Luciano inizia ad urlare, ad insultarmi e a piangere di rabbia.
— È morta per colpa tua! Non cambia niente! Se tu avessi smesso con le tue indagini di merda, Donatella sarebbe viva! È colpa tua! Hai ucciso Donatella e rischiato di uccidere Alice! Sei tu che avresti dovuto morire quella maledetta notte! Invece di chiamare la polizia per arrestare questi stronzi, hai voluto agire da solo! Ha rovinato la mia vita, Lorenzo!
— La polizia non ha voluto aiutarmi!
E non mento. Per loro, non era un problema. Mi hanno detto che i miei clienti sono stati trasferiti. Non mi hanno dato altre informazioni, né il motivo, né dove sono stati portati. Tutto questo però non era sufficiente per me, dovevo saperne di più. Si trattava dei miei clienti.
— La polizia non ha voluto aiutarti? Pensi di essere credibile? Pensi che ti creda?
— È la verità…
Mi dà un pugno in faccia. Urlo di dolore.
— Sono stufo delle tue menzogne. Ho perso il mio tempo con te, non sei altro che un bugiardo.
Non ho il tempo di reagire. Stordito, sento la palla infilarsi nella mia bocca, il che mi fa gemere ancora di più. Gli occhi di Luciano brillano ancora di rabbia e follia. Lo imploro silenziosamente, ma lo vedo strappare un enorme pezzo di adesivo con un sorriso sadico e mettermelo sulla bocca. Inizio anche io a piangere, non solo perché non mi ha creduto, ma soprattutto perché so cosa sta per accadere.
— Guarda il mio nuovo disegno. Guardalo. Ancora qualche minuto e sarai morto.
— Lorenzo.
Una mano sulla mia guancia e una voce dolce nelle mie orecchie. L'aria entra di nuovo nei miei polmoni e l'acqua nella quale mi annegavo mi porta su una spiaggia di rocce calde. Respiro profondamente e apro gli occhi gemendo. Di fronte a me, Luciano, che mi toglie la palla nella mia bocca.
Non sono annegato. Sono vivo. Ho resistito al suo disegno, una nuova volta.
— Reagisci meglio al contatto fisico. Lo saprò per la prossima volta.
La sua voce è dolce, normale, come prima, prima di rapirmi. Non capisco perché si comporta così poche ore dopo avermi di nuovo torturato. Prende fazzoletti e asciuga la bava e il sangue che escono dalla mia bocca. Chiudo di nuovo gli occhi mentre mi immobilizza la mascella in un modo che non conosco e non capisco.
— Oggi sarà una vera tregua, Lorenzo, mi dice. Ti ho mentito l’ultima volta, ma ho ben visto che non ce la farai se continuo. E non voglio farti morire.
— Non per il momento.
— Hai ragione. Non ne ho finito con te. Non devo ucciderti subito, devi continuare a soffrire, è l’unico modo per farti capire che merda sei.
Abbasso gli occhi.
— Non bisogna dirmelo di nuovo, ho capito.
Ridacchia.
— Ma anche i peggiori criminali hanno diritto a un po’ di cura. E soprattutto a una doccia: inizia a puzzare un po’ qui.
Non oso dire che sono io a puzzare. Ma è vero: sudo come un maiale e ieri mi sono urinato addosso, i miei pantaloni bagnati mi causano un vero sconforto. Ho bisogno di una doccia.
— Dai, vieni con me.
Luciano mi fa alzare. Le mie gambe non mi sostengono più e cado nelle sue braccia. Lo fa ridere.
— Allora, prima di tutto, togli quei pantaloni bagnati, che li metterò alla lavatrice, è disgustoso.
E mi toglie i vestiti di fronte a uno specchio che ha portato specialmente per l’occasione. Mi ritrovo in mutande di fronte a lui, braccia legate, e per la prima volta da giorni, osservo il disastro sul mio corpo. Sono macchiato di sangue e lividi. I miei arti sono ridotti allo stato di ossa ricoperte di pelle. Sono uno scheletro, un involucro di ossa e pelle senza dignità. Sono patetico.
— No…
Scoppio a piangere. Luciano mi abbraccia, accarezzando i miei capelli.
— I tempi sono duri, Lorenzo. Ma per oggi è finita. Oggi andrà bene, d’accordo?
Non sono in grado di rispondere. Non mi fido, non mi fiderò mai più di lui, ma ho troppo bisogno di una doccia. Mi fa uscire del sottosuolo nel quale mi tiene rinchiuso da giorni e apprezzo che mi sostenga per camminare, non potrei farlo da solo. Arriviamo al bagno e vedo la vasca riempita d’acqua.
— Mi fai fare il bagno?
Luciano mi sorride.
— Non sei contento? Sarà più comodo per te, non riesci a reggerti in piedi, sarà impossibile farti una doccia. E poi aiutare i ricoverati a lavarsi fa parte del mio lavoro. Entra, non ti farò niente di male.
Lo ringrazio dal cuore. Luciano mi sdraia nella vasca e mi slega le braccia per qualche secondo, per massaggiarmi i polsi, resi insensibili e viola per colpa del nastro adesivo troppo stretto. L’acqua è calda, profumata, c’è schiuma e anche se la vasca è un po’ piccola per me, per la prima volta da giorni, mi sento bene e riesco a rilassarmi un po’. Un po’. Perché so che Luciano non lo fa per carità. Mi lascia riprendere forze oggi, e domani tutto ricomincerà. Domani sarò di nuovo imbavagliato e legato su una sedia, domani mi farà vedere altri disegni, domani mi insulterà, domani mi picchierà. Sarò ridiventato il suo burattino. Ha già finito e mi sta di nuovo legando i polsi alla tubatura della vasca, questa volta con un tessuto fresco e dolce.
— È solo una tregua, eh? Domani avrò le manette o il nastro adesivo.
— Dai, Lorenzo, approfitta del momento.
Chiudo gli occhi e mi concentro sull’odore dell’acqua e sulle sue mani che massaggiano il collo. Ha ragione, devo approfittarne, so che non durerà. E non posso dire che non mi fa bene.
— Quanto tempo durerà, Luciano?
— Cosa, la tregua?
— Si.
— Non lo so. Sei davvero magro e debole, forse dovrò lasciarti diversi giorni di riposo. O darti da mangiare. Cosa pensi di un bel pranzo, Lorenzo?
La mia testa cade all’indietro e grido di dolore. Non posso nemmeno sostenermi.
— Va tutto bene, Lorenzo; ti rimetterò il collare cervicale dopo la doccia, okay?
L’odore dell’acqua è così bello. Non ho nessuna idea del profumo, ma più la sento, più mi sento bene. C’è lo stesso odore sulle mani di Luciano. Mi abbandono e mi rilasso nell’acqua, sollevato, anestetizzato. Riesco anche a sorridere.
— Ah, sembri felice.
Aspe. Perché sorrido? Due secondi fa ero spaventato, non dovrei sorridere…
— Cosa mi hai ancora fatto, Luciano?
— Di cosa parli?
— L’acqua… Le tue mani… Perché ora mi sento rilassato? Non dovrei… Hai messo una droga nell’acqua?
La sua mano sfreccia i miei capelli.
— Agente memetico, Lorenzo. Ma questo non ti farà del male. È un agente memetico olfattivo per rilassarti. Ne hai bisogno.
Mi lascia per qualche secondo per mettere i miei vestiti nella lavatrice. L’agente “memetico” nell’acqua fa il suo lavoro e mi calma. Mio cognato ha ragione: devo approfittare del momento. Non c’è più dolore, non c’è più paura, violenza, non c’è più palla in bocca, non c’è niente. Solo acqua calda, sapone e serenità. Luciano rientra e si avvicina a me e gli faccio un sorriso.
— Avrai anche bisogno di dormire in un vero letto, Lorenzo. Peccato che io non ne abbia.
— Va bene anche il sofà, sai…
Inizia a lavarmi. L’acqua calda e il sapone fanno il loro lavoro e sento la sporcizia andarsene. Lasciare la mia pelle. Il sollevamento non è solo fisico, è anche psicologico, è come ritrovare un minimo di dignità. Luciano ci sa fare, mi lava dappertutto, assolutamente dappertutto. Mi mette al disagio quando le sue mani arrivano in certe zone, ma anche tanto rilassante quando mi lavano le gambe o le braccia. Come se non ci fosse nessun risentimento, come se non fosse il torturatore che si occupa della sua vittima per rimetterla in piedi e poter giocare con lei dopo. È un infermiere che aiuta il sopravvissuto di un incidente stradale a farsi la doccia. Fa il suo vero lavoro.
Come sarebbe dovuto rimanere.
Luciano finisce con lavarmi i capelli. Prendo il tempo per apprezzare l’acqua fresca e il sapone sul mio volto, che portano via le ultime gocce di sangue e di bava che mi sporcavano. Mio cognato ha dei gesti professionali, ma anche dolci e premurosi. Non posso non apprezzare la carezza delle sue mani, soprattutto quando è per mantenermi la testa nella posizione giusta. Inizia a farmi un massaggio del volto e non mi fa male. Al contrario, lo apprezzo particolarmente sulla zona delle guance, intorno agli occhi e sulla fronte. Luciano ha ragione: il contatto fisico è il migliore di tutti. Una voce può essere finta, una immagine può essere finta. Ma un contatto sulla pelle non può essere finto, è una cosa vera, una cosa che mi fa sentire che non sono perso nel vuoto, che mi fa sentire che sono nella realtà, che sono vivo. Luciano mi sta anche parlando nell'orecchio e la sua voce è come una musica, come il rumore del vento negli alberi o dell'acqua che scorre sulle rocce, uno spettacolo di fronte al quale rimanevo per ore quando, da piccolo, andavo nell'Alto Adige con i miei genitori in vacanza.
È così rilassante…
Luciano mi fa uscire dalla vasca e mi aiuta ad asciugarmi e vestirmi. Delle mutande e una maglietta. È poco ma sono puliti.
— Sediti, Lorenzo.
Mette la mano sotto il mio mento per mantenermi la testa correttamente. Sento le lame del rasoio sul mio volto. Un nuovo sollievo e Luciano lo vede bene. Ho un respiro calmo, non ho più male.
— Ti senti meglio, eh?
— Oh, sì.
Le sue mani profumano tanto… Quest'odore è bellissimo, ho l'impressione di essere in una foresta di pini in montagna. Di essere di nuovo andato in escursione con il miei amici dell'università nelle Alpi. Di rifare lo sci. Adoravo lo sci, ero bravo, soprattutto nel biathlon.
— Stai sognando, Lorenzo? Di cosa sogni?
— Delle Alpi. Quest'odore sulle tue mani mi ricorda la montagna. Mi piace tanto la montagna.
Luciano ha finito di tagliarmi la barba. Spegne il rasoio e mette la sua mano sulla mia guancia.
— Ho spruzzato quest'agente memetico in tutta la casa, così da sentirti bene e rilassarti. Ora ti rimetto il collare cervicale e andremo a mangiare. Va bene?
Sorrido. Luciano lo vede bene. Sa che ho fame, sente la mia pancia brontolare ogni volta che viene a visitarmi. Non sa quanto sono contento alla semplice idea di mangiare.
— Ti farà del bene, Lorenzo, mi dice a voce bassa nell'orecchia. Va bene?
— D'accordo.
Il letto. Il letto è così caldo e confortabile… Questo cuscino… le coperte… È il paradiso! Ho lo stomaco pieno e non ho sete, non ho male, ho potuto bere, mangiare, abbiamo guardato il calcio alla televisione, abbiamo parlato di tutto e niente, abbiamo riso, mi sento tanto bene, vorrei che duri cosi per l'eternità!
Ma so che non sarà il caso. Domani tutto ricomincerà.
Dovrebbero esserci almeno 30 gradi, eppure sto morendo di freddo. Tutto il mio corpo sta tremando. Ho come l’impressione di essere in maglietta con le maniche corte in pieno inverno. Fa freddo, tanto freddo. E soffro, soffro in un modo indescrivibile. Abbraccio Alice spaventata, che piange di paura.
— Va tutto bene, tesoro, va tutto bene.
— Dov’è mamma?
Non so cosa dirle. Come diavolo potrei dire ad una bambina di tre anni la cui madre è morta? Alice non capisce nemmeno il concetto di morte, è troppo piccola.
— Arriva, tesorino, arriva. Il contadino con la grossa macchina è andato a cercarla.
No. Non un’altra volta. Non siamo al 22 luglio. Non sono su una strada in campagna per andare al mare.
— Signor Ferri. Per favore, deve sdraiarsi sul sofà.
È la voce di Giuliano, l'impiegato di Giorgio, il contadino. Si sta prendendo cura di noi.
— Fa tanto freddo…
— Siete entrambi scioccati e feriti, è normale aver freddo. Ho chiamato i soccorsi, arriveranno presto.
No, non arriveranno. Non arriveranno mai, non c’è nessuno, nessuno mi aiuterà, nessuno mi porterà via, sono da solo, sono con i miei ricordi. Solo a vivere senza fine l’inferno della morte di mia moglie, reso pazzo da dei disegni. Luciano ha ricominciato, la tregua non è durata, ne ero sicuro.
Non siamo al 22 luglio, siamo ad agosto. Sono legato su una sedia, imbavagliato con una palla, del cellofan e del nastro adesivo; gli occhi appicciati, bendati. Mi bruciano e prudono anche da morire. Che stia sviluppando pure una maledetta congiuntivite? Non lo so…
Quel che è certo è che non siamo per strada.
No, non siamo per strada.
— Papà, ho paura!
— Anch'io ho paura — le dico, accarezzando i suoi capelli biondi.
Un vero e bravo padre non dovrebbe dirlo. Dovrebbe rassicurare sua figlia, essere un ostacolo al pericolo, un supereroe.
Ma non sono un bravo padre, sono un povero idiota terrorizzato a morte.
— Il mio braccio non si muove, papà.
— Alice, andremo all’ospedale, te lo giuro.
Non so cosa dire, non so neanche dove sono. A casa del buon Giorgio o trattenuto da Luciano? Il passato si sovrappone al presente e non riesco a fare la differenza.
— Niente da segnalare. Non c'è nessun meme in questa stanza, potete entrare.
— Ti metteranno un cerotto sulla testa, papà?
— Si, Alice. E poi andrò dal dentista.
— Il campo è libero, agente Porta?
— Aspettate, ho sentito qualcosa.
— Emilia, prepara il tuo materiale, non si sa mai.
No, mia figlia si chiama Alice, non Emilia. Vi siete sbagliati.
— Ci siamo fatti male, papà.
La abbraccio più forte, come se ciò potesse far passare il dolore.
— Sì, amore di papà. Ma i medici si occuperanno di noi, te lo prometto.
— C’è qualcuno qui, prendi la tua arma.
— Pensi che sia la persona che cercate?
— Marini? Forse, non escludo nessuna ipotesi.
Queste due voci mi sono sconosciute, non ne ho nessun ricordo. Non erano nella casa di Giorgio, né per strada, né all’ospedale. Non so nemmeno se siano vere.
— Dov’è mamma?
— Arriva, amore, arriva.
— Oh, l’ho trovato!
Accetto la coperta data da Giuliano, ma non riesco ad alzarmi. Sono crollato. Mi sdraio per terra, sotto la coperta, e chiudo gli occhi.
— Non è lui, Francesco.
— Papà? Dormi?
Ma di chi sono queste voci? Chi sono queste due persone? Alice, sei tu? Dove sei, Alice?
— Alice!
I miei denti…
— È vivo. È vivo ma… delira. Non so cosa dice, colpa del bavaglio, ma o chiama qualcuno, o sta delirando.
— Alice!
Qualcosa striscia sul mio collo e sulla testa, come un serpente. Sto andando alla deriva. Non riesco a respirare. Non so se è il freddo, le ferite o il disegno che Luciano mi ha fatto vedere.
Dove sono? Chi sono? Che giorno è?
— Alice!
— Porca miseria, è uno scheletro!
— Preparo i sedativi.
Queste voci… No, non è il 22 luglio, queste voci non le ho sentite quel giorno.
— Mantienilo stabile, Francesco, è la terza volta che sta ripetendo la stessa cosa. Ho paura stia davvero delirando.
— E cosa vuoi fare? Provare a farlo tornare in sé? Non credo funzionerà, Emilia.
Sono due persone. La prima è una donna, la seconda, un uomo; dal suo accento, mi sembra romagnolo. Sono delle voci che non ho mai sentito durante l’incidente e mentre la macchina esplode in lontananza, provo a concentrarmi su di esse.
So che queste immagini sono fatte apposta per farmi rivivere quel momento, per farmi sentire ancora di più in colpa. Sta riuscendo a convincermi che è totalmente colpa mia, nonostante non sia vero. Non è andata così: la macchina che arrivava non ha rispettato la precedenza a destra e non aveva i fari, appunto per non vedere la targa e non poter identificare il veicolo. Non è stato un semplice incidente, è stato un assassinio. L’ha affermato pure la polizia, ho ragione io. Ho ragione e Luciano non mi ha creduto. Non mi ha creduto.
— No, non potrò farlo. Così com’è, senza sedativi non posso fare niente.
Il contadino mi ha messo sul sofà ed è andato a recuperare il corpo di Donatella. È il suo assistente a badare a noi. I soccorsi e i pompieri sono già stati allertati.
— Ma si dibatte!
Fa freddo. Tanto freddo.
— Ecco perché mi ci vuole un colosso come te.
Tanto freddo…
— Povero cristo, chi sa da quanto tempo è qui.
Tremo come non ho mai tremato in vita mia. Fa tanto freddo…
— Si è accanito su di lui.
È lo shock dell’incidente?
— Francesco, questo povero tizio è stato pestato, pensavo fossimo venuti tutti per un attacco memetico, non per un affare di…
Sono i nervi che crollano?
— È la mia prima missione, Francesco, io sono qui per soccorrere gli agenti feriti, non per i memetici!
È il dolore? È la stanchezza?
Dove sono? A casa del contadino ad aspettare i soccorsi o ancora torturato da dei disegni? Chi sono questi due tizi? Non mi ricordo di loro, non erano qui, non esistono. Luciano ha ricominciato…
— Emilia, nel nostro lavoro, sappiamo cosa siamo mandati a fare, ma non sappiamo mai cosa troveremo.
Sento qualcosa nel mio braccio. Una puntura, rapidamente seguita da migliaia di altre. Come se avessi degli aghi in tutto il corpo… migliaia di aghi, nelle braccia, nella testa, negli occhi, nel petto… Disperato, provo ad afferrare qualcosa, per aggrapparmi a una cosa sicura ed esistente.
Per aggrapparmi alla vita.
Le mie dita trovano un tessuto e si aggrappano ad esso come se fosse l’ultimo cavo per non cadere nel vuoto. Ho capito cos’è: sono i pantaloni del "romagnolo", di questo tizio chiamato Francesco. Se l’ho afferrato, significa che è reale. Esiste. Lui ed Emilia non sono delle invenzioni del mio cervello o effetti di un nuovo disegno, forse ho una speranza di essere salvato. Devo… devo provare a communicare. Devo parlare con lui.
Francesco, mi aiuti.
— Emilia, credo che stia provando a comunicare con noi.
Provo a parlare ma non ci riesco. Troppo male, troppo bloccato. Posso solo aggrapparmi ai pantaloni di questo colosso che mi tiene stretto a lui. Emetto un grugnito e sento gli aghi scomparire. Sospiro, senza fiato.
— Ehi, riesce a sentirci?
La mano di una donna mi prende il mento e con l’altra, con cautela, toglie l’adesivo e la palla nella mia bocca. Tossisco, sputando bava e sangue. Sono troppo debole per muovermi, non posso diffendermi. Continua a fare troppo freddo. Se mi addormento, morirò.
— Continua a tenerlo stretto, Francesco.
La benda che mi copre gli occhi viene tolta e una mano mi accarezza la guancia. Sforzandomi, riesco ad aprire un occhio e vedo di fronte a me una giovane donna, con capelli neri e occhi azzurri, che indossa una felpa azzurra. Mi sorride.
— Ce l’abbiamo fatta. Va tutto bene, signore. Mi chiamo Emilia Lombardi, sono medico d’emergenza.
La sua voce è dolce, rassicurante. Il suo sguardo mi fa capire che tutto andrà per il meglio.
— Francesco, ora puoi lasciarlo andare, è calmo.
Un brivido mi impedisce di parlare. Il freddo mi fa tremare i denti e mi fa troppo male. La dottoressa si guarda intorno e trova delle forbici, le cui lame fredde sulla mia pelle tagliano l’adesivo e le cinghie che legano i miei polsi e le mie gambe.
— Gli metto addosso la coperta.
— Sì, aiutami mentre aspettiamo la barella. Fallo sdraiare per terra, prima di tutto, meglio che non rimanga seduto.
Mi lascio manipolare; anche se volessi, non potrei opporre alcuna resistenza, non so nemmeno come comunicare. Il romagnolo prende la coperta sul letto e riesco finalmente a vederlo. Un tizio molto alto e robusto, lunghi capelli neri raccolti in una coda, barba nera fitta. Indossa un'uniforme da carabiniere. Nota che lo sto osservando e mi sorride.
— Va tutto bene, signor Ferri. Sono Francesco Galeazzo, Arma dei Carabinieri.
Come sa il mio nome?
Ma certo… La risposta è così evidente. È carabiniere e qualcuno avrà segnalato la mia scomparsa.
— Agente Porta, va tutto bene?
— Va tutto bene, agente Galeazzo, cerco indizi.
Vedo un tizio con occhiali strani avvicinarsi della scrivania di Luciano e prendere il quaderno nel quale il mio cognato mette i sui disegni che mi rendono pazzo. Estendo la mano, spaventato.
Non deve aprire quel quaderno!
Galeazzo si accorge della mia reazione e verso chisto estendendo la mano.
— Porta! Aspetta!
L'agente con gli occhiali strani si gira verso di me.
— Cosa succede, signor Ferri?
L'agente Porta capisce. Prende il quaderno senza aprirlo e si avvicina a me.
— Va tutto bene, signor Ferri, con questi occhiali non rischio niente.
Non cerco nemmeno di capire. Sento Lombardi telefonare.
— Capitano, sono Emilia. Non abbiamo trovato il sospettato, ma c’è un ostaggio, sicuramente una cavia. Maschio, circa trent’anni, lesioni al collo e alla mascella. Cosciente ma molto debole, non può parlare. L'ho messo sotto sedativo; sembra che abbia subito vari attacchi memetici. Aspetto la barella.
— Alice…
La mia voce è un mormoro. Galeazzo mi avvolge nella coperta. Sono morto di freddo.
— Sua figlia sta bene, è a Trento con i suoi nonni, al ristorante. Arrivano i soccorsi con una barella, signor Ferri; verrà portato all’ospedale di Bolzano, il più vicino.
Realizzo che ha detto una cosa che ho già sentito: cos'è la memetica?
Non ho il tempo di pensarci su. Arriva la barella. Devo calmarmi. Fisso gli occhi verdi di Galeazzo, come un’ancora in questo inferno. Mi parla. Non capisco cosa dice in mezzo a tutto quel fracasso e all’agitazione, ma so che si preoccupa per me. Mi immobilizzano sulla barella, usciamo da casa e il vento caldo mi accoglie, lo sento con piacere tra i miei capelli. È notte, la luna brilla in un cielo senza nuvole. Vengo caricato su un’ambulanza. Le porte si chiudono e cade il silenzio. Sento che sta per esplodermi una violenta emicrania. Non so dove sia la dottoressa Lombardi, ma c’è Galeazzo che mi sorveglia e Porta che guarda i disegni di Luciano, senza togliersi quei bizzarri occhiali.
— Questi sono tutti oltre la Classe XV, alla Divisione di Ricerca Memetica ne saranno contenti.
Ma di cosa parla? Cos'è questa Classe XV, a cosa serve? Cos'è la Divisione di Ricerca Memetica?
Per mio bene, forse sarebbe meglio non cercare di capire…
— L’avete arrestato?
— Il suo rapitore?
— Sì. Si chiama Luciano Marini, è il fratello di mia moglie, morta poco tempo fa. Mi crede responsabile e mi ha…
Riesco a malapena a parlare.
— L’attacco memetico, è questo, giusto? I disegni che fa. Si chiamano agenti memetici.
È più facile parlare con la mascella immobilizzata; mi fa male, ma sembro più comprensibile. Porta si siede.
— Può parlarmene, signor Ferri? Prende il tempo che ci vuole.
Arriva il crollo nervoso. Mi metto a piangere, a singhiozzare e gli racconto come posso l'inferno che ho vissuto. Riesco a malapena a parlare e non posso raccontare nel dettagli quei terribili effetti, il freddo, l'asfissia, la sensazione di bruciare, gli aghi, tutti ricordi, falsi e veri; Luciano che mi ha preso per il culo, che mi ha maltrattato e sequestrato; i miei dubbi sugli assassini di Donatella e di queste persone che hanno cercato di farmi paura e farmi smettere di indagare sulle scomparse dei miei clienti.
— Degli psicologi saranno informati, signor Ferri — mi dice Porta. — Conoscono questi fenomeni, l'aiuteranno e potrà parlare senza essere preso in giro. Può anche parlarmene, se vuole.
— E noi carabinieri — mi dice Galeazzo — continueremo a cercare queste persone e Luciano Marini. Ce ne occupiamo noi, non potrà più farle niente.
Faccio uscire la torta dal forno, perché Aurelia è ancora troppo giovane per farlo senza bruciarsi. Mia figlia è tutta eccitata e posso capirla.
— Spero la torta le piacerà!
Le sorrido.
— Certo che le piacerà, tesoro, è la sua torta preferita.
All’interno dell’appartamento, un ambiente rassicurante, un paio di persone e delle risate. Metto le candele sulla torta e le accendo. Una luce debole illumina la cucina e Aurelia ha un sorriso immenso.
— L’ho fatta io, — dice lei, molto fiera.
— Si, Aurelia, sei tu. Lo diremo ad Alice.
Accarezzo i suoi capelli neri come la notte.
Con la sua nascita, la mia vita ha preso una nuova direzione, più felice e tranquilla. Sono di nuovo l’uomo premuroso e fiero che ero venti anni fa. La fine di un percorso molto difficile.
Dopo diverse settimane di ricovero all’ospedale dell’Asclepio e tanti esami per sapere i danni che mi avevano fatto gli agenti memetici, ho deciso di unirmi alla Fondazione, la stessa organizzazione che aveva provato a farmi paura e che faceva scomparire i miei clienti per far di loro dei Classe D. Mi sono trasferito a Roma con Alice, per dimenticare il Trentino, ormai troppo legato a Luciano e alla morte di Donatella, e mi sono rifatto una vita, tra tristezza ma anche voglia di andare in avanti.
Fu dura. Molto dura. Avevo l’impressione di tradire Donatella quando me ne sono andato. Di sera, mi sentivo da solo, perché sapevo che mia moglie non dormiva vicino a me. Ma nella struttura abitativa del personale del sito Virtus, i miei vicini erano Francesco Galeazzo e la sua famiglia. Sono stati di grande aiuto, degli amici, degli psicologi, quasi una seconda famiglia. È in parte grazie a loro se, un paio di anni dopo, mi sono sentito meglio. In sicurezza, protetto da due colossi che hanno fatto tante cose per me. Francesco si è occupato di me, mentre la sua fidanzata, Silvia, all’epoca capitano della SSM-II, si occupava di Alice come se fosse la sua stessa figlia. Ho finito con l'accettare che la morte di Donatella non è stata colpa mia e che non ce l’avrebbe con me se mi rifacessi una vita. E a poco a poco, tutto è diventato più facile. Ho ripreso fiducia in me. Cinque o sei anni dopo l’incidente, mentre compravo sigarette al bar, ho incontrato Eleonora, che ci lavorava per pagare i suoi studi. Aveva 23 anni e io 39, ma ci siamo fidanzati. L’amore non è una cosa che si spiega.
La relazione tra Alice ed Eleonora è stata complicata: ci è voluto un sacco di tempo per far capire a mia figlia che non la abbandonavo, e che non stavo dimenticando sua madre. Questo "conflitto" si è risolto pochi giorni prima della nascita di Aurelia, quando Eleonora e Alice si sono riappacificate. Il che mi ha tanto sollevato.
Mi chiamo Lorenzo Ferri. Sono sposato con Eleonora da otto anni e abbiamo tre figli: Aurelia, Tommaso e Francesco. Ma sono anche il padre di Alice. Sono un uomo felice e un collega sul quale si può contare. E i miei sforzi sono stati riconosciuti: da tre settimane, sono il nuovo Settimo Sovrintendente, prova che ho lavorato tanto, che ce l’ho fatta. Che sono guarito.
— Papà? Andiamo?
La voce di Aurelia mi tornare alla realtà, nella mia cucina. È ancora più eccitata e i suoi occhi neri sembrano brillare di gioia. La abbraccio, stringendo contro il mio corpo una bambina di otto anni e mezzo che senza saperlo è l’elemento che ha cambiato radicalmente la mia vita, facendomi passare da vittima di un boia pazzo a un essere umano felice, in pace con me stesso.
— Andiamo.
Le luci della stanza si spengono. Aurelia e io usciamo della cucina con la torta.
— Tanti auguri a te… tanti auguri a te…
Il volto di Alice si illumina. La torta al cioccolato è la sua preferita. E oggi ha perfettamente il diritto di volerne una. Oggi, Alice ha 20 anni. È circondata da Eleonora, i Galeazzo e da Tommaso e Francesco. I miei figli. I suoi fratellastri. La abbraccio e una lacrima cade dai miei occhi nei suoi capelli biondi.
Mi chiamo Lorenzo Ferri, ho 50 anni e sono un uomo felice.
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"I Giorni Peggiori della Mia Vita" di Oreobanane e ILARS, dalla SCP Wiki IT. Sorgente: https://fondazionescp.wikidot.com/i-giorni-peggiori-della-mia-vita. Sotto licenza CC-BY-SA 3.0.
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