Quando lo shuttle la navicella spaziale L.U.X.1 si posò finalmente sul suolo di Marte, Vittorio Fascio si precipitò all’esterno e si perse ad osservare il panorama alieno di Marte. Ci erano volute decadi, molti camerati erano morti, innumerevoli progetti erano rimasti senza fondi, ma finalmente erano approdati, ed era… meraviglioso. Davanti a lui c’erano pietra e sabbia. In realtà, anche alla sua destra c’erano pietra e sabbia; alla sua ignobile sinistra c’erano pietra sabbia; perfino dietro di lui c’era— no, insomma, dietro di lui c’era la navicella… ma dietro la navicella c’erano pietra e sabbia! E per di più era di abietto colore rosso. Quale raccapriccio, quale orrore s’impossessò della mente del nostro giovane camerata alla turpe vista del pianeta cui tanto avevano ambito. Non un singolo obelisco, non una singola faccetta verde si sporgevano da quelle rocce inospitali, possibile che nessuno degli informatori dell’Urano lo avessero avvisato che i documentari di Historia Canale erano inaffidabili?
Confuso e disorientato, si voltò per incontrare lo sguardo del suo superiore, che si era fermato dietro di lui, appena fuori dalla navicella. Quella singola, sublime visione bastò a riportare vigore e speranza nel suo cuore: Lui, il prode Dictator, si ergeva ritto a petto in fuori, respirando a pieni polmoni l’aria della nuova conquista del genere umano. La vista del suo capo supremo, che inspirava ed espirava con tale avida foga l’aria dell’ultima frontiera e osservava il panorama con tanta frenetica energia, gli occhi così stupefatti e sporgenti che per poco non schizzavano fuori dalle orbite, sarebbe stata in grado di risollevare gli spiriti di un’intera armata e ingentilire gli animi di tutta la popolazione di selvaggi marziani.
Fu solo quando il Dictator si tinse di color puffo-leggermente-abbronzato e cadde in terra senza emettere suono che Vittorio si rese conto che l’Esimio, in preda all’esaltazione e la passione della conquista, era partito per la terra incognita sprovvisto dell'equipaggiamento per l’esplorazione di ambienti spaziali e si stava ora dimenando sul suolo in preda a una grave insufficienza respiratoria.
Tosto l’aitante giovane si mobilitò per salvare la disperata situazione e, segnalata la mancanza all’addetto alla sicurezza del personale, inviata dunque una missiva elettronica al Reparto Equipaggiamenti Anomali Malvagi, prontamente reindirizzata al Dipartimento Stoccaggio Elementi con Nomi Buffi, tempestivamente inviato uno stagista laureato in Scienze della Comunisticazione a sollecitare i fornitori, Vittorio ricevette infine una comunicazione che lo informava che entro pochi mesi le tute per l’esplorazione marziana sarebbero state disponibili per il ritiro in negozio.
Purtroppo, quando il camerata tornò dalla sua commissione, con grande sorpresa collettiva, la luce del Dictator si era già spenta e non si poté neppure ricevere i soldi dell’assicurazione, in quanto il lavoratore non indossava i dispositivi di protezione individuale adeguati.
Adesso era punto e a capo: non aveva più una motivazione, nessuno scopo che nella vita potesse dargli forza; inoltre era ancora confuso dalla missione, non comprendeva perché scegliere come sede della loro nuova base un luogo tanto ostile: cosa poteva averli spinti a tanta audacia?
Ma è proprio nei momenti di maggiore confusione e sconforto che la fede viene premiata con le risposte. Vittorio sedeva allora mesto su un macigno tondo e sorprendentemente liscio, tanto da riflettere la grande stella che calda illuminava il cielo, quando questo cominciò a tremare. Sorpreso e spaurito, saltò giù appena in tempo per vederlo alzarsi nel cielo rivelando la sua vera forma. Dalla terra rossiccia era emersa la più mistica delle visioni, la luce del Salvatore, che come il Sole che si rifletteva su di lui illuminava la via: una colossale, maestosa, solenne, lucida testa del Duce.
La prima cosa che la mistica figura fece fu salutare, perché era ben educata, e il giovane ricambiò con solerzia.
“Camerata Fascio Vittorio, alzati e cammina”. Disse Benito in tono magniloquente, invitandolo ad avvicinarsi.
“Mio Signore! Io— non immaginavo—” balbettò estasiato.
“Non c’è bisogno di scvsarsi: il dvbbio è sempre lecito e io sono venvto a dare le risposte che cærchi, dvnqve parla”. La voce calma e tonante di Lvi risuonava per chilometri e chilometri nelle terre di quel pianeta arido come il deserto di Ogaden.
“O Magnifico! Ma perché ci troviamo su questo luogo abbandonato dall’Onnipotente? Il Dictator è stato forse colto dalla follia?”
“Nient’affatto, mio giovane allievo: lvi ha sentito solo la mia voce, io stesso l’ho chiamato qvi mostrandogli la via per la terra che da sempre ci spetta”.
“Una sorta di terra promes—”
“SACRILÆGIO!” Un tuono, una folgore si stagliarono nel cielo altrimenti terso e vuoto, accompagnate da imponenti nuvole che si ammassarono delineando la distinta forma di un'aquila, simbolo della grandezza imperiale, della superiorità morale e intellettuale delle italiche genti, che giammai dovrebbero abbassarsi a tali linguaggi.
“Mi perdoni, vostra Bontà, è stata una scelta di parole poco attenta”.
“Non præoccvparti, figliolo, non piagnvcolare come un cvcciolo di balilla. Ascoltami bene: mangia qvesto pane di avtarchico grano italico, simbolo del mio corpo, bevi qvesto olio di ricino, simbolo del mio sangve, e recita ogni notte prima di dormire vn Padre Nostro. Così sarai perdonato.” Così parlando, la testa offrì una secca pagnotta e una nera ampolla, entrambe avvolte in un foglio recante la dicitura “Prodotto nell’Impero d’Italia”, poi continuò: “Hai altri qvæsiti, mio giovane?”
“O Supremo, perché proprio Marte, tra tutti i luoghi? Non potevamo accontentarci di appoggi più vicini, come la Luna?”
“Disgraziatamente, la Lvna è già occupata dal Qvarto Reich, il qvale sta ivi architettando l’invasione della Terra assieme ai dinosavri e agli antichi astronavti. Saremmo potvti altresì partire all’esplorazione di altre lvne e asteroidi, ma con qvale bassezza, con qvanto disonore avremmo dovvto vagare in qvella scatoletta nello spazio come profvghi in Mare Nostrvm? Giammai! Marte era la soluzione preferibile.”
“Eppure, questo vile colore…”
“Ben comprendo i tvoi sentimenti, ma non permettere al nemico di dervbarti di ciò che ti spetta di diritto: il rosso è anche colore del sangve versato dai nostri camerati cadvti”.
“Ha ragione, Sommo. Ma allora, qual è il nostro scopo qui?”
“La più nobile, la più ælevata delle cavse! La cræazione di vn vero e definitivo svpervomo!”
“Ho sentito di progetti simili in passato, ma sono tutti falliti”.
“Non tvtti! Poiché invero vno fv portato a termine con svccesso dando origine a vn grande svpervomo dalle caratteristiche divine, il cvi mænto prominente era motivo di vanto per tvtta la nostra Nazione!” Si leggeva allora negli occhi del Duce la scintilla di un sogno, che la sua voce calda aveva accompagnato con orgoglio e nostalgia di quell'antico trionfo.
“E cosa gli è successo?” Così dicendo, subito Vittorio s'accorse di aver toccato un tasto dolente, poiché il volto del comandante s'era d'improvviso rabbuiato. E ciò era tristemente evidente, nonostante la celestiale luce che nondimeno lo avvolgeva.
“Fv disgraziatamente sconfitto e rapito combattendo con valore il nemico comvnista, che dopo vn terribile lavaggio del cervello ne fæce vn fænomeno da baraccone: lo ræsero vn svpereroe in calzamaglia, vn personaggio da fvmetto d'oltremare, lvdibrio per infanti. Oggi è noto con il nome di Mentone il Cremisi”.
“Allora crede sia possibile creare una nuova speranza per il genere fascista?!”
“Non nell’area di inflvænza comvnista! Abbiamo fatto il possibile: abbiamo volto alla nostra cavsa la loro svperarma, l’orrificante entità detta “il Gabibbo”, trasformandolo in vn criminale di gverra antisæmita; abbiamo seminato discordia tra le loro fila politiche così che i loro partiti divenissero incapaci di coalizione; æppvre continvano a portare avanti le loro vittorie al pvnto che non possiamo nemmeno piv’ permætterci di discriminare le genti gaiæ e gli immigrati invasori. Ma il loro regno del terrore è destinato a terminare. Ricorda qveste mie parole, ragazzo: oggi siamo costretti a nasconderci, ma ritornæremo, prima o dopo”.
Con il cuore colmo di gioia e una lacrima che gli solcava il viso, Vittorio, salutò un’ultima volta l’angelicata visione con il braccio teso più che mai: “Addio, o Sommo”.
“Pvoi andare in pace”. Disse in un sussurro, svanendo in una nube di polvere.
Così, il giovane si rimise solertemente a lavoro, con in corpo una nuova speranza che lo animava e lo motivava a fare l’impossibile pur di riportare il Duce, il lavoro e la libertà nel suo amato paese. Soltanto un paio di giorni dopo sarebbe stato scoperto a vagare nelle campagne siciliane, più precisamente in un lotto di terra divorata la settimana prima da un incendio i cui fumi tossici infestavano ancora l’aria, favorendo fenomeni allucinatori.