Era ormai più di un'ora che la missione proseguiva e la fatica iniziava a farsi sentire, eppure Samuela non poteva che ritenersi privilegiata. Un grigio oceano di pietra si estendeva intorno a lei a perdita d'occhio e non un alito di vento muoveva la polvere depositatasi nel corso degli eoni; avanzava, leggera come una piuma, su quella piana di basalto, pensando ai vulcani ormai spenti, ai fiumi di lava, alle piogge di meteore che avevano scolpito la superficie che calpestava, al punto che quando un sassolino si spostava mosso dal suo piede provava un senso di colpa quasi religioso, per aver turbato un equilibrio infinitamente più antico dell'umanità che lei rappresentava. L'atmosfera di quel luogo (o per meglio dire la sua assenza) le regalava l'opportunità di sperimentare un mondo di silenzio assoluto, insieme magnifico e terrificante, rotto solo dal suo stesso respiro, che appannava ad ogni espirazione il vetro del suo casco. Mare Moscoviense l'avevano chiamato, in onore dei sovietici le cui sonde, sessant'anni fa, avevano fotografato per prime il lato nascosto della Luna; chissà se quegli uomini avevano sognato, allora, di trovarsi un giorno dove Samuela si trovava adesso. Il flusso di pensieri sarebbe andato avanti in eterno, ma la voce del tenente la riportò alla realtà.
"Espero, mi ricevi?"
"Ti ricevo, Stilbonte."
"Si era detto aggiornamenti regolari ogni quarto d'ora."
"Mi dispiace, tenente, ho perso la cognizione del tempo."
Samuela era relativamente nuova all'ambiente militare e alcuni suoi dettami, come la rigida adesione ai protocolli durante le missioni, le risultavano ancora un po' difficili da mettere in pratica; la SSM-XI "Stellae Errantes" era dopotutto una squadra sui generis, composta per lo più da scienziati prestati al mondo delle armi, e lei era stata scelta per le sue competenze da astronoma e astrofisica, non certo per le sue abilità da soldato. Non che fosse una dilettante allo sbaraglio, aveva superato l'addestramento con successo e ricevuto i gradi insieme ai suoi compagni; tuttavia, nel corso di missioni a basso rischio, il suo inconscio tendeva a farle abbassare la guardia e capitava che l'agente Espero si concedesse una pausa, lasciando la dottoressa Samuela Cristoforo libera di far vagare la mente.
"Va bene, ma sii più vigile. Non sappiamo bene con cosa abbiamo a che fare."
Alcune ore prima i satelliti avevano rilevato uno sciame di meteoroidi di piccole dimensioni, entrati poi in rotta di collisione con la superficie lunare. Un evento di per sé non prodigioso, che di norma sarebbe stato subito decensurato e reso noto alle agenzie spaziali ordinarie, se non per il fatto che lo sciame si era difatti materializzato dal nulla, in un punto fino a pochi secondi prima sgombro da corpi celesti. Il Modulo OC2-A, la stazione spaziale orbitante della Fondazione, era quindi entrato in stato d'allerta e, come d'abitudine, la gestione della crisi era stata affidata a membri del personale di stanza appartenenti a diverse branche; i francesi avevano inviato la Sigma-11 a indagare nel punto da cui i meteoroidi sembravano essersi originati, mentre la SSM-XI della Branca Italiana si sarebbe occupata del sopralluogo nella zona d'impatto.
"Ehi, Espero, se proprio ti stai annoiando posso darti il cambio."
"So che non aspetti altro, Pireo, ma per questa volta stai in panchina, mi dispiace."
La zona da perlustrare, ai margini del mare Moscoviense, era stata suddivisa in quattro quadranti: Fetonte e Fainonte si erano diretti in quello di sud-ovest e di sud-est, Samuela si trovava in quello di nord-est e il tenente Reina (aka Stilbonte) aveva preso il quadrante rimanente, portando con sé il rover e un monitor per ricevere le immagini dalle bodycam. A Pireo era invece toccato, con suo grande rammarico, il turno di guardia al lander; quando il Sito Urano aveva iniziato a selezionare possibili piloti spaziali per la neonata SSM-XI, Marzia Galati, fra gli agenti più abili e spericolati che la SSM-VII avesse avuto fra i suoi ranghi, era stata la prima a proporsi per il ruolo. L'inattività, Samuela lo sapeva bene, era la tortura peggiore che potessero infliggerle.
"Ne ho trovato un altro, con questo siamo a sette." intervenne Fetonte.
"Qualche differenza rilevante con gli altri sei?"
"Non direi, tenente. Colore e dimensioni comparabili, circa un metro di diametro, presumibilmente carbonaceo; il cratere è un po' più grande, ma credo dipenda dal terreno. Anche qui c'è la stessa sostanza viscosa che trasuda dalla superficie."
"Me ne preleveresti un altro campione?" lo interruppe Fainonte "Io ho già fatto il pieno, ma averne in più per il laboratorio non sarebbe male."
"Credi che sia biologica?"
"O per lo meno organica, anche se potrò dirvelo solo dopo i test. Di certo mi aspetto qualche sorpresa, hai mai sentito di sassi spaziali ripieni di gelatina?"
"Abbiamo dati a sufficienza." dichiarò il tenente "Voi due potete ritornare al lander. Io mi trattengo ancora un po', voglio provare a prelevare un campione roccioso con la trivella. Espero, tu hai finito?"
"Quasi, ma dubito a questo punto che troverò qualcosa, non sono stata fortunata come voi. Sono a due passi dal cratere Titov, vorrei fare un ultimo tentativo."
"Va bene, quando hai fatto vengo a prenderti con il rover."
"Beh, Espero, in fondo non c'è fretta se tu e Stilbonte volete trattenervi. Siamo letteralmente sulla Luna! Il panorama, il cielo stellato, potrebbe essere romantico…"
"Marzia, vuoi il turno di guardia anche la prossima volta?"
Pireo si cucì la bocca e Samuela soffocò una risata; quando il tenente ti apostrofava col tuo vero nome darsi all'umorismo non era la migliore delle opzioni. Federico Reina aveva trovato meno difficoltà nella transizione da ricercatore a membro di una squadra mobile e prendeva con estrema serietà sia le mansioni da ingegnere che quelle da ufficiale. Il capitano nutriva nel suo secondo una fiducia cieca e, se impegni amministrativi le impedivano di assumere in prima persona il comando delle missioni, sapeva di lasciare i suoi agenti in buone mani. Entrare nella "Stellae Errantes" voleva dire passare mesi a stretto contatto negli spazi limitati del Modulo OC2-A, per cui il capitano Gemelli ci teneva a inculcare ai suoi sottoposti il concetto di cameratismo; incomprensioni legate a peculiarità individuali potevano ogni tanto turbare la pacifica convivenza, ma ciascuno sapeva di poter affidare agli altri cinque la sua stessa vita.
"Campione caricato. Espero, sono pronto quando vuoi, a quanto vedo dal monitor non mi pare ci siano altre istanze nei tuoi dintorni. Tu vedi qualcosa?"
"No, niente nemmeno qui, anche se…" il bordo del cratere Titov, un'immensa depressione dal diametro di quasi trenta chilometri, si trovava proprio di fronte a lei, a poche centinaia di metri di distanza. Il punto di confine con la distesa pianeggiante non variava di molto rispetto a ciò che Samuela aveva visto fino a quel momento, se non per un dettaglio, che appariva decisamente fuori posto. Il terreno, per il resto del tutto privo di asperità, era attraversato da un solco ampio e profondo, una sorta di canyon in miniatura che sembrava esser stato scavato da un gigantesco aratro e che si estendeva fino ai margini del cratere. L'agente percorse la distanza che la separava dalla voragine, costeggiando quella fenditura, per poi affacciarsi oltre il bordo; il pendio scosceso che conduceva verso le profondità del Titov si interrompeva quasi subito con una scarpata, una sorta di terrazzamento naturale. A catturare immediatamente la sua attenzione, però, non fu tanto la piattaforma rocciosa, quanto ciò che ospitava.
"Dimenticate quello che ho detto sulla mia fortuna."
"Stilbonte, lo vedi anche tu?"
"Lo vedo, Espero, ottima intuizione. Sta ferma dove sei, sto arrivando."
In fondo alla scarpata giaceva l'oggetto il cui schianto doveva aver generato il canale di pietra; basandosi sulle descrizioni che aveva ascoltato attraverso l'auricolare, Samuela lo identificò subito come uno dei meteoroidi, solo almeno dieci volte più grande. Era una massa rocciosa approssimativamente sferica di colore grigio-blu, dalla superficie irregolare come quella di una noce; dalle tante crepe che la ricoprivano fuoriusciva una resina giallastra, così abbondante da accumularsi in pozzanghere sul terreno.
"Espero, Dio ti benedica!" la voce di Fainonte la fece sussultare, evidentemente lui e Fetonte avevano raggiunto Pireo e stavano osservando le immagini della sua bodycam dal monitor della navicella. La vista di ciò che aveva scoperto, che portava con sé l'implicazione di una montagna di nuovi dati da analizzare, doveva essere particolarmente gradita all'astrobiologo.
La scarpata, osservò Samuela, era raggiungibile con relativa facilità tramite una discesa non troppo ripida ed era ampia a sufficienza da permettere a più persone di starci sopra senza il rischio di precipitare. Il rover, già di per sé non velocissimo, era con ogni probabilità appesantito dal campione di roccia e ci sarebbero voluti diversi minuti prima che Stilbonte la raggiungesse. La curiosità scientifica, una volta stuzzicata, era un sentimento per lei piuttosto difficile da tenere a bada.
"Tenente, chiedo il permesso di avvicinarmi."
"Non sappiamo se sia inerte come gli altri, le dimensioni maggiori potrebbero implicare proprietà differenti. Sarebbe più prudente se aspettassimo di essere lì entrambi, prima di ingaggiare."
"Può darsi, ma la spiegazione più semplice è che si tratti solo della porzione più grande della massa che ha dato origine allo sciame. Potrei raccogliere già qualche dato, ci risparmierebbe del tempo prezioso."
Ci fu qualche secondo di dubbioso silenzio, prima di ricevere la risposta.
"Ok, hai l'autorizzazione, ma al primo segno di attività anomala voglio che ti allontani immediatamente."
"Fortunella…" mormorò Pireo fra l'ironico e il risentito.
Samuela, aiutata dalla gravità lunare, si lasciò agilmente scivolare lungo il pendio, per poi atterrare di fronte al meteoroide. Era circa due volte più alto di lei e, per quanto bruciasse ancora di curiosità, la scienziata realizzò di sentirsi in soggezione. La stessa sacralità che la sua mente aveva attribuito poco prima al panorama lunare si adattava ancor di più a quel monolito dallo spazio profondo, portatore di chissà quali segreti. Si stupì delle reazioni fisiologiche sperimentabili dal corpo umano al cospetto di un oggetto simile, capace di farti contemplare un vero e proprio frammento di infinito: i suoi muscoli si erano tesi e irrigiditi per istinto, come per prepararsi all'eventualità che quell'ente fosse foriero di qualche ignota minaccia cosmica; una gran quantità di sangue le era affluita alle tempie, generando un ritmo pulsatile che l'assordava e la spingeva in una sorta di trance ipnotica.
"Luna chiama Espero. Va tutto bene?"
Idiota! Quanto era stata lì imbambolata? Uno? Due minuti? Odiava farsi cogliere in fallo ed era già la seconda volta. Era sempre stata quella la sua sfida personale, una continua tensione fra un'indole meditativa, che le imponeva delle pause di riflessione, e la volontà di non restare mai con le mani in mano, per timore di non apparire competente. A volte si sentiva come pungolata da decine di paia di occhi, quelli dei suoi colleghi, dei suoi superiori e dei suoi familiari, sguardi severi al cospetto dei quali sentiva di doversi guadagnare la propria aura di impeccabilità; era ciò che l'aveva sempre spinta verso l'eccellenza, ma era anche maledettamente estenuante. Fece un respiro profondo e si impose un ritorno alla calma.
"A meraviglia, Fetonte. Stavo solo decidendo dove mettere le mani per prime, tutto qui."
Estrasse la piccozza dalla cintura e si mise all'opera, raccogliendo alcuni grammi di polvere rocciosa in un contenitore; dopodiché si chinò su una delle pozzanghere per prelevare un campione di gelatina. Le orecchie le pulsavano ancora, ma il tam-tam dei vasi sanguigni e l'ansimare del suo fiato non erano più gli unici suoni captati dal suo udito; un ronzio appena percettibile faceva da rumore di fondo, ma più che dalla sua testa sembrava provenire da una fonte esterna. I peli sulla nuca le si rizzarono all'improvviso e si voltò di scatto verso il meteoroide; no, era fisicamente impossibile in assenza di atmosfera. Semplice intuito? Qualche anomalia? In quel momento non le importava, sapeva solo che qualcosa stava cercando di richiamare la sua attenzione; si sollevò da terra e si mosse a passo lento intorno al corpo celeste, fino ad arrivare sul lato opposto a dove era atterrata. La sorpresa per ciò che trovò le provocò un tuffo al cuore.
"Che cazzo è quello?" Fainonte aveva abbandonato in definitiva ogni traccia di compostezza.
"Wow!" eruppe entusiasta Pireo.
Una delle crepe era più ampia e profonda delle altre, andando a formare una nicchia verticale, completamente occupata dalla sostanza gelatinosa; quest'ultima era però molto più densa, tanto che restava immobile senza colare sul terreno, ed anche più trasparente, permettendo di osservare ciò che conteneva. Da un corpo rotondeggiante, coperto da una specie di carapace, originavano delle appendici, anch'esse rivestite di placche cornee: tre, due ai lati e una centrale, sembravano essere prensili, terminando ciascuna con tre tozze estensioni simili a dita, mentre le altre erano disposte in maniera asimmetrica e consistevano in un tentacolo dotato di aculeo, una chela dai margini seghettati ed una protuberanza sacciforme che finiva con un orifizio; poco al di sopra del braccio centrale si trovava una serie di vibrisse, disposte intorno a un grosso opale traslucido, che pulsava a intervalli regolari. La creatura dormiente, aliena nel senso più puro del termine, era una visione bellissima quanto straniante.
"Espero, ripiega sul bordo del cratere. Sarò lì fra poco, non corriamo rischi inutili."
Avvenne tutto nell'arco di pochi istanti; non avrebbe neanche saputo dire quale impulso primordiale si fosse impossessato di lei per farla reagire così in fretta. Una sottile vibrazione attraversò la gelatina per una frazione di secondo, prima che questa si sfaldasse e si liquefacesse; la creatura atterrò sulle tre zampe e Samuela schivò l'aculeo per un soffio, per poi spararle col fucile, che aveva prontamente estratto dalla tracolla. Le grida dei suoi compagni la raggiunsero dall'auricolare, ma il suo cervello le filtrò in automatico; doveva solo pensare a uscire viva da lì. Si precipitò verso il pendio, ma fece appena in tempo a eludere un secondo fendente dell'alieno, che sembrava non esser stato nemmeno scalfito dal proiettile. Esplose un altro colpo, con l'unico risultato di farlo indietreggiare di pochi passi, e attivò i retrorazzi; tre dita muscolose le si serrarono intorno alla caviglia, ritrascinandola verso il basso con violenza, mentre altre tre le strapparono via l'arma di mano. La creatura la sovrastava, tenendole un polso e una caviglia inchiodati al suolo, le vibrisse sul suo "volto" che fremevano freneticamente; la chela si schiuse, rivelando una cavità coperta di spine acuminate. Samuela usò l'unico braccio libero per raggiungere a tentoni la cintura; la lama della piccozza penetrò nell'organo pulsatile dell'extraterrestre, che mollò la presa e rovinò all'indietro, in preda a evidente dolore, roteando le appendici in maniera scomposta. L'aculeo impattò contro il casco, mandando il vetro in frantumi e sfiorandole la guancia; d'istinto serrò le palpebre e trattenne il fiato. L'unica barriera che la separava dal gelido vuoto lunare era saltata e questo l'avviluppò in tutta la sua letalità, rubandole il respiro; attimi di silenziosa angoscia si susseguirono con atroce lentezza, poi perse conoscenza.
Sito Urano, sala di controllo del telescopio UT-02, tre anni prima.
"Ehilà, disturbo?"
Samuela distolse lo sguardo dai monitor, voltandosi verso l'ingresso della stanza, e un sorriso a trentadue denti le si materializzò istintivamente in faccia.
"Sì, ma posso sopravvivere. Entra pure."
"Ho staccato mezz'ora fa, ho fatto un salto nell'area ristoro e ho pensato che una certa astrofisica avrebbe gradito del caffè per sopravvivere al turno di notte."
"Hai pensato benissimo, sei la mia salvezza."
Le porse una tazza fumante, dopodiché afferrò la sedia più vicina e prese posto accanto a lei.
"Che notizie ci porti dallo spazio?"
"Nulla di troppo eccitante, temo, normale monitoraggio del sistema solare interno. Stavo giusto dando un'occhiata a Venere."
"Qualche invasione di venusiani alle porte di cui preoccuparmi?"
"Al momento no, ma ti prometto che in caso sarai la prima persona a saperlo." mandò giù un sorso dalla tazza, sentendosi subito rinvigorita, per poi rivoltarsi verso il monitor. Venere non le appariva che come un placido tondino luminoso, ma da addetta ai lavori sapeva bene che la situazione sulla sua superficie era tutt'altro che tranquilla: l'atmosfera molto più densa di quella terrestre, solcata da nubi acide di anidride solforosa, lo rendeva il pianeta più caldo del sistema solare, con temperature prossime ai cinquecento gradi; non una goccia d'acqua poteva esistere sulla sua arida crosta, cosparsa di vulcani e schiacciata da una pressione che era quasi cento volte quella sulla Terra. Un vero e proprio inferno, eppure gli antichi l'avevano sempre guardato con un occhio di riguardo, accostandolo a divinità associate a concetti come amore e fertilità; prima che adottasse il nome della dea romana della bellezza, però, per i greci era stato Espero: la stella della sera, l'astro più luminoso.
"Mi sa proprio che il caffè non era abbastanza forte." quel commento la sottrasse al suo pensoso torpore e, come era d'abitudine, fu subito colta dall'imbarazzo.
"Io… sono solo molto stanca, ti chiedo scusa."
"Ehi, stavo solo scherzando, non serve che ti scusi. Lo sai che considero un onore vedere quei tuoi ingranaggi all'opera." adorava come fosse sempre in grado di dire la cosa giusta per rincuorarla, senza fra l'altro rinunciare a un briciolo del suo senso dell'umorismo. Purtroppo nemmeno la sua presenza benefica riusciva ad evitarle di fare brutti pensieri su se stessa, ma da quando stavano insieme gran parte delle tensioni accumulate negli anni parevano esserle scivolate via di dosso e i momenti no tendevano a risolversi molto più in fretta.
"Dunque… Venere eh? Chissà perché la gente parla sempre e solo di Marte. Vorrei saperne di più."
"Volentieri, ma non rischio di annoiarti?"
"Scherzi vero? Una serata sotto le stelle, sorseggiando una bevanda calda assieme alla mia scienziata preferita, pronta a svelarmi i segreti del cosmo… cosa c'è di meglio? E poi posso sempre ricambiare il favore, se ti venisse qualche curiosità di ingegneria."
Si chinò per raggiungere le sue labbra, ma Samuela si ritirò di scatto, per poi guardarsi intorno allarmata.
"No, non qui! Qualcuno potrebbe vederci."
Si pentì di essere stata così brusca; non voleva che pensasse che si vergognava della loro relazione, sebbene ci fosse, ad essere sinceri, una buona dose di vergogna a guidare i suoi comportamenti. Un malriposto senso di pudore, scomoda eredità del suo retaggio familiare, le impediva di affrontare con naturalezza una cosa tanto ordinaria come un coinvolgimento amoroso; anche in questo era migliorata, ma che si sapesse di loro sul posto di lavoro era uno dei tabù che non si sentiva ancora pronta a infrangere. Corse ai ripari, per paura che potesse offendersi, avanzando un'offerta per mostrarsi più disponibile.
"Stacco alle sei. Vuoi venire da me a fare colazione? Domani ho il giorno libero, se ti prendi un giorno di permesso potremmo…" una mano si poggiò sulla sua spalla, esercitando una stretta salda, ma gentile; era l'unico atto di tenerezza che potessero permettersi in quelle circostanze, ma ebbe istantaneamente il potere di confortarla.
"Non devi mai scusarti per come sei fatta, né con gli altri, né tantomeno con me, intesi? Non ti vorrei in nessun altro modo." la mano si sollevò, lasciando un vuoto in senso tanto letterale quanto metaforico, ma dagli sguardi che si scambiarono Samuela capì che non aveva nulla da temere; certo, avevano ancora tanta strada da fare, ma quello che c'era fra loro non poteva essere guastato dal risentimento e dal rancore. Quel rapporto aveva tirato fuori il meglio di lei, donandole una serenità che non pensava potesse appartenerle, e non ci avrebbe rinunciato così facilmente.
"Ti lascio lavorare adesso. Oh, e finisci il caffè, per favore; ti voglio bella sveglia domattina, mi devi ancora una lezione di astronomia."
Alcuni sostengono che una mente incosciente, a pochi attimi dall'estinguersi per sempre, sia capace di espandere la durata di quella manciata di secondi per un tempo spropositato, dando a un moribondo l'opportunità di rivivere la propria intera esistenza; si tratta di una delle tante dicerie su quel momento di estrema precarietà che separa la vita dalla non vita, ma, almeno per Samuela, questa particolare diceria si era rivelata falsa. Non era tutto il suo vissuto ad esserle passato davanti agli occhi, bensì un singolo ricordo: quella sera nella stanza del telescopio. Perché proprio quello, fra i tanti che riguardavano il loro passato insieme, restava un mistero, spiegabile forse come nient'altro che un imperscrutabile scherzo giocato dal suo inconscio.
Samuela aprì gli occhi, ma li richiuse immediatamente, accecata da quelle che il suo cervello fin troppo razionale si rifiutò di identificare come le luci del paradiso. Le ci volle un po' per orientarsi, ma, una volta che gli occhi si furono abituati alla luce, realizzò di trovarsi distesa su un morbido letto, in uno dei locali dell'ospedale del Modulo OC2-A.
"Ben svegliata, hai dormito quasi nove ore."
Si sollevò a fatica e i lividi lasciati dalla sua scazzottata extraterrestre si fecero subito sentire. Fetonte era seduto accanto al suo letto, con una cartella clinica in mano ed indosso un camice bianco, sul cui taschino era appuntato un tesserino che recitava: «Dr. Elio Carracci, U.O. di Medicina aerospaziale».
"Ci hai fatto prendere un colpo, sai? Quando sei svenuta abbiamo temuto che i sistemi di sicurezza della tuta avessero fatto cilecca. Evidentemente il gap richiesto per l'attivazione, unito allo sforzo fisico appena sostenuto, sono bastati per mandarti KO. Lo shock e la paura hanno fatto il resto."
Le tute spaziali in dotazione al Modulo OC2-A erano un capolavoro di ingegneria biomeccanica, avanti anni luce rispetto a quelle comuni: relativamente leggere, con un'elevata mobilità articolare e provviste di propulsori per spostarsi nel vuoto con ampi margini di manovrabilità. Il team di sviluppo del Vulcano, di cui Federico aveva fatto parte, aveva inoltre prestato particolare cura al sistema di supporto vitale; dei sensori monitoravano istante per istante il microambiente della tuta e i parametri fisiologici dell'astronauta e, in caso di danni al vetro, una calotta ausiliaria provvedeva a ri-isolare il casco dall'esterno in pochi secondi.
"Espero!" Marzia attraversò di corsa la distanza che separava la porta della stanza dal suo letto, per poi stritolarla in un abbraccio che non venne accolto con piacere dal suo corpo indolenzito.
"Ehi, Pireo, modera l'entusiasmo. Anche se quel coso non l'ha fatta fuori, tu sei ancora in tempo per darle il colpo di grazia."
"Sei stata incredibile!" proseguì Marzia ignorando il commento "Quel granchio spaziale ti aveva messo alle corde, ma tu gli hai dato il ben servito. Per la stazione non si parla d'altro, ormai sei una celebrità."
La consapevolezza di quanto avvenuto la travolse all'improvviso come un treno. Aveva lottato contro una creatura aliena e ne era uscita viva e vittoriosa! Era stata l'esperienza più terrificante della sua vita ed era probabile che quel mostro sarebbe d'ora in avanti venuto a farle visita nei suoi incubi, ma l'aver scoperto di possedere un simile sangue freddo la elettrizzava. Con il graduale ritorno della sua prontezza mentale, mille domande iniziarono a balenargli in testa.
"Che ne è stato dell'alieno?"
"Stecchito a quanto pare." le rispose Elio "Quando siamo partiti ci siamo lasciati indietro il cadavere, oltre che il campione di roccia; Stilbonte lo ha gettato giù dal rover non appena sei stata attaccata, non voleva avere dietro nulla che ci rallentasse. La priorità era ricoverarti il prima possibile."
"Hanno inviato la ढ-3 a prelevare tutto." aggiunse Marzia "Livigni non era molto contento, teme che l'Urano e la branca possano perdere la precedenza per gli studi."
"Che provino a fermare Fainonte." ridacchiò Elio "Credo che si incatenerebbe alla porta del laboratorio."
La soddisfazione venne contaminata dal senso di colpa; se fosse stata più cauta avrebbero potuto salvare capra e cavoli e il suo incidente non avrebbe rischiato di danneggiare la branca. Scacciò quei pensieri e pose la seconda domanda che le premeva di più.
"E la Sigma-11? Hanno scoperto qualcosa?"
"Hanno setacciato l'area e inviato una manciata di dati; se non ricordo male si è parlato di… tracce di materia esotica a densità negativa o qualcosa del genere. Non ho le competenze per pretendere di averci capito granché."
Un wormhole! Un maledetto wormhole! Ed uno attraversabile per giunta, se le interpretazioni di Morris e Thorne erano corrette. L'ipotetica esistenza dei ponti di Einstein-Rosen era fra le questioni della fisica teorica che l'avevano sempre affascinata di più, fin dai tempi dell'università; fornirle di punto in bianco delle evidenze empiriche era il regalo più bello che potessero farle e meditò di districarsi dalle lenzuola e precipitarsi a chiedere che le fornissero i dati. I dolori che la affliggevano da capo a piedi, però, erano di un altro avviso; poco male, poteva sempre chiedere a qualcuno di stamparglieli…
"Elio, ti avevo detto di chiamarmi non appena si fosse svegliata." Federico Reina fece il suo ingresso nella stanza, il disappunto nella voce che mal si conciliava con l'espressione serena sul suo viso; vederla sana e salva, di nuovo nel pieno delle sue facoltà, doveva essere per l'ingegnere un notevole sollievo.
"Salve, tenente" lo salutò Samuela, riservandogli un sorriso subito ricambiato.
"Potete lasciarci soli, per favore?" i due agenti ottemperarono alla richiesta e Federico prese posto accanto al letto.
Samuela non potè fare a meno di notare che, se si escludeva Fainonte, verosimilmente nel bel mezzo di qualche analisi di laboratorio, mancava solo una persona all'appello.
"Dov'è il capitano?"
"In riunione con la Sovrintendenza, stanno discutendo su quello che è successo. Gira voce che possano esserci delle… conseguenze; non chiedermi di più."
"Oh…"
"Sono fiero di te. So che hai sempre avuto dei dubbi sul fatto di meritare un posto nella squadra, ma quello che hai affrontato oggi dovrebbe averti dato la risposta che cercavi." quelle lodi inaspettate la riempirono di imbarazzo, ma non fece in tempo a schernirsi che subito Federico proseguì. "Quanto a me invece… ti devo delle scuse, non avrei mai e poi mai dovuto mandarti laggiù da sola. Quando siamo in missione la vostra sicurezza è una mia responsabilità, se ti fosse successo qualcosa io…"
Federico si rabbuiò, piegato sotto il peso di colpe che, almeno secondo Samuela, non gli appartenevano; lei reagì d'istinto, poggiandogli una mano sulla spalla, esercitando una stretta salda, ma gentile, per consolarlo. L'ingegnere abbassò lo sguardo, per poi parlare col tono di chi pareva essersi tenuto qualcosa dentro per molto tempo.
"Mi dispiace per come è finita, meritavi di meglio."
Samuela sapeva bene che non era più dell'incidente che si stava parlando. Trovarsi in quella stazione era fra le cose migliori che le fossero mai capitate; se lo avesse raccontato alla se stessa di una volta, una bambina con lo sguardo sempre puntato verso il cielo, probabilmente non le avrebbe mai creduto. Ma a cosa, anzi a chi, aveva dovuto rinunciare per essere lì? Al danno, poi, si aggiungeva una crudele beffa: la persona dalla quale era stata costretta a "separarsi", l'unica da cui si fosse sentita non solo amata, ma compresa, si trovava lassù con lei ed era un membro della sua squadra. Guardò Federico negli occhi e decise di prendersi una pausa dalla sceneggiata che portava avanti giorno dopo giorno, concedendosi un momento di vulnerabilità; raggiunse timidamente la sua mano e la strinse, alla ricerca di un conforto che lui non le avrebbe mai potuto dare.
Sito Urano, ufficio del vicedirettore Gianluca Livigni, due anni prima. Samuela era al settimo cielo: la Sezione Astronomica ed Extraplanetaria aveva terminato le selezioni e lei era in cima alla lista dei nomi papabili per un posto nella SSM-XI. Dagli esami medici e psicologici, i cui risultati erano stati resi noti quella mattina, risultava idonea a intraprendere il programma di addestramento; la convocazione da parte del vicedirettore non poteva che essere un buon segno.
"Dottoressa Cristoforo, prego, si sieda."
Fremeva leggermente, per l'eccitazione più che per timore. Dopo quel colloquio, ne era sicura, la attendevano mesi di estenuanti esercitazioni in compagnia degli altri candidati, durante i quali avrebbe anche imparato a imbracciare le armi, ma ne sarebbe valsa la pena per ogni goccia di sudore versato. Anni e anni di sacrifici l'avevano infine condotta a destinazione e il suo petto era come scaldato da una sensazione per lei del tutto nuova: la consapevolezza di trovarsi finalmente al proprio posto, soddisfatta di se stessa, senza più l'opprimente necessità di dover correre dietro a un nuovo obiettivo da perseguire. C'era anche un altro motivo, inoltre, per essere tanto allegra, uno più venale; sapeva che anche le selezioni fra gli ingegneri si erano concluse e che nel viaggio che la attendeva non sarebbe stata sola.
"Lei è stata scelta fra tanti ricercatori che si erano proposti per il ruolo. Non serve che le dica quale grande onore questo sia. Gli onori, però, comportano anche delle responsabilità."
"Ne sono consapevole, dottor Livigni. Mi creda, non intendo deludere…"
"È al corrente della politica della Fondazione sulle relazioni sul posto di lavoro?"
Samuela si sentì raggelare il sangue; curioso come una semplice domanda sia in grado di spazzare via all'istante ogni traccia di gioia.
"No? All'ULIS non gliene hanno parlato? Lasci che la illumini allora. In generale non sono considerate una buona idea, ma non sono espressamente vietate finché non si presenta l'eventualità di un conflitto di interessi. Si può tollerare che una ricercatrice frequenti un membro di un'altra sezione, ma un ufficiale ed un agente della stessa squadra mobile… beh, capirà che le cose si fanno complicate."
"Io… non capisco perché mi sta dicendo queste cose."
"Dottoressa, la prego, non perda il mio e il suo tempo tentando di negare. La Fondazione monitora gruppi di interesse ostili come se niente fosse. Quanto crede che sia difficile fare lo stesso con i suoi dipendenti?"
Livigni si prese qualche secondo per fissarla negli occhi, in attesa di una reazione che non arrivò mai; se c'era un talento che Samuela aveva padroneggiato nel corso degli anni era quello di riuscire a mostrarsi inattaccabile, mascherando l'effetto che alcune parole particolarmente dure potevano avere sul suo stato d'animo. Visti i trascorsi, aveva ormai imparato quanto ciò fosse non soltanto utile, ma essenziale per la sua stessa sopravvivenza.
"Samuela, lei è una brillante ricercatrice, ma non pensi che questo sia sufficiente a garantirle il posto. La Branca Italiana ha investito tanto in questo progetto e non parlo solo di risorse economiche; c'è qualcosa di molto più importante che stiamo mettendo in gioco ed è la nostra credibilità. Se scommettiamo su di lei per rappresentarci, ci si aspetta che ricambi la fiducia riposta nei suoi confronti facendo il possibile per non metterci in imbarazzo."
Una lode priva di entusiasmo, seguita da una scelta di parole studiata ad arte per provocarle vergogna e farle sentire la coscienza sporca, la sottile minaccia di portarle via qualcosa che in cuor suo sapeva di meritare; una formula che le era fin troppo familiare, al punto che le parve quasi di intravedere i lineamenti di suo padre nel volto freddo e calcolatore del vicedirettore. Era quella l'origine di tutto: ogni senso di colpa che la attanagliava, ogni pretesa di irreprensibilità che si era data, tutto era partito da quella conversazione avuta coi genitori da adolescente. Pose, con il tono di voce più neutro di cui era capace, una domanda della quale poteva già intuire la risposta.
"Cosa volete che faccia?"
"Le dico cosa non vogliamo: che lei sprechi il suo potenziale. Sarebbe un peccato rinunciare a una simile opportunità per quella che, in fondo, potrebbe essere null'altro che un'infatuazione passeggera, un semplice diversivo a cui ha attribuito più valore di quanto ne abbia effettivamente; questo vale sia per lei che per… l'altra parte coinvolta. Ci serve che voi dichiariate ufficialmente, davanti ad una commissione della SRE-M, che non intendete proseguire oltre la vostra relazione. In caso contrario, almeno una persona dovrà ritirare la propria domanda d'ammissione."
Le analogie con la sua adolescenza si palesavano ora in maniera a dir poco impietosa: parole vuote, ma cariche di paternalismo, sui sacrifici fatti per sostenerla nel corso degli anni, sacrifici da ripagare evitando di imbarazzare la famiglia con le sue "scelte di vita", con la promessa di tagliarle i fondi, costringendola a dire addio alla facoltà di Astrofisica, se non si fosse imposta un maggiore autocontrollo. Certo, qui era di politiche aziendali che si parlava, ma non riusciva a non cogliere, negli occhi e nel tono di Livigni, la soddisfazione di mettere la parola fine a qualcosa che lui giudicava sbagliato e innaturale.
"E nel caso se lo stia chiedendo…. sì, ho già avuto la stessa conversazione con il capitano Gemelli. La lascio andare adesso, immagino che voi due abbiate molto di cui discutere."
Era stato sciocco non pensarci, col senno di poi era dolorosamente ovvio che, nel momento in cui erano state entrambe selezionate, sarebbero state costrette a rinunciare l'una all'altra. Forse la gioia per la possibilità di coronare il sogno di una vita, quello di vedere le stelle da vicino, aveva offuscato il loro giudizio, anche se ormai Samuela sospettava che Aurora non fosse stata altrettanto ingenua e che avesse taciuto per godersi in pace il loro ultimo periodo come coppia. Una laurea in ingegneria aerospaziale, un background militare, punteggi sopra la media in ogni test fisico e psicologico, esperienza al comando come capitano della SPeV-I dell'Urano; nessuno più di Aurora Gemelli meritava di guidare la SSM-XI e, se fosse diventata una zavorra, Samuela non se lo sarebbe mai perdonato. La conversazione era stata civile e pacata, ma non per questo meno straziante; nessuna delle due aveva voluto che l'altra si tirasse indietro e, se anche una l'avesse fatto, migliaia di chilometri le avrebbero comunque tenute separate. Dichiarare il falso e continuare la relazione di nascosto era fuori discussione, sia per ragioni di etica professionale che per la certezza che ogni loro passo sarebbe stato monitorato con attenzione. Iniziò quindi il calvario: i mesi al campo di addestramento erano stati quanto di più duro avesse mai affrontato, ma i lividi coi quali si trascinava ogni sera nella branda erano poca cosa rispetto alla tortura di averla lì, a portata di mano, senza averla per davvero; mangiare, dormire, allenarsi, andare in missione insieme, ma costrette sempre a interagire attraverso un velo di gelida professionalità.
Dopo un paio di giorni, Samuela si era ormai ripresa quasi del tutto e, lasciato il suo letto, si aggirava pensosa per gli immacolati corridoi del Modulo OC2-A. Perché Aurora non era nemmeno venuta a trovarla? Capiva benissimo la necessità di mantenere le apparenze, per non dare adito a insinuazioni, ma che un capitano mostrasse interesse per una sua agente coinvolta in un incidente quasi mortale non sarebbe apparso strano a nessuno. Non pretendeva che si precipitasse a piangere al suo capezzale, ma ostentare una simile indifferenza le sembrava un'inutile esagerazione e le faceva chiedere se per Aurora fosse in effetti stato difficile come lo era stato per lei. Un'infatuazione passeggera, un semplice diversivo… no, non era sano fare pensieri simili; se anche davvero ogni traccia di affetto fosse sparita nel cuore del capitano, tanto meglio, avrebbe facilitato le cose. Si ritrovò a un certo punto davanti all’ingresso del laboratorio di astrobiologia; una dozzina di individui in camice bianco si affaccendava fra monitor, microscopi, terrari e piastre di Petri, ma uno di loro interruppe all'istante ciò che stava facendo per accogliere la nuova arrivata.
"Samu, che bello vederti! Ero venuto da te quando eri ancora nel mondo dei sogni. Ho chiesto ad Elio di tenermi aggiornato sulle tue condizioni, scusami se non c'ero quando ti sei svegliata."
"Non dirlo nemmeno, tanto sapevo dove trovarti." Fainonte aveva imparato come lei ad adattarsi alla vita da agente, ma sempre come lei si sentiva nel suo elemento quando vestiva i panni del ricercatore; Giovanni Oliviero era forse anzi un po' troppo zelante e la sua tendenza a pretendere che gli spazi del laboratorio fossero gestiti in un certo modo lo rendeva famigerato fra i colleghi biologi di tutte le branche.
"Avete scoperto qualcosa su quello strano fluido?"
"Se abbiamo scoperto qualcosa?" la guidò verso un ripiano, che ospitava una fila di provette piene della stessa sostanza gialla e viscosa "L'analisi chimico-fisica è stata insieme sorprendente e deludente, di base non è che un concentrato di ioni e molecole in fase acquosa: idrocarburi, composti azotati, fosfati, zolfo, cationi e così via. Ciò che è davvero interessante è la matrice viscoelastica; non abbiamo ancora la più pallida di cosa sia, ma ha una resistenza termica e meccanica fuori scala. Atipico, ma abbiamo incontrato di meglio, dico bene? Lo pensavo anch'io, finché non abbiamo iniziato a testarne la bioattività."
Giovanni additò un'immagine su un monitor vicino, che mostrava una serie di piccole macchie di colore violaceo in campo azzurro, molto simili a grappoli d'uva.
"Staphylococcus epidermidis. Questo ceppo non era messo benissimo; era reduce da prove di sensibilità antibiotica e il terreno di coltura è piuttosto vecchio, per cui abbiamo pensato di usarlo per il test prima di sbarazzarcene. Abbiamo inoculato pochi ml di sostanza e… dai un'occhiata a quel microscopio."
La microbiologia non era il suo campo, ma non serviva essere un'esperta per rimanere stupita da ciò che vide attraverso gli oculari: i grappoli erano considerevolmente più grandi, tanto che molti iniziavano a sfiorarsi e a fondersi fra loro; un alone giallastro semitrasparente circondava le colonie batteriche.
"È lo stesso ceppo? Sul serio?"
"Abbiamo provato con dosi sempre più alte di antibiotico, ma è stato come versare acqua fresca. Li stiamo anche tenendo a stecchetto, eppure riescono a proliferare senza problemi, come se fossero diventati molto più efficienti nell'assorbire i pochi nutrienti rimasti. E non hai ancora visto niente." si spostarono vicino a un acquario, dentro il quale nuotava un banco di variopinti pesci tropicali; Giovanni estrasse da un frigorifero una provetta, etichettata soltanto con una lettera e un numero: E-15.
"Questo è un campione della neurotossina di SCP-019-IT, per gentile concessione del Sito Nettuno." aprì la provetta con estrema cura e mise alcune gocce con una pipetta all'interno dell'acquario; ci vollero pochi secondi perché i pesci, prima tanto armoniosi, iniziassero a contorcersi in preda alle convulsioni, gli spasmi disperati delle pinne ad attestare una tacita, ma profonda agonia. Giovanni prese quindi un campione della misteriosa sostanza e ne versò nell’acquario una piccola parte, che si dissolse quasi subito. Dopo circa un minuto metà dei pesci era caduta vittima del veleno e galleggiava penosamente sulla superficie, ma quelli rimanenti cessarono di divincolarsi e ripresero a nuotare e cibarsi come se nulla fosse successo.
"Credo che tu abbia afferrato il concetto. Non sappiamo ancora come agisca: se si comporti come un simbionte, sintetizzando enzimi, sostanze utili e antitossine, o se abbia effetti mutageni; non sappiamo nemmeno quali siano i suoi limiti, avremo le risposte solo dai test successivi. Quel che è certo è che è almeno in parte senziente, anche se è solo un cocktail biomolecolare privo di strutture che ricordino anche solo vagamente un sistema nervoso; capisce le necessità degli organismi nelle sue vicinanze ed elabora una strategia di conseguenza. È come se il suo obiettivo fosse quello di preservare la vita ad ogni costo."
"Straordinario, davvero. E come pensi che sia correlato con la creatura che mi ha attaccato?"
Un sorriso compiaciuto ed uno sguardo carico di eccitazione illuminarono il volto del ricercatore.
"Perché non glielo andiamo a chiedere?"
Se Samuela avesse saputo che la sua passeggiata sarebbe terminata nei locali refrigerati dell'obitorio avrebbe di certo indossato qualcosa di più pesante. Su un tavolo metallico, illuminato dai neon, giaceva la carcassa esanime dell'extraterrestre; trapani e lame avevano penetrato la corazza, che giaceva in pezzi accanto al corpo vero e proprio, al quale era ancora in parte connessa tramite tendini filiformi. Quella massa tonda, rosea e molliccia, che cedeva in più punti sotto il suo stesso peso, era tutto fuorché minacciosa; alcune suture segnavano le zone in cui il cadavere era stato aperto, esplorato e ricucito. Giovanni, notò divertita, sembrava un bambino in un negozio di caramelle.
"Bada bene, quando si ha a che fare con entità esobiologiche ci si trova di fronte a veri e propri rebus. Parliamo di organismi che si sono evoluti ad anni e anni luce di distanza da noi, in habitat sulle cui condizioni possiamo solo avanzare ipotesi, rami di alberi della vita con radici diverse dal nostro. Studiarne la fisiologia è come tentare di decifrare un documento scritto in una lingua e un alfabeto sconosciuti. Detto questo… si possono sempre fare considerazioni interessanti." le indicò una scheggia di carapace "Quello che hai davanti è un tessuto mineralizzato di densità eccezionale; è composto essenzialmente da policarbonati termostabili e lo strato esterno contiene un'altissima concentrazione di piombo e iridio. Rivestiti di una corazza simile e ti troverai all'interno di un ambiente pressurizzato, protetta dal vuoto, dagli sbalzi di temperatura e dalle radiazioni; gli stessi materiali rivestono gli sfinteri degli orifizi. Con l'autopsia abbiamo scoperto numerose sacche cave; non sappiamo nulla del suo metabolismo, né se si basi, come il nostro, su un qualche tipo di scambio gassoso, ma è verosimile che potesse immagazzinare scorte di gas per un periodo più o meno lungo. Non so tu, ma a me tutto questo ricorda tanto…"
"Una tuta spaziale…" Samuela stentava a crederci, quello che per la razza umana aveva richiesto anni di perfezionamento tecnologico la selezione naturale aveva sapientemente prodotto in un'altra galassia.
"Quando hai perforato la porzione cristallina hai compromesso l'omeostasi dell'intera struttura, facendolo morire soffocato; di base è quello che è successo quando il tuo casco si è rotto, ma nel suo caso non c'erano sistemi di sicurezza a guardargli le spalle. Ora, tornando alla tua domanda di poco fa, è chiaro che questa creatura sia perfettamente adattata a sopravvivere nel vuoto, capisci dove vado a parare?" capiva eccome, se poche gocce proteggevano pesci e batteri dai veleni e dalla denutrizione, quali effetti incredibili poteva avere la sostanza su creature evolutesi a stretto contatto con essa per milioni di anni?
Samuela si scoprì a provare pena per quell'essere, costretto da una forza esterna a sopravvivere a discapito di tutto; veniva da chiedersi se avesse mai covato, nei meandri del suo indecifrabile sistema nervoso, insofferenza per la sua condizione o persino infelicità. Forse era solo per istinto di conservazione, non per cieca aggressività, che l'aveva attaccata, turbato per essere stato catapultato in un mondo nuovo da cui si sentiva minacciato. La sua mente tracciò spontaneamente alcuni ironici parallelismi e sorrise fra sé e sé con amarezza: stava davvero empatizzando con un crostaceo alieno?
Qualche ora dopo essersi congedata da Fainonte, si trovava nell'area della stazione che preferiva in assoluto: il ponte di osservazione di SCP-054-IT; all'interno di quel miracolo cosmico piccoli astri incandescenti nascevano e morivano nell'arco di pochi mesi, regalando spettacoli mozzafiato, una vista ideale per un'astrofisica col bisogno di schiarirsi le idee. Non solo era tremendamente bello, oltre che una fonte di dati inesauribile, ma era anche il motivo per cui tutti loro si trovavano lì, visto che il Modulo OC2-A era stato costruito proprio per meglio studiare e contenere l'anomalia.
"Si potrebbe stare ore a guardarlo senza stancarsi, dico bene?" la voce di Aurora le fece balzare il cuore in gola, ma si sforzò di apparire impassibile.
"Capitano, non ti avevo sentita entrare."
"Sapevo che ti avrei trovata qui. Anch'io ci vengo spesso, sai? Trovo che mi aiuti a pensare." eppure non si erano incrociate neanche una volta; non le fu difficile immaginare che Aurora pianificasse con cura le proprie abitudini per evitare di incontrarla.
Passò circa un minuto di teso silenzio, poi il capitano parlò di nuovo.
"Samuela, credi che non sappia cosa ti passa per la testa? Vuoi sapere perché sono giorni che non ci vediamo, non è così?"
"Mi è stato detto che hai avuto una serie di riunioni con gli S5. Sono solo un'agente, non pretendo di entrare nel merito di questioni di comando, non serve che ti giustifichi."
"Oh, falla finita!" quella reazione la destabilizzò e la irritò, che Aurora si prendesse la briga di perdere la pazienza era come girare il coltello nella piaga "Mi dispiace, è solo che… sono stanca di fingere che fra noi vada tutto bene e so che anche tu lo sei. Non ti obbligo a perdonarmi, ma vorrei che non ci mentissimo a vicenda, ti chiedo solo questo."
"Va bene, sentiamo allora." poteva concederglielo, se avesse significato scoprire finalmente cosa le passava per la testa.
"Il punto è… sai bene che l'istituzione della XI non è stata accolta favorevolmente da tutti; c'è chi crede che dare delle armi in mano a dei ricercatori non sia una buona idea, come se poi non aveste ricevuto lo stesso addestramento di chiunque altro, e che la branca abbia sprecato risorse che potevano essere impiegate altrove. Da quando siamo quassù, alcuni non ci hanno mai staccato gli occhi di dosso, in attesa del primo passo falso; e qui entra in gioco il tuo incidente." allora era vero, erano queste le conseguenze di cui le aveva parlato Federico; la possibilità che le sue colpe macchiassero la reputazione della squadra le fece venire la nausea.
Aurora proseguì, il tono di voce via via sempre più rotto dall'ira e dal rammarico.
"Decine e decine di membri del personale militare rischiano la propria vita ogni giorno, ma non sentirai mai uno di quei burocrati declamare di abolire la IV, la V o la VIII. Quando un'agente si ritrova da sola contro un'anomalia, uscendone viva, di solito le si dà una stramaledetta medaglia, non si convoca il suo capitano per discutere dell'eventualità di espellerla dalla squadra e rispedirla a casa. Non potevo permetterlo e non l'ho fatto; mi è toccato fare promesse e riscuotere tutti i miei favori, ma mi sta bene, finché so che non vai da nessuna parte."
Ciò che Samuela provò dopo quella rivelazione non poteva essere descritto in altro modo se non come un tornado di emozioni: rabbia per quello che avrebbero voluto farle e per aver costretto Aurora a umiliarsi per salvarla, gioia e sollievo nel sapere alla fine quanto il capitano tenesse davvero a lei, sconforto sapendo che tutto quell'affetto era condannato a restare inespresso ancora a lungo. Poggiò una mano sulla spalla di Aurora, esercitando una stretta salda, ma gentile; era l'unico atto di tenerezza che potessero permettersi in quelle circostanze, ma, per quanto banale, aveva sempre significato più di quanto non sembrasse. Pensò di nuovo alla notte nella stanza del telescopio e al pianeta Venere: Eosforo, la stella del mattino, ed Espero, la stella della sera, erano stati considerati per secoli due astri distinti, finché non ci si era resi conto che si trattava dello stesso pianeta, due inseparabili facce di un'unica medaglia, che brillavano della medesima luce; si chiese per la prima volta se la scelta dell'alias del loro capitano fosse stata effettivamente casuale.
Ammiravano l'anomalia aldilà del vetro, vicine come non lo erano state da tempo, e per Samuela fu come poter contemplare l'intero universo nel palmo della propria mano; immenso, magnifico, mostruoso, multiforme e governato da leggi che erano ben lungi dall'essere comprese. Eppure, nel confrontarsi con quella vastità, c'era un pensiero che la faceva tirare avanti, un singolo concetto cui aggrapparsi come a un'ancora: fra miliardi di stelle e miliardi di galassie, lei era esattamente dove doveva stare. Non era sbagliata, né fuori posto, ora era lucida a sufficienza per capirlo; quell'angolino di infinito era suo e di nessun altro e avrebbe lottato con le unghie e con i denti per preservarlo. E sapeva anche che, qualora qualcuno si fosse messo in mezzo, c'erano cinque persone nella sua vita su cui avrebbe sempre potuto contare.