Sito Vesta, dicembre 2017
La punta del sottilissimo cacciavite si incrinò, deformandosi. Giovanni sospirò e lo gettò nel cestino, assieme agli altri. Aveva ancora una volta esercitato troppa pressione. A quanto pare, leggere un settimanale non l'avrebbe trasformato in un orologiaio. Si dispiacque, ma non si arrese: quell'orologio era del suo defunto padre. L'uomo che aveva più detestato in tutta la sua vita… ma, nonostante ciò, anzi proprio per questo motivo, non voleva lasciarlo andare. Prese il suo diario, che scriveva regolarmente.
Bussarono alla porta del suo ufficio, da dietro la quale provenne una voce maschile, giovane.
— Dottor Giovanni…?
— Ingegner Giovanni — precisò.
Non era legato alle formalità, anzi le detestava dal profondo del cuore, ma a quello teneva particolarmente. Dottore lo dici al tuo medico curante pensò, sospirando. Inutile dire che il resto dell'Italia la pensava diversamente sulla questione. Eppure Giovanni, nella sua insignificante minoranza, combatteva la sua titanica battaglia, solo contro il mondo, conscio che era già persa in partenza. Sperava che un giorno il malanno di chiamare sempre tutti "dottore", al di là della sana dose di goliardia accademica, fosse estirpato. Ma era un cancro troppo ben radicato, inoperabile.
— Ah, mi scusi… c'è una letter-
— Arrivo — tagliò corto.
Giovanni nascose velocemente il suo diario, poi andò ad aprire. La guardia era un agente giovane, un novellino, assunto da poco. Giovanni aveva una memoria eccellente: ricordava nomi e facce di ogni singolo membro del personale del Sito Vesta. C'era solo un motivo per cui avevano fatto scomodare una guardia per consegnargli una lettera, quando sarebbe stato molto più semplice inviargli un'email.
— Deve firmare qui, dot-… signore — si corresse quando Giovanni lo guardò storto.
Era un ammonimento formale. Aveva aggirato le rigorosissime procedure burocratiche della Fondazione. Firmò e salutò la guardia, incassando il colpo. Forse sarebbe servito a qualcosa, o forse domani avrebbe ricevuto una somministrazione forzata di amnestici e sarebbe stato cacciato.
Si diceva che la Fondazione fosse fredda ma non crudele. Con Giovanni era fredda e crudele. Ma non tutti i membri della Fondazione erano così.
Il pomeriggio dello stesso giorno ricevette l’unica visita che stava veramente aspettando. Quando bussarono alla porta, già sapeva chi fosse, quindi corse ad aprire. “Buongiorno, Veronica. Grazie per essere venuta e con così breve preavviso" la salutò Giovanni. La dottoressa Veronica Puxeddu lo salutò, entrando nell'ufficio ed accomodandosi. "Come sta Andrea?" chiese Giovanni e lei risposte che stava bene.
I due si erano conosciuti al Sito Vesta alcuni anni prima, dopo che lei era stata trasferita dal Minerva. Giovanni le aveva chiesto un piccolo favore, una cosa da niente, ma in realtà voleva solo parlarle. Veronica gli aveva detto più volte che avrebbe dovuto rivolgersi ai bravissimi psicologi del Sito Iride, ma lui ogni volta declinava: Veronica era l'unica con cui Giovanni riuscisse a parlare liberamente. E poi all'Iride il lavoro era molto più intenso, al Vesta c'erano solo le anomalie più tranquille, il clima era più rilassato. Così, dopo una tazzina di caffè accompagnate da deliziosi biscotti sablés fatti a mano, i due iniziarono la conversazione.
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Veronica: Era solo la matematica il motivo per cui litigavi con tuo padre?
Giovanni: Forse all'inizio. Dopo… no, qualsiasi cosa era motivo di litigio.
V: Partiamo dall'inizio, allora. Cosa rappresentava per te la matematica?
G: La stessa cosa che rappresenta per me oggi. Non la definirei una passione, dopotutto sono un ingegnere, non un matematico. Anzi, il matematico quadratico medio non mi piace granché. Però è ben più di una semplice materia, questo sì.
V: Spiegati meglio.
G: La matematica è spesso vista come un gigantesco e caotico agglomerato di formule, numeri e nozioni. Purtroppo gli studenti vengono martellati fin dalle scuole elementari con quest'idea. E la cosa peggiora alle superiori, dove il numero di formule da imparare a memoria cresce esponenzialmente. Per non parlare degli esercizi tradizionali, la cosa che più detesto: vuote manipolazioni simboliche, da effettuare seguendo una miriade di regole. Ma dietro quei simboli gli studenti non vedono nulla. Ed hanno ragione: perché non c'è nulla! È mera sintassi. È come pretendere di insegnare a cucinare avendo degli ingredienti immaginari!
V: E per te com'è, invece?
G: Ti faccio vedere.
V: … il sistema solare? Mi prendi in giro?
G: Mia cara, non mi permetterei mai. Guarda, è zoomabile. Cliccaci sopra.
V: … oh… è un puzzle.
G: Lasciami spiegare. La matematica è come un quadro, il più bel quadro che tu possa immaginare. Pensa al quadro che più ti piace. A me piace l'astrofisica, quindi ho preso l'immagine del sistema solare, ma è solo un esempio, ognuno vede un'immagine diversa. Ecco… ora immagina che questo quadro magnifico sia fatto da tanti, microscopici pezzettini, tutti incastrati tra loro. Sono così piccoli e sono incastrati così bene da essere invisibili ad occhio nudo. Però sai che ci sono.
V: Il quadro perfetto?
G: Sì, anche se è solo una metafora. La matematica è così: un'immagine magnifica, che però nasce dall'unione di tanti piccoli tasselli. Ed ora ti chiedo: cosa accadrebbe se invece io nascondessi l'immagine con un velo nero, più buio della notte, e ti mostrassi solo quattro o cinque tasselli presi a caso?
V: Dubito che capirei qualcosa.
G: Appunto! Ma è esattamente questo che accade alle superiori: ogni anno, ai nostri studenti, diamo solo un piccolo tassello della matematica, senza però mai far vedere l'immagine completa!
V: Ma… mi sembra…
G: Folle. Non ho altre parole per descriverlo. E, come se non bastasse, poi pretendiamo che gli studenti si raccapezzino da soli. Per carità, alcuni sono testardi e ci riescono, oppure hanno voglia di prendersi una sorta di rivincita sulla materia che più odiavano, ma dobbiamo davvero puntare tutto su questo?
In cinque anni di liceo scientifico, ogni anno ho ricevuto un tassello di questo puzzle, sotto forma di nozioni da recitare a memoria, come pappagalli, formule da ricordare, e regole, oh cielo, ancora ricordo quante dannate regole completamente inutili ci sono state insegnate! E poi numeri ed espressioni simboliche, equazioni polinomiali, o con seni e coseni, ma in tutti i casi rigorosamente vuote.
V: Cosa intendi con "vuote"?
G: Prive di significato. Sintassi senza semantica. L'equazione "x - 1 = 0" ha come soluzione "x = 1". Ma cosa significa quella x? Da dove è sbucata fuori quell'equazione? Perché dovrei interessarmene? Qual è il significato dietro l'equazione stessa? La risposta è molto semplice: non c'è niente dietro. La matematica è ridotta a mera manipolazione simbolica. Anche a te l'avranno spiegata su questa falsariga…
V: Non ne sono sicura, ma penso fossero proprio le esatte parole del mio libro di testo…
G: Non me ne meraviglierei. Sono tutti scritti con lo stampino da non so quanti decenni. A parte la scelta dei colori, cambia molto poco tra un libro di matematica e un altro.
V: Quindi, giusto per non divagare troppo e sintetizzare, cos'è per te la matematica, nella sua essenza?
G: La matematica è un linguaggio che consente di mettere a nudo qualsiasi ragionamento, non importa quanto complicato, contorto, vago o perfino privo di senso.
V: Se prima ero un po' confusa, adesso lo sono ancora di più…
G: Nemmeno questo mi stupisce, e non lo dico a cuor leggero. Immagina una grotta buia. Ci sono delle persone, costrette a guardare solo le ombre sui muri.
V: La Caverna di Platone?
G: Per quel che ci riguarda andrebbe bene anche la cantina di Mastro Geppetto.
V: Continua.
G: La persona che esce fuori dalla caverna vede un mondo incredibile: un cielo immenso, in cui splende il sole, poi nuvole, laghi, foreste. Un panorama magnifico. Tale visione, all'inizio, lo acceca, ma poi i suoi occhi piano piano si abituano. Infine, ritorna nella caverna per avvisare gli altri, ma…
V: … nessuno gli crede.
G: Sì, come avvenne con Cassandra, sacerdotessa di Apollo, da cui ebbe in dono la preveggenza, ma siccome profetizzava terribili sventure, era invisa da molti. Così nessuno crede all'uomo che dice di aver visto sole, nuvole, cieli immensi e foreste sconfinate.
V: È così che ti senti?
G: Ci ho fatto il callo, oramai.
V: Perché non provi a cambiare strategia?
G: Veronica, mi conosci, non sono nato ieri. L'ho fatto per anni… ma ho sempre fallito. E c'è anche una spiegazione molto banale. Una persona che per tutta la sua vita ha visto solo ombre sfocate sui muri, può capire il concetto di colore? O di foresta? O di cielo?
V: Era così anche con tuo padre?
G: No.
V: (visibilmente sorpresa) … come no?
G: Con lui era peggio.
V: In che senso?
G: Non voglio parlarne. Voltiamo pagina per favore.
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Veronica: Questa mi mancava: sul tuo diario, hai scritto che la matematica più alta trascende la semplice bellezza visiva ed entra nel regno della musica.
Giovanni: Sì. Come ben sai, sono un appassionato di musica. So suonare due strumenti musicali, anche se non a chissà quale livello. Mi piacciono molti generi musicali, ma il glam rock è il mio preferito.
V: Anche tuo padre ascoltava musica?
G: Oh, sì. Puoi giurarci. In cinquant'anni sempre gli stessi pezzi. Le colonne sonore di Ennio Morricone e qualche canto popolare dialettale. O, dimenticavo, il suo preferito: Vecchio Frack, di Domenico Modugno.
V: Non si può dire che non avesse gusto.
G: No, figuriamoci, anch'io apprezzo l'abilità poetica di Modugno. Quello che non apprezzo è scartare qualsiasi cosa nuova solo perché nuova, ancor prima di ascoltarla.
V: Un conservatore fanatico.
G: E fatalista. Come pochi.
V: Credeva nel destino?
G: Non saprei dirlo con certezza. Credeva però che, quando c'era uno tsunami o un terremoto che faceva notizia sul telegiornale, quello era "il braccio del Padre Eterno".
V: Era credente?
G: Cattolico praticante. Tutte le domeniche e le feste comandate a messa. Ma non so fino a che punto distinguesse la religione dalla superstizione. Specie considerando che le stragi dovute alle catastrofi naturali erano, secondo il suo parere, un intervento divino.
V: Immagino tu non condivida?
G: Decisamente no. A tavola sedevo sempre alla sua destra. Ma come mentalità siamo sempre stati agli antipodi.
V: E con tua madre?
G: Ah! Buona questa… ! Sai già com'era con mia madre.
V: Non insegnava matematica?
G: Alle scuole medie. Ed era la professoressa di matematica più incompetente che abbia mai conosciuto.
V: La seconda più incompetente, leggo sul tuo diario.
G: Giusto. La prima era quella che mi sono ritrovato al liceo, negli ultimi tre anni: Rosalinda Pizzuto. Dubito riuscirò mai a dimenticarla.
V: Perché?
G: Riuscì a far odiare la matematica e la fisica all'intera classe, me incluso.
V: Racconta.
G: Durante una interrogazione, una ragazza stava risolvendo un esercizio davanti a tutti. Ad un certo punto, arrivammo alla seguente equazione: "|x| = -1". Che la ragazza non sapeva risolvere. La prof prese il gesso e scrisse sulla lavagna: "x = ±1", dicendo che era la soluzione. Un mio compagno di classe, Damiano Crisanti, mio amico carissimo, alzò la mano e disse: "Professoressa, ma valore assoluto di x può essere negativo?"
La prof lo scrutò con sguardo torvo. Tra loro non correva buon sangue, ma quella volta raggiunse l'apice. "Crisanti, ripetiti i valori assoluti!" disse con sguardo deciso, fisso, congiungendo indice e pollice della mano destra e muovendola su e giù, in verticale. Tipico linguaggio del corpo che indica rigore, soprattutto per chi vuole bacchettare.
Quando il mio compagno provò a ribattere, lei non lo fece parlare e, sovrastando la sua voce, urlò: "VATTI A RIPETERE I VALORI ASSOLUTI! MI SONO SPIEGATA?!" ed il silenziò piombò in aula. La professoressa mostrò il libro per far vedere a tutti che aveva ragione. Sul libro, c'era infatti scritto: "x = ±1". E la combinazione libro più professoressa era un'autorità inoppugnabile.
V: Tu che hai fatto?
G: In quel frangente? Niente. Ero il più bravo in matematica della classe, ma, se avessi aperto bocca, sapevo che sarebbero nate solo futili discussioni, piene d'odio, e che mi sarei beccato una nota sulla pagella. Avevamo quella professoressa da più di un anno e quella non era la prima volta che esplodeva davanti a tutti. Quando si arrabbiava in quel modo, non c'era verso di farla ragionare. Sì, lo so: sono stato un codardo. Ma la verità era molto più prosaica.
V: Ovvero?
G: L'equazione "|x| = -1" derivava da un'altra equazione, scritta più in alto sulla lavagna dalla ragazza sotto interrogazione. Ma la ragazza aveva commesso un errore di segno. L'equazione corretta era invece: "|x| = 1", motivo per cui il libro riportava come soluzione proprio "x = ±1".
V: Aspetta… mi stai dicendo che la vostra professoressa di matematica del liceo…?
G: Ha copiato sulla lavagna la soluzione del libro senza rifletterci minimamente, sì.
V: E quindi tutta quella diatriba è nata…?
G: Da uno stupido errore di segno.
V: Perdonami, abbiamo divagato… siamo andati un po' troppo a ruota libera.
G: C'è solo una cosa che vorrei aggiungere.
V: Dimmi pure.
G: Dopo la fine delle lezioni, mostrai a tutti la soluzione corretta, incluso a Damiano, il compagno sgridato dalla professoressa inalberata. Tutti ci mettemmo a ridere su quanto fosse stupida la nostra prof. Però, qualche tempo dopo, in confidenza, Damiano mi disse: "Comunque io non farò mai matematica. Ho proprio sbagliato a prendere lo scientifico. Avrei dovuto fare il classico". Prima di avere quella professoressa, la matematica era una delle sue materie preferite: io e lui facevamo a gara a chi fosse più bravo.
V: E come finì?
G: Il quinto anno fu una guerra fredda, che però sopportò. Poi si laureò in giurisprudenza. Altri, in circostanze simili, abbandonarono definitivamente gli studi.
V: Puoi essere più preciso?
G: All'esame di maturità la nostra insegnante di matematica era interna alla commissione. Abbassò i voti a tutti, o quasi. In un caso si ostinò molto, andando perfino contro il professore di italiano, che era invece esterno. Impedì ad una mia amica di prendere 100. Tra l'altro, lo scoprimmo solo per puro caso, altrimenti non l'avremmo mai neanche saputo.
V: Stai scherzando spero?
Giovanni non rispose. Il suo silenzio bastò.
V: Mi stai dicendo che questa docente di matematica è riuscita a far odiare la sua materia perfino a chi prima ne era interessato? E che all'esame di maturità ha avuto un comportamento scorretto?
G: Sì. Ha abbassato i voti a tutti per errori microscopici, minuzie che non inficiavano sullo svolgimento del problema. Quasi a tutti, in verità. Non a me e forse a due o tre altri, che per qualche motivo ignoto eravamo nelle sue grazie. Non che fosse piacevole essere nelle "grazie" di quell'arpia.
V: Sbaglio oppure insegnava anche fisica?
G: Sì. Riuscì a farla odiare anche a me. Ma lì ho ben altri tipi di critiche da fare.
V: Ovvero?
G: I libri di fisica del liceo scientifico sono da prendere e buttare nella spazzatura. Carta straccia, non è buona neanche per accenderci il fuoco.
V: Spiegati meglio.
G: Tutte le "definizioni" di Fisica scritte su un libro liceale o comunque delle superiori sono sbagliate, false, fuorvianti, imprecise, o una combinazione di queste cose. Nemmeno la definizione di velocità è quella corretta. Perfino mia madre pensava che la definizione di velocità fosse banalmente spazio fratto tempo.
V: Viene quindi insegnata una fisica annacquata?
G: Precisamente. Ci credo che quasi nessuno studente delle superiori in Italia abbia una comprensione corretta della materia. Dubito che il cervello umano possa comprendere pienamente una cosa falsa. Forzarlo, sì, quello sempre. Sforzandosi abbastanza e tappandosi il naso si può imparare anche che due più due faccia cinque. Ma non si incastrerà mai bene con tutto il resto: sarà una nozione appresa solo perché qualcuno ti ha detto che devi farlo, perché sei costretto a farlo. Ma non la sentirai mai come tua, come un qualcosa di intimamente vero, profondo.
V: Non mi sembra un buon modo di apprendere.
G: Non lo è, infatti. La menzogna non è mai la strada giusta, ma è sicuramente un'arma potente. Più grande la menzogna, più grandi le probabilità che venga creduta.
V: Questa mi suona familiare…
G: È attribuita ad Adolf Hitler, ma non prendermi sulla parola, non ho mai verificato questa citazione. Ed onestamente poco importa. Se non a chi vuole credere a tutti i costi nella Legge di Godwin.
V: Tornando all'insegnamento della fisica… non è forse un caso di mentire senza sapere di mentire? Non c'è nulla di moralmente riprovevole in questo.
G: Non è così, almeno non nella mia esperienza. I libri di fisica sono scritti da gente tipicamente laureata ed un fisico laureato difficilmente cade in scivoloni del genere. Ed è ancora più difficile che vi cadono i tre o quattro autori di un singolo volume o di una serie di volumi. È intenzionale.
V: Si potrebbe pensare allora che lo facciano per il bene degli studenti, semplificando la materia.
G: Certo. Come si possono pensare mille altre spiegazioni. Non significa né che siano vere né che il principio alla base sia giusto. Einstein scrisse:
Make everything as simple as possible, but not simpler1
con ciò intendendo che fosse giusto evitare le astrusità, semplificando ciò che si può semplificare, ma non al prezzo di cambiare le carte in tavola e dire una cosa per un'altra.
La velocità intesa come quantità scalare, quella che in inglese si chiama speed, è la derivata dello spazio rispetto al tempo. Se tu non sai cos'è la derivata, quello non è un problema della definizione di velocità che ho appena enunciato, né è corretto storpiare la definizione e far diventare la derivata una frazione. Quello che invece ritengo opportuno fare è spiegare prima il concetto di derivata, anche in termini intuitivi, e poi enunciare la definizione.
V: Non dovrebbe essere sempre così?
G: E ci mancherebbe pure! Vuoi costruire una casa partendo dal tetto? O sulla sabbia? Perché attualmente le case degli studenti delle superiori, almeno per quanto riguarda matematica e fisica, sono costruite sulla sabbia. Chi di loro studierà all'università materie scientifiche, sostenendo esami del calibro di Analisi I o Fisica I, riceverà un bello scossone.
V: A proposito di Analisi I, sul tuo diario ho letto una cosa curiosa…
G: Ricordo bene. Era il primo appello di Analisi I, l'esame durava tre ore. Eravamo circa 300, divisi in due aule poiché una sola era troppo piccola. Dopo un'ora metà degli studenti si era già ritirata. Dopo due ore eravamo rimasti in meno di 50.
V: Hai scritto che superarono il primo appello solo una decina di persone…
G: Sì. Sai cosa mi disse un ragazzo che fu bocciato? Persona sveglia, ci tengo a precisare, molto bravo nella grafica a computer, realizzava capolavori con 3D Studio Max, anche se ora questo software si chiama diversamente.
V: Cosa ti disse?
G: Che dopo quell'esame avrebbe cambiato facoltà. La matematica non era per lui.
V: Non vorrai dirmi che…?
G: Le storie umane si ripetono sempre, Veronica. Credi che al livello universitario le cose vadano meglio rispetto che al liceo? Riformulo: credi che una casa costruita sulla sabbia, o forse neanche su quello, possa reggere ad un terremoto della magnitudo di Analisi I? Mi viene difficile pensare che una materia faccia per te quando ti vedi crollare il mondo addosso: ogni singola nozione che quel ragazzo aveva appreso alle superiori era sbagliata. Ed è molto più difficile sradicare una nozione falsa che impararne una nuova partendo da zero.
V: Se quello che mi stai dicendo è vero, significa che il sistema è marcio dentro…
G: Non posso fare affermazioni sui massimi sistemi. Posso solo dirti che, nella mia piccola esperienza, certamente lo è stato. Ma non solo marcio… schizofrenico.
V: Sai che fine ha fatto quel ragazzo?
G: Non esattamente, ma suppongo la stessa fine che fanno tutti: ha rinunciato ad una carriera in cui, se fosse stato opportunamente indirizzato, avrebbe certamente brillato. Per carità, non dico che dobbiamo essere tutti medici, ingegneri, fisici o matematici, sarebbe sciocco, il mondo ha bisogno di tutti i mestieri ed è giusto seguire le proprie passioni. Quello che non è giusto è un sistema scolastico dove un certo tipo di passioni vengono sistematicamente fatte odiare.
V: Pensi che sia così solo con le discipline scientifiche, in particolare matematica e fisica?
G: Non conosco nessuno che odi la storia. Che non gli piaccia, sì, ma non che la odi. Tu conosci qualcuno che dica di amare la matematica?
V: … tu?
G: No. Non mi piace granché, se è per questo.
V: Aspetta, fammi capire: finora hai difeso a spada tratta una materia… che neanche ti piace più di tanto?
G: Esattamente.
V: Temo di non capire…
G: Riconosco l'utilità della matematica. E ne apprezzo la bellezza. Ma, proprio come la musica, non posso dire che mi piaccia tutta la matematica…
V: Esistono diversi tipi di matematica?
G: Diverse branche, proprio come esistono diversi generi musicali. Quella che si studia alle superiori, ad esempio. Ma quella io la chiamerei più propriamente Calco-ritmetica, perché è quello che è: calcolo simbolico più aritmetica. L'unica cosa buona che può fare una pseudo-materia del genere è trasformare un essere umano in una calcolatrice.
V: Ma le calcolatrici non risolvono equazioni.
G: Oh, mia cara, qui ti sbagli. Esiste un'intera branca chiamata Calcolo Simbolico. Hai presente tutte quelle regole di cui parlavamo prima per risolvere le equazioni di primo grado? Ecco, si possono implementare. Le calcolatrici moderne, cioè i computer, possono risolvere equazioni di qualsiasi grado, anche in più variabili. È la prassi quotidiana.
Un software come Wolfram Mathematica 10, in quanto ad abilità nel risolvere equazioni, è in grado di fare le scarpe a qualunque studente liceale o universitario. Proprio perché ha un "motore" di calcolo simbolico potentissimo. Quello che nessun software del genere potrà fare è dirti cosa significhino quelle equazioni. Ma tanto per uno studente liceale il problema non si pone: sono solo simboli vuoti. Come una melodia senza note.
V: Quindi?
G: Quindi musica, maestro!
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Veronica: Perché mi hai fatto ascoltare quel suono, prima?
Giovanni: Perché è così che suona la matematica, anzi, mi correggo, la calco-ritmetica, alle orecchie di un liceale. È solo il suono del collegamento, che a stento lascia presagire che dietro a quel suono vi sia Internet, un mondo di suoni. La maggior parte dei quali ben più belli, melodici ed orecchiabili. E poi qualcuno si meraviglia che venga odiata. Ma non io.
V: Cambiamo argomento. Neanche con tua madre riuscivi a confrontarti?
G: Non so chi disprezzassi di più tra mia madre e mio padre. Forse mia madre.
V: Perché?
G: Perché si lamentava su tutto. Aveva fatto delle scelte sbagliate nella sua vita, scelte dalle quali non poteva più tornare indietro, e scaricava il suo rancore sugli altri.
V: Ad esempio?
G: Sposare mio padre.
V: Non era un matrimonio felice?
G: Forse prima che io nascessi. Da quando ho ricordo, no, non lo è mai stato. Litigavano costantemente per le cose più stupide.
V: Che tipo di persona era tua madre?
G: Un'ipocrita che trasformava qualsiasi stupidaggine in un problema insormontabile. Faceva di tutto una questione di stato.
V: Non ti vergogni a parlare così di tua madre?
G: Dovrei vergognarmi a dire la verità, Veronica? Forse perché è scomoda?
V: No… però… se qualcuno parlasse così dei miei genitori…
G: Anche a me fa male. Ma è da troppi anni che me lo tengo dentro.
V: Hai provato a fare qualcosa?
G: Per anni. Diverse strade. Non c'è stato niente da fare. Persi la speranza di avere un dialogo sano con i miei genitori quando capii che non mi amavano più.
V: Non puoi dirlo con certezza, non eri nella testa dei tuoi genitori.
G: No, hai ragione, non posso. Posso però dire che questo è lo stato emotivo che ho provato per lungo tempo.
V: E tua madre cosa ne pensava?
G: Oh, il suo ragionamento era molto semplice. Diceva: "Non mi interessa nulla di quello che fanno gli altri genitori con i loro figli. Fin quando resterai in questa casa, dovrai rispettarne tutte le regole. Altrimenti, fuori!". Pensai di cambiare casa.
V: Perché non l'hai fatto?
G: Perché non avevo abbastanza soldi. Il Dottorato di Ricerca dura tre anni, ma è un magro stipendio. Anche solo sostenere un affitto sarebbe stato problematico, per non parlare delle tasse. Quindi mi sono chiuso in me stesso. Ed ho aspettato, sopportando tutto il fango che mi gettavano addosso.
V: Prima hai parlato di regole, ma quali regole intendeva tua madre?
G: Erano imposizioni più che regole. Troppe per elencare tutte. Te ne dico solo una: tornare a casa entro mezzanotte. Mi proibirono di uscire per non ricordo quanti giorni dopo averla violata, togliendomi le chiavi della macchina.
V: Beh… mi sembra una cosa alquanto comune…
G: A 24 anni?
V: … ritiro.
G: Se ne avessi avuto occasione, credimi, avrei lasciato i miei genitori fin dal compimento della maggiore età. Ma i soldi erano un problema serio.
V: Non hai mai provato a vivere da solo?
G: Ho vissuto da solo per tre mesi all'estero, in Germania. Per essere più precisi, ero in una stanza con due coinquilini, l'unica ad un prezzo accessibile per le mie tasche. Ma spesso se ne andavano, lasciandomi solo per intere settimane. Ho avuto non poche difficoltà all'inizio, soprattutto a causa della lingua, ma poi le ho superate. Vivere da soli non è così difficile come dicono, anzi devo ammettere che mi piace. Ma mi sarebbe piaciuto ancora di più se avessi avuto l'opportunità di farlo fin da subito.
V: Perché eri in Germania?
G: Per un Erasmus+… praticamente un Erasmus per dottorandi. Il mentore che mi era stato assegnato era una brava persona, autorevole senza essere autoritario, ottima carriera accademica, più di 300 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali. Severo, puntualissimo, professionale.
V: Immagino che tu sia stato valutato alla fine del percorso.
G: Sì. Aspetta, l'ho conservato…
V: Mi sembra che una valutazione del genere non lasci adito a dubbi…
G: Sai cosa disse mia madre qualche tempo dopo?
V: Cosa?
G: "Sarebbe stato meglio se fossi rimasto in Germania!" o qualcosa del genere. Era il frutto di un litigio, ovviamente.
V: E tuo padre?
G: Mi fece fare una copia di quel documento. Poi lo fece vedere a tutti i suoi amici del bar.
V: Non mi pare una cosa negativa…
G: Lo faceva per vantare se stesso, Veronica. Per farsi bello davanti agli altri. Anche se né lui né i suoi amici, data l'età, capivano mezza parola d'inglese.
V: A meno che tu non legga nel pensiero, neanche questo puoi dirlo con certezza.
G: Hai ragione, non posso. Ma anche se così fosse, continuare a chiamarmi "stupido", "scemo", ripetermi che "non capirai mai niente della vita", cantilena quasi quotidiana, ti assicuro che non mi faceva sentire bene.
V: Potrei ribattere dicendo che mostrarmi quella valutazione è stato un tuo atto di falsa modestia. Un po' come tuo padre.
G: Ti chiedo scusa, hai ragione, ma ti assicuro che non era quello il mio intento. Volevo solo mettere chiare le carte in tavola, dandoti una prova concreta delle mie parole, altrimenti vacue. Detesto chi parla senza prove concrete in mano.
V: Ci stiamo girando in tondo fin dall'inizio, quindi arriverò dritta al punto: odi tuo padre?
G: (sospirando) In tutta onestà, no. Non per davvero. E nemmeno mia madre. Non posso dire di odiarli. Posso però dirti che il rapporto con i miei genitori è stato molto travagliato. Non so quando sia accaduto, ma, ad un certo punto, di tutte le loro "regole", delle loro imposizioni, non ne potevo più. In quel periodo persi anche un po' la mia fede.
V: Eri cattolico?
G: Sì. Ed ero anche un fervente praticante, mai saltato una messa. Ma poi, con il passare del tempo, la fiamma si è attenuata. Credevo in Dio, ma iniziai a dubitare di tutte le dottrine religiose. Alcune cose iniziarono a sembrarmi assurde. Non sopportavo più i dogmi.
V: L'atteggiamento dogmatico è antiscientifico per definizione.
G: Esattamente. Proprio per questo me ne allontanai. Nel mio cuore, però, cerco ancora quel punto di equilibrio perfetto tra Scienza e Religione.
V: Evitiamo di inoltraci in questa tematica, su cui si sono già sprecati fiumi d'inchiostro.
G: Concordo.
V: Arriviamo alla fine del tuo diario. La storia di due più due e del motorino.
G: Oh, quella! Lì non ho molto da commentare.
V: Davvero?
G: L'unica cosa che posso dire è che mi sono arreso. Così come con mio padre, anche con il resto del mondo.
V: Arreso in cosa?
G: Spiegare agli altri che la "calco-ritmetica" non è Matematica. E che la "annacquat-isica" non è Fisica. Ma sai che ti dico? Mio padre aveva ragione. Sono proprio uno stupido.
V: Perché?
G: Perché se gli avessi dato ragione, anche solo una volta, sul fatto che due più due non facesse quattro per via della storia dei motorini, forse mi sarei risparmiato qualche litigio. Non tutti, ma qualcuno sì.
V: Mi sembra un 180° rispetto alla tua posizione iniziale, in difesa della verità a tutti i costi.
G: La verità è un'amica crudele, senza soldi e senza affetto. Non mi ha mai scaldato il letto né messo il pane in tavola.
V: E…?
G: E quindi sai che ti dico? Che aveva ragione mio padre. Non ho più il coraggio di andare avanti su questa strada, tanto so com'è l'Italia e soprattutto so come sono gli italiani: nessuno cambierà mai idea su nulla. Se solo fossi nato stupido, anziché diventarlo, almeno sarei rimasto anch'io chiuso in quella caverna a fissare ombre sui muri. Una vita normale, con pensieri normali. Avrei odiato anch'io la matematica. Conformarsi, alla fine dei giochi, è sempre la scelta migliore. Il resto è solo egoismo.
V: Giovanni, non…
G: (tono basso, voce pacata) … scusami, ho parlato male. È solo che, quando vedi così tanta luce e così tanti colori, ritornare nell'ombra e nel grigiore della caverna fa più male al cuore. E non tutti accusano bene il colpo. (alzandosi in piedi) Perdonami, ora devo tornare al lavoro…
V: Aspetta!
Giovanni si fermò, in piedi, immobile. Si voltò lentamente verso Veronica, dottoressa della Fondazione, ma ora in veste di sua psicologa. Lo sguardo della donna gli sciolse quella maschera fredda che aveva appena indossato, lasciandogli scoperto un volto umano, debole, molto più di quanto avesse mai voluto ammettere.
V: C'è sempre speranza, Giovanni. Non puoi abbandonarti al grigiore, non puoi lasciarti sopraffare da questi sentimenti negativi…
G: … hai ragione anche su questo.
V: Il Giovanni che conosco io non si lascia fermare da niente. Anche a costo di dover sollevare di peso qualcuno fuori dalla caverna, non smetterebbe mai di combattere.
G: Mi sopravvaluti. Non penso di essere così bravo a far cambiare idea alle persone. È come sradicare un tumore profondo… e non sono un chirurgo, anche se da giovane avrei voluto prendere Medicina.
V: Le parole, a volte, sono più affilate di qualsiasi lama.
G: Non sono granché neanche con quelle.
V: Ti arrendi prima di provarci?
G: No… questo no.
V: Hai ancora sulla scrivania l'orologio di tuo padre.
G: Sì… si è rotto molto tempo fa.
V: Non si è rotto, Giovanni. Ti sei solo dimenticato di cambiargli la batteria.
G: Ah…
V: Anche la batteria del tuo cuore doveva ricaricarsi. Dai… per oggi prenditi una pausa, niente lavoro.
G: Veronica…?
V: Sì…?
G: Pensi che registrare queste sedute servirà a qualcosa?
V: È un consiglio che mi ha dato la Molinari. Lei è una delle migliori nel suo lavoro.
G: Veronica… grazie. Ho solo un'ultima cosa da dire prima di spegnere il registratore. Mio padre aveva ragione. Forse non sui motorini, ma aveva ragione. Due più due non fa sempre quattro. Oggi, per esempio, ha fatto cinque.
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