Dimensioni 2, 3 e Avanti
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Gli allarmi erano in azione da talmente tanto tempo da fargli fischiare le orecchie nei momenti di silenzio che seguivano ogni aspro ululato delle sirene. Ogni volta che squadrava un nuovo corridoio, i suoi occhi captavano sagome in agguato nella penombra, che sparivano nel momento in cui la sua mano, scossa da tremiti convulsi, puntava la torcia verso di loro: l'impugnatura di gomma era scivolosa da quanto era madida di sudore. Durante il tempo che aveva passato in questo luogo, il Sito-17 aveva avuto solo due altri allarmi come questo. Uno era stato un incendio, ed era stato soppresso velocemente. L'altro era stato qualcosa di cui le guardie e i ricercatori si rifiutavano di discutere con lui. Era stato soppresso altrettanto velocemente.

Stando agli orologi lungo i vari corridoi, questo allarme sarebbe stato attivo da almeno quattro ore; o almeno, quattro ore da quando la porta della sua cella si era aperta.
Perché fosse successo, perché si fosse aperta, quando sapeva che c'erano non meno di tre dispositivi di blocco di emergenza ridondanti che avrebbero dovuto impedirlo, non avrebbe saputo dire.

I locali erano in penombra, la corrente dei generatori elettrici del sito era stata reindirizzata laddove qualche progettista avesse ritenuto che l'energia fosse stata meglio destinata, piuttosto che per illuminare gli asettici, bianchi muri e pavimenti piastrellati. Ai suoi occhi, le pareti parevano emanare un tenue bagliore nella semioscurità; sul pavimento, in ognuna delle limpidissime piastrelle, c'era un riflesso di crepuscolo. Ciò lo fece sentire come se stesse attraversando un sogno, una reminiscenza completamente indesiderata di alcuni dei suoi viaggi più estenuanti.

All'inizio, c'erano state delle urla. Le aveva udite ancor prima che la porta della sua cella si aprisse. Ma non aveva ancora visto nessun corpo - niente sangue, niente oggetti sparpagliati, nessun danno ad alcuna attrezzatura o impianto - forse, così, era anche peggio. L'unico rumore che lo accompagnava, mentre si faceva strada tra i livelli intermedi abbandonati, era quello delle sirene; gli sembrava di udire un'eco distante delle urla di prima, appena sopra il fischio che gli riempiva le orecchie durante i silenzi spezzati. Il suo cuore martellava così tanto che c'erano stati dei momenti in cui si era sentito lì lì per svenire. La sola cosa che lo spingeva a proseguire era pensare a se stesso, bloccato nella sua cella di contenimento standard per umanoidi, senza via di scampo, per venire infine trovato dalla cosa che aveva provocato tutto questo, qualsiasi cosa essa fosse.

Il suo imperativo, istintivamente, era più o meno quello di uscire dal Sito-17 e andarsene il più lontano possibile. Non riusciva a capire quando sarebbe arrivato il momento in cui la forza che avesse determinato quegli eventi, quale che fosse, lo cogliesse e spedisse Dio solo sa dove; non aveva alcuna intenzione di venir riportato indietro, dentro a una struttura compromessa, nuovamente nel mezzo di qualsiasi cosa stesse succedendo lì in quel momento. Si fece strada più velocemente che poteva oltre l'angolo davanti, sperando di trovare un gruppo di ascensori o una rampa di scale dopo la svolta.

Lungo il corridoio c'erano altre stanze vuote, altro rumore, altra semioscurità. Gli sgabuzzini, le cabine elettriche, un magazzino degli inservienti, erano tutti spalancati e incustoditi. Il ronzio di un pannello di strumentazione ancora illuminato pulsava alle sue spalle mentre avanzava. Una mattonella rossa del pavimento davanti a lui colse la sua attenzione, era la prima che vedeva, dopo quella davanti all'ingresso della sua cella. Un'altra scivolata.
Il cartello sulla porta recava "SCP-085". Aveva saputo di Cassy dai ricercatori, la sua curiosità emerse e vinse sul suo terrore e, prestando attenzione, varcò la soglia aperta.

Davanti a lui c'era un leggio di acciaio inossidabile, angolato come se lui ci si stesse avvicinando per tenere un discorso rivolto al muro bianco e spoglio lì di fronte. Il consueto drappello di sedie e strumenti di registrazione era disposto ai lati, lungo i muri. Un blocco da disegno bianco stava sul leggio, con una penna a sfera economica lì accanto. Si avvicinò.

Nella scarsa illuminazione d'emergenza, la vide. Una donna magra, dai capelli lunghi, disegnata sulla carta bianca a tratti neri, puliti, che camminava freneticamente avanti e indietro per il foglio. Era disegnata con un'armatura sul corpo, somigliante al personale di sicurezza che certe volte a lui capitava di vedere affrettarsi per il sito. Mentre lui si avvicinava, lei si fermò improvvisamente, con un misto di sollievo e paura che le si delineavano sul disegno elegante del suo volto. Nonostante la situazione, egli notò che i movimenti di lei fluivano con grazia mentre le linee che la componevano si svolgevano e mutavano, con una finezza che non aveva niente a che vedere con l'idea di disegno vivente che lui si era immaginato. Ella indicò la penna accanto al blocco, muovendo le labbra in quello che pareva essere un discorso frenetico, ma afono.

Lui prese la penna e iniziò a scrivere nell'angolo del foglio, la sua scrittura frettolosa era un pastrocchio contorto, in confronto alla forma precisamente delineata di lei.

Che cosa diavolo sta succedendo?

Cassy guardò in alto, verso l'angolo del foglio, poi estrasse a sua volta un blocco per appunti da una delle tasche della sua uniforme da battaglia. Scrisse in fretta, poi rivolse il taccuino verso di lui, che strizzò gli occhi e si sistemò gli occhiali, faticando a leggere le lettere microscopiche.

Dimmelo tu.

Naturale. A noi, reclusi, feccia, non hanno detto niente. Perché con lei avrebbero dovuto fare diversamente? Si mise a scarabocchiare di nuovo nell'angolo del foglio.

Ecco, sono SCP-507. Fece un momento di pausa. Ovviamente lei ne era già a conoscenza: la denominazione era stampata diverse volte sul davanti della sua tuta arancione. Non ho idea di cosa stia accadendo, ma me sto andando via da qui. Qui le cose stanno andando male. Vuoi venire con me?

Lei tornò a guardare l'angolo e annuì immediatamente con la testa. Scrisse rapidamente una nota sul suo taccuino:

Trova l'ascensore B54!

Lui annuì in risposta, poi con cautela raccolse il blocco da disegno e la penna. Mentre alzava lo sguardo, una sagoma gli si parò davanti. Una persona, impossibilmente nera, galleggiava nell'aria dinanzi a lui, contrastando nettamente con il muro bianco, quasi fosse un buco dalla forma di un uomo nella parete. All'inizio sembrò come se tremasse, ma un secondo dopo egli si rese conto che l'uomo non si muoveva; invece, era tutto ciò che lo circondava a scuotersi e balzare. Un'ondata di terrore gli attraversò la schiena e, senza pensarci, si fiondò indietro nel corridoio, stringendo saldamente il blocco da disegno sul petto.

SCP-507 schizzò lungo il corridoio, senza prestare la minima attenzione ai suoi dintorni o a ciò che lo potesse aspettare dietro gli angoli. Cercava disperatamente con lo sguardo le strisce segnaletiche di pericolo che indicavano gli ascensori di servizio, respirando affannosamente mentre correva via più veloce che poteva. Una serie di doppie porte incombeva alla fine della sala. Corse verso di loro, sperando che non fossero bloccate, abbassando la spalla e preparandosi a -

Un campo erboso. La luce del sole lo accecava e la sensazione del vento sul suo volto lo fece fermare. Cercò a tentoni il blocco da disegno e il suo stomaco sobbalzò quando si accorse che non ce l'aveva più. Gli era caduto? Mezzo cieco, si gettò a terra, passando le dita tra l'erba fresca, la vista di una prateria senza fine che lentamente si mostrava mentre i suoi occhi si acclimatavano. Girò in cerchi, palpando maniacalmente il terreno per ritrovare ciò che gli era caduto. La sua mano afferrò una gamba e lui si paralizzò.

Guardò verso l'alto e vide Cassy, in carne e ossa. Era incredibilmente simile a come era nel disegno, vestita ancora con la divisa della sicurezza, con una maschera di sconvolgimento sul volto, ancora intenta a elaborare ciò che la circondava.
Lei gli mise le mani sulle spalle, aiutandolo ad alzarsi. Iniziò, esitante, ad articolare parole con la bocca, ne uscivano suoni incerti mentre sperimentava il nuovo ambiente in cui si trovava. La voce le si incrinò mentre parlava.

"M-mi p-puoi… mi puoi sentire?"

SCP-507 rimase inebetito, annuendo a malapena in segno di comprensione.

Lei guardò la prateria apparentemente sconfinata che stava attorno a loro, con l'erba che ondeggiava sotto al vento.

"Io posso… io posso sentire la mia voce. Ma non penso che nessuno mi abbia mai sentita parlare."

Nonostante il terrore mortale che lo aveva assalito solo pochi istanti prima, SCP-507 sorrise. "Buon per me."

"Che cos'è questo posto? Com'è possibile tutto questo?"

Lui aggrottò la fronte, scrutando l'orizzonte in lontananza. "Ho questa… cosa, mi teletrasporto a caso avanti e indietro tra le dimensioni. Una roba scientifica, che io sappia. Se resto in contatto fisico con altri, vengono portati con me. Deve essere successo qualcosa, quando ti ho trasportata… in questo posto, ovunque sia. Qualcosa che in qualche modo ti ha… cambiata. Forse… sei tu che ti trovavi da sempre, ehm, a cavallo tra le dimensioni.

Cassy in quel momento guardò SCP-507. Studiò il volto di lui: la sua mano raggiungeva il proprio, apparentemente per studiarne i propri tratti, mentre i suoi occhi catturavano l'attenzione di lui. "Normalmente per quanto tempo rimani in questi… luoghi?

"Non è sempre lo stesso. A volte, per ore. Altre, per giorni interi. Non c'è modo di dirlo. Normalmente sono molto più bizzarri di così, però."

Possiamo… possiamo restare qui per qualche minuto? Voglio solo essere… così, qui, per un po'."

SCP-507 volse lo sguardo al paesaggio immobile. "Sì, sì, penso che non ci sia nessun problema. Dovremmo metterci in marcia presto, comunque. Voglio andarmene il più lontano possibile dal Sito-17 nel momento in cui torniamo nella nostra realtà. Qualunque essa sia."

Cassy annuì e chiuse gli occhi, mentre tendeva le mani per sentire il soffio della brezza che le investiva. Si girò lentamente lì dov'era, saggiando i vincoli fisici di questa nuova esistenza tridimensionale. SCP-507 provò a non fissarla, concentrandosi ovunque tranne che sulla sua nuova compagna di viaggio. Ma il suo sguardo, di quando in quando, scattava su questa persona incredibile, che fino a qualche minuto fa era un disegno su un taccuino, che improvvisamente si era trasformata. O liberata.

Lei lo guardò da sopra la spalla, cogliendo e ricambiando lo sguardo di lui. SCP-507 distolse subito lo sguardo, sentendosi infiammare le guance. "Noi, ehm, dovremmo… dovremmo andar-"

Un accenno di sorriso comparì sulle sue labbra. "Come ti chiami? Non voglio chiamarti SCP-507."

"Il mio nome è… è, ehm…"

"Non sai il tuo nome?"

Lui si schiarì la gola, rigirandosi le mani, impacciato. "Be', sai, è che è… un po' imbarazzante, se così si può dire."

Il sorriso di Cassy si allargò. "Non riderò, lo prometto."

Si aggiustò gli occhiali sul naso. "È… John."

Lei si coprì in fretta la bocca con le mani, tentando di bloccare la risatina involontaria che le sfuggì.

"Ehi, hai promesso di non ridere," le disse John, ridendo a sua volta.

"Scusa, ma… cosa c'è di imbarazzante riguardo al nome John?"

"È solo che lo trovo così… noioso, non credi? Mi fa sentire sempre come se avessi la certezza che ci siano un altro migliaio di persone chiamate John in un raggio di cinquanta metri, ovunque io vada." Si infilò le mani nelle tasche della tuta. "E a me, be', non è mai piaciuta l'idea di essere noioso."

Cassy rise ancora. "Non credo che essere noiosi sia un problema che nessuno di noi due abbia il bisogno di porsi."

John le sorrise. "Direi di no. Penso che ora dovremmo muoverci."

"Giusto." Cassy iniziò a camminare verso il sole che tramontava, verso quello che in questo piano dimensionale pareva presumibilmente essere l'est, con John che la seguì rapidamente. Timidamente, le toccò il braccio.

"Oh, e… c'è un'altra cosa. Devo mantenere il contatto con le persone con cui devo spostarmi, altrimenti… non tornerebbero indietro con me." John si schiarì la voce. "C'è stato… un incidente, una volta."

Cassy si fermò un momento e, con un sorriso, prese la mano di John. Il volto di lui divenne paonazzo.

Camminarono ancora, in un silenzio affiatato, con la paura che per il momento era stata ricacciata là da dove era venuta, attraverso questo luogo che era così distante, in tutti i sensi, da qualsiasi cosa stesse succedendo nel Sito-17.
Il sole iniziò a toccare l'orizzonte e le ombre iniziarono a danzare tra i fili d'erba che sembravano lame, il vento che iniziava ad essere solo un po' più pungente contro i loro volti. La natura immutabile del paesaggio pareva facesse scorrere il tempo diversamente, come se stessero camminando sempre sullo stesso tratto di terra e che il crepuscolo nel mentre diffondesse le sue ombre su di esso. Si concentrarono sul compiere la più lunga distanza possibile, nella speranza che il ritorno alla dimensione originaria li collocasse ovunque, tranne che entro i confini del Sito-17.

Quando il sole era quasi del tutto sceso sotto l'orizzonte, Cassy si arrestò, sempre mano nella mano con John. Si volse verso di lui.

"Tornerò ad essere come sono sempre stata quando ritorneremo, vero?"

John rimuginò sulla domanda. Il suo cuore sprofondò. "Non ne sono del tutto certo. Ma la realtà è la stessa di sempre quando torno, perciò credo di sì."

Era troppo buio per vedere l'espressione di lei. Il silenzio scese su di loro. Entrambi rimasero lì, fermi.

"Mi sa… mi sa che mi mancherà. È quasi crudele avere un assaggio di cosa voglia dire essere normali e che poi te lo portino via così."

John rifletté sulla situazione. Strinse la mano di Cassy nella sua. "E se ti tenessi con me? Sai, magari ogni volta sarà come questa. Intendo, con te che sei… te, credo. Non sarebbe come essere sempre… umana, ma almeno potremmo farci un salto, di tanto in tanto. Se… se a te andasse, intendo."

Anche nell'oscurità crescente, lui riuscì a vedere il guizzo di un sorriso.

"Lo faresti per me?"

"Be', certo, naturalmente! Ma, ehm, ti devo avvertire, a volte diventa spaventoso. Altre volte davvero strano."

Cassy lo abbracciò, tenendolo stretto come se stesse stringendo a sé un amico che è stato lontano per anni.

"Quindi, niente di nuovo." disse lei, con la sua voce soffusa di un calore sincero. "Ora, vediamo se riusciamo a mettere qualche miglio di distanza tra noi e il Sito, ok?"

Con una rinnovata energia, proseguirono nel cammino, tenendosi per mano.

Venne la notte.

Nella oscurità sempre più profonda, rallentarono il passo, poggiando i loro piedi con cautela, per evitare di inciampare in qualche cunetta o solco nel terreno. Il vento era diventato più forte e ora camminavano più ravvicinati, tenendo le braccia vicine per riscaldarsi, reprimendo gli sporadici brividi.

Quando John fece il passo successivo, sentì il piede colpire una barriera dura. Un muro? Guardò verso l'alto. C'erano solo tenebre, nulla che facesse intuire una struttura. Esplorò con le mani lo spazio davanti al suo viso e la sua mano toccò la stessa barriera invisibile. Ora, però, era come se la barriera stesse respingendoli: da lì a poco, lui e Cassy si ritrovarono sospinti da una forza invisibile, implacabile. E poi lui lo vide.

Una sagoma ben definita di un uomo, così nero che lo si poteva distinguere nel cielo debolmente illuminato dalla luna che sorgeva. Il panico lo afferrò e, prendendo la mano di Cassy, si voltò ed iniziò a correre. Dopo soli cinque passi, si schiantò contro un'altra barriera, che a sua volta lo iniziò a spingere. La sagoma nera era lì, piccoli pezzi di terreno ed erba galleggiavano via, come se fossero sott'acqua. Increspature si diffondevano attraverso la massa di detriti che si accumulava nei pressi di quella sorta di buco a forma umana nella notte.

"Dovevo trovarvi. Siete delle anomalie che transitano per i mondi. La mia vista non riusciva a mettervi a fuoco. Ma ora sì." La voce della figura nera era profonda, ruvida; echeggiava innaturalmente nel breve spazio che li distanziava. Veleggiò in avanti, la barriera che stava davanti al lui che li respingeva. "La vostra esistenza induce ad una sofferenza infinita. Qualsiasi dolore possiate sentire ora non è niente, rispetto a quello che voi recate."

Si girarono per scappare nell'altra direzione, solo per incappare in una sagoma identica. Ce ne erano due, adesso. La stessa voce provenne dalla loro sinistra, indicandone una terza.

"Voi dovete fare ammenda. Voi farete ammenda."

La barriera era divenuta un cerchio, che li sospingeva da tutte le direzioni, con sempre più di quelle sagome nere che apparivano attorno a loro, circondandoli.

"Portaci via di qui!" urlò Cassy.

"Non posso! Non… non… non posso controllarlo!"

La barriera continuò la sua spinta inesorabile. Stava iniziando a stritolarli.

"Io so che puoi, John! Lo so!" disse Cassy che si teneva stretta a lui, gli occhi spalancati dal terrore per la forza incorporea che stava per ucciderli.

"Merda, merda, ci provo!" John tentò disperatamente di allontanare la paura che lo paralizzava e a concentrarsi. Aveva provato a esercitare il suo volere sui propri viaggi, sia per uscire che per rientrare nella realtà. Tutto quello che aveva ricavato da quegli sforzi erano dei mal di testa. Provò a sgombrare la mente e a concentrarsi.

Casa. Casa. Casa.

Faceva fatica a respirare mentre l'aria veniva cacciata fuori dai suoi polmoni.

Casa. Casa. Casa.

Cassy faticò invano per muovere le braccia e fu spinta ancora più addosso a lui. John iniziò a sentire le sue articolazioni che scricchiolavano.

Casa. Casa. Casa.

Era compresso così fortemente da non poter più respirare. Iniziò a sentire le vene del suo collo gonfiarsi ed estroflettersi. Era finita, ed era così che sarebbe-

Improvvisamente, era da un'altra parte. Cadde sulle ginocchia, rantolando nella fame d'aria, rotolandosi su un lato per cercare Cassy. Non la vedeva da nessuna parte. Raggiunse le tasche della tuta e con un sollievo incredibile sentì il taccuino da disegno. Lo tirò subito fuori.

Vuoto.

Le sue viscere si raggelarono e iniziò freneticamente a guardare il nuovo ambiente in cui si trovava.
Era dentro quello che pareva essere un vecchio magazzino. Il vecchio pavimento, tavolato in legno, coperto di polvere, scricchiolava mentre lui lo attraversava in fretta, misurando i suoi dintorni e cercando di capire da dove avrebbe dovuto iniziare a cercare. L'edificio era scarsamente illuminato, l'aria viziata e stantia. Rispetto alla brezza fresca della prateria infinita, questo posto sembrava caldo e soffocante. L'aria era impregnata da un'odore di segatura e inchiostro.
Di colpo una lampadina si accese tremolando davanti a lui, illuminando un tratto delle pareti. I muri sembravano descrivere una pianta circolare. Sotto la lampadina c'era una grande tela. Il viso di Cassy ricambiò lo sguardo, quei tratti precisi e puliti disegnati da chiunque fosse l'autore ignoto, stavolta trasmettevano una smorfia di terrore mortale, congelata, immobile.

La voce risuonò da sopra di lui e quando guardò verso l'alto, non ne vide la fonte.

"SCP-085 è il risultato di un esperimento condotto tra SCP-067 e SCP-914. Ambedue gli oggetti sono stati smantellati."

Altre lampadine si accesero tremolanti, una dopo l'altra in sequenza, un treno di luce che viaggiava velocemente intorno alla stanza. Ognuna illuminava a sua volta un'altra tela, ognuna delle quali ritraeva lo stesso volto, congelato nel terrore. John era, letteralmente, avvolto, circondato, dalla paura che la sua più cara amica stava provando.

"SCP-085 preferiva essere chiamata 'Cassy'. È completamente senziente."

I muri barcollarono e si mossero, ruotando attorno a John mentre se ne stava inchiodato lì dov'era, impotente. Ogni tela balenava davanti a lui, sempre più veloce, fino a che i suoi occhi non riuscirono a delineare che un solo volto, una sola Cassy. Il suo viso iniziò ad animarsi e mosse la bocca come per dire qualcosa, qualcosa che lui non riusciva a capire, con la voce di lei ridotta ancora una volta nel silenzio.

"SCP-085 ha dimostrato la abilità di trasferirsi da un foglio o un'immagine ad altri."

Il punto di vista sulle tele rotanti si allargò, concedendo a John una visuale completa di Cassy, che aveva le braccia e le gambe aperte e allargate. Le sue dita sembrava che stessero iniziando ad estendersi, stirandosi.

"SCP-085 può esistere solamente in una narrativa d'universo deteriorata."

John ansimò mentre le braccia e le mani di Cassy si stiravano innaturalmente, adesso il viso di lei era contorto in un grido. Le sue dita ora sembravano sfilacciarsi, le linee nere e pulite ora si logoravano e fluivano disordinatamente negli spazi bianchi della tela. Le sue gambe iniziarono a stirarsi mentre le braccia continuavano a dipanarsi. Stava venendo fatta a pezzi.

"Prima di oggi, SCP-085 non era a conoscenza del suo stato di minaccia alla sopravvivenza della vita in questo universo. SCP-085 ne è stata fatta rendere conscia e dopodiché disfatta."

John si voltò via da quella visione orripilante, solo per vederla ancora, riflessa dozzine di volte attorno a lui. Ora il corpo di Cassy era un folle groviglio di linee attorcigliate, che si contorcevano lungo ogni tela, l'unica figura riconoscibile in quel casuale, astratto miscuglio di tratti fatti a penna era il suo viso agonizzante. Le linee iniziarono a tremolare mentre il suo viso sprofondava in una decoerenza, sfaldandosi in segmenti e trattini; una copertura a tratto di penna, caotica, come fosse la raffigurazione visiva di un rumore di statica, aveva invaso come un'alluvione tutte le tele, inglobando con sé l'ultima rappresentazione che John riusciva ancora ad identificare: una bocca, aperta, urlante in una muta e inconoscibile sofferenza.

I muri rotanti si arrestarono. Le linee continuarono a muoversi su ognuna delle tele, ora distinguibili l'una dall'altra. Ogni piccolo punto, ogni tratto di ciò che era stata Cassy fluiva come se fosse sangue verso il centro di ogni tela, condensandosi in un singolo punto. Ogni punto si restrinse su di sé, diventando sempre più piccolo, fino a che ognuno di essi divenne talmente minuscolo da essere impercettibile all'occhio umano. Dopo ciò, Cassy non esisteva più.

John crollò, con le lacrime che scorrevano dai suoi occhi, la bocca spalancata, cingendosi con le braccia. Quello a cui aveva assistito, nella sua totale intensità, lo stava ancora travolgendo. La sagoma nera apparve sopra di lui, galleggiando, pareva che lo stesse guardando dall'alto. I suoi muscoli si rifiutarono di obbedirgli mentre continuava a giacere sulla schiena, guardando il ligneo, decadente soffitto.

"Ti prego, non uccidermi," riuscì a dire debolmente John, in una via di mezzo tra uno squittio e un sussurro.

La figura nera iniziò a dissolversi dal suo campo visivo.

"Non sarò io a ucciderti. Non ci sarà nulla ad ucciderti."

La figura scomparve dalla sua vista. Ogni lampadina si spense in sequenza, con la stanza che sprofondava nelle tenebre mano a mano che l'ombra viaggiava lungo i muri, nella direzione opposta al verso in cui si accesero. John rimase lì steso sul pavimento, nell'oscurità.

Udì una voce, proprio a fianco del suo orecchio sinistro.

"Già di ritorno?"

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