E in principio dal belligerante primordio cronotopo si scissero due fazioni: coloro che erano disposti a fondere le metà del cosmo, e coloro che volevano vedere solo la loro metà trionfare.
Bibbia cronotopa, Genesi, 6 - 10, XIII secolo D.C.
Rodrigo Romano si alzò di scatto: dov'erano le lenzuola, il cuscino? Dov’era Esmeralda? Il suo letto, la sua casa? Si guardò intorno; era immerso in una nebbia fitta, grigiastra, e sentiva ciottoli scricchiolare sotto i suoi piedi. Istintivamente portò la mano destra alla vita, ma non trovò la pistola. Vi era solo il morbido tessuto del pigiama di cotone che aveva messo andando a letto. Panico, poi la vigile calma vanto di un agente della Fondazione. Per prima cosa, fece l’inventario degli oggetti a sua disposizione: non aveva niente, se non maglietta, pantaloni e berretto da notte. Notò subito che, nonostante i vestiti leggeri, non sentiva affatto freddo. Provò a togliersi la maglietta e aspettò un minuto intero a petto nudo. Nulla, gli sembrava di essere ancora sotto le coperte, al caldo. Neanche i piedi parevano soffrire sui sassi. Iniziò a riflettere sugli ultimi avvenimenti di cui si ricordava. Era tornato a casa, dopo aver accompagnato i genitori in seguito ad un controllo medico; si era svestito, aveva messo pistola, orologio e telefono sul comodino vicino al letto, come sempre; si era infilato il pigiama, ed era andato al bagno a lavarsi i denti. Si era sdraiato sotto le coperte, con cautela per evitare di svegliare la moglie, e si era addormentato. Per quanto si sforzasse non riusciva a trovare nulla che potesse spiegare il “trasloco”; aveva un sonno leggero, il minimo scricchiolio sospetto lo avrebbe svegliato, figurarsi una intrusione nella propria abitazione.
Era stato sedato? Ma come e quando? Non vedeva nessun segno evidente di una eventuale iniezione, e non avvertiva confusione o vertigini, sintomi molto comuni dell’esposizione ad amnestici, quindi escluse la possibilità. Un agente memetico sofisticato? Forse, ma gli agenti memetici sono solitamente visivi, quindi qualcuno lo aveva svegliato e costretto a guardare una foto? O lo avevano esposto ad un'anomalia sonora? In tal caso, sua moglie era in pericolo o già morta. Si sforzò di cercare di non pensare a cosa le potesse essere successo. Forse l’arma sonica anomala era la spiegazione più sensata. Esmeralda era solita dormire con i tappi per le orecchie, per evitare di sentire il rumore del campanile della chiesa vicina; lui invece era abituato a non riposare per più di 2 o 3 ore di fila, anche perché doveva essere sempre pronto in caso venisse chiamato per contenere qualche anomalia.
Adesso che ci ripensava, la chiesa: il campanile non suonava da tre giorni. Sembravano esserci problemi tecnici con il meccanismo che doveva scandire le ore, e quattro giorni fa aveva iniziato a rintoccare anche con due o tre ore di ritardo. Siccome non era stato possibile aggiustarlo si era pensato di interrompere la corrente in attesa della risoluzione del problema. Stava diventando paranoico? Forse, ma tanto valeva tenere tutto in considerazione. Aveva bisogno di risposte, ma anche di una strategia. Si chinò su uno dei sassi di colore grigio scuro levigati e incastonati in quello che sembrava un antico cemento, lo afferrò infilando le dita negli spazi vuoti fra i ciottoli e tirò verso l’alto. La pietra si staccò con relativa facilità dal terreno e Rodrigo la guardò soddisfatto. Iniziò a muoversi dritto davanti a sé, tirando fuori pietre in modo da creare una linea che lo aiutasse ad orientarsi e tenendone una in mano per autodifesa. Almeno, se lo spazio non fosse stato euclideo, se ne sarebbe accorto. Con un occhio guardava il terreno, con l’altro cercava di guardarsi intorno: la visibilità era al massimo di un centinaio di metri. Procedeva ciottolo dopo ciottolo, ancora stupito dalla discrepanza fra gli input visivi e tattili che riceveva; inoltre il suo fiato non diventava condensa come si sarebbe aspettato. Sembrava quasi di essere in una simulazione imperfetta, molti dettagli non definiti o del tutto trascurati.
Dopo centoquarantatre passi, misurati con la cautela di una volpe in procinto di sorpassare il mastino addormentato per arrivare al pollaio, gli sembrò di vedere una struttura: la sagoma era cilindrica, molto allungata, come una torre. Adesso Rodrigo passava più tempo a guardarsi intorno, mantenendo sempre la torre nel suo campo visivo. Poco dopo se la trovò davanti: alta più di 10 metri, apparentemente di fattura medioevale, costruita interamente di pietre biancastre e quello che sembrava lo stesso amalgama che teneva insieme il ciottolato. Aveva una struttura leggermente conica, e pareva assottigliarsi in cima, anche se la parte superiore era ancora fuori dalla sua visuale a causa della nebbia, che si infittiva man mano che l’altitudine aumentava. A un'ispezione più dettagliata la costruzione era relativamente larga, con un diametro di almeno 8, forse 9 metri, e presentava un numero piuttosto elevato di feritoie, posizionate a spirale ascendente ogni metro circa. Da esse sembrava fuoriuscire una luce calda, ma molto fioca.
Rodrigo andò dall’altro lato della torre, sempre facendo in modo di creare una linea di sassi che indicasse da dove era venuto, e si trovò davanti ad una porta di legno scuro, con un pomello in ottone e dei cardini nero pece. Rodrigo rimase fermo per qualche minuto, pesando la probabilità di trovare risposte dietro quella porta con quella di essere sbranato vivo o di avere la propria mente frantumata da qualche meme dall'altra parte. Alla fine, decise di posticipare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto varcare la soglia.
Continuò a camminare dritto davanti a sé, sempre creandosi un sentiero da seguire al ritorno. Non sapeva se fossero le condizioni meteo o lo stress psicologico, ma si sentiva osservato. Almeno il sasso, riluttante compagno di sventure che teneva ancora stretto in mano, gli dava un minimo di conforto. Dopo circa 500 metri di cautela e di ansia si fermò; non era quella la torre che aveva già visitato? L’aspetto era perfettamente identico, pietre bianche, feritoie, porta in legno e soprattutto luce, calda ma fioca, che sbocciava dai fori nella struttura.
Si trovava in uno spazio non euclideo? Corse indietro, seguendo il percorso che aveva creato. Girò intorno alla torre che aveva esplorato prima, e tornò al punto di partenza. Era certo di aver visto due edifici diversi, però doveva esserne sicuro. Prese un mucchio di sassi e tornò alla prima torre che aveva scoperto, piazzò i ciottoli a formare un mucchietto, vicino alla porta di ingresso, poi corse alla seconda struttura. Sulla porta di quest'ultima non vi era il cumulo di ciottoli che aveva lasciato sulla prima.
Beh, almeno sapeva che non stava vagando a vuoto. Provò a girare a destra, per vedere se scorgeva qualcos’altro. Altri 500 metri, e incontrò un’altra torre. Si trovava in un frattale o in uno spazio euclideo infinito? Mentre tornava indietro al primo edificio, pensò che forse avrebbe potuto ottenere una visuale migliore dell’ambiente circostante dalla cima di una delle strutture. Non era sicuro che la nebbia si diradasse più in alto, ma non sembrava esserci altro in quella terra oltre ciottoli, nebbia e torri. E le torri erano decisamente quelle che contenevano il maggior numero di informazioni e risposte. Con un profondo sospiro guardò il ciottolo che si portava dietro, come a chiedere risposte. Il sasso non si mosse, né parlò. Alla fine, l'agente decise di tentare la sorte.
Rodrigo bussò tre volte con la sinistra, immediatamente spostandosi da davanti la porta e mettendosi schiena al muro, aspettando una qualsiasi risposta da dentro la torre. Nulla. Dopo un minuto e mezzo d’attesa, spinse il pomello d’ottone, e i cardini scricchiolarono dolcemente; l’agente guardò nella penombra, e, non vedendo nulla, decise di entrare. All'interno della stanza vi erano numerose cianfrusaglie sul pavimento, fra cui assi apparentemente dello stesso legno della porta, qualche masso in un angolo e alcuni utensili da cucina antichi, come pentole, mestoli e un calderone ancora appeso su carboni spenti. Le pareti della stanza erano intagliate in modo da formare una scala, integrata perfettamente all’interno della struttura, che conduceva ad un piano superiore seguendo il percorso tracciato dalle feritoie. La caratteristica più peculiare del locale, però, era un reticolo in parte nascosto sotto le pareti pietrose di un qualche metallo, che emanava una luce gialla piuttosto flebile e sembrava essere parte integrante dell’intera struttura. Rodrigo aveva visto una cosa del genere durante l’operazione di recupero di quella città di calcare, ma il nome adesso gli sfuggiva: la Sagitta Iovis aveva a disposizione un dispositivo simile, solo molto più piccolo. Come si chiamava? Cella della Realtà? Sì, doveva trattarsi di una tecnologia simile a quella che era a disposizione della Fondazione; se non ricordava male, serviva a contenere anomalie altera-realtà. Poggiò a terra il sasso e prese in mano una trave, abbastanza sottile da poter essere tenuta in mano e abbastanza resistente da rompere un cranio; probabilmente sarebbe stata inutile, ma almeno lo avrebbe fatto sentire più al sicuro del sasso. Si stava per avviare su per le scale, ma notò un libro al centro della stanza, che avrebbe giurato di non aver visto prima. Probabilmente era stato troppo intento a guardare il metallo anomalo. Si trovava su di un leggio di legno massello scuro, molto semplice e senza decorazioni. Rodrigo raggiunse il volume, rilegato in pelle e aperto sulla prima pagina: su di essa era scritta in inchiostro scuro una semplice frase. Era in un italiano antico, medioevale, ma in qualche modo l'agente sapeva quelle frasi, e leggeva quelle parole come se fossero state proferite dalla propria bocca e nella propria lingua.
Se qualcuno sta leggendo questo messaggio, sappia che io ho fallito miseramente il mio scopo.
Rodrigo fissò la pagina, inquieto. Non poteva essere un buon segno. Doveva andare avanti a leggere? E se quella fosse l’anomalia contenuta all’interno della struttura? Non aveva alcuna idea sul da farsi. Solitamente era meglio non interagire con entità anomale sconosciute, ma decise che valeva la pena tentare. Voleva sapere come diavolo uscire da quel postaccio. Girò pagina e si trovò davanti due facciate ricche di testo, scritto senza troppi arzigogoli nello stesso inchiostro nero della prima pagina.
Il Demone del Vuoto è stato contenuto, finalmente. Sono state perse numerose anime nel tentativo di porre fine al massacro e i nostri fratelli hanno dovuto servirsi di una delle più potenti armi, la lancia di San Giorgio, per far crollare il mostro. La lieta notizia ci è giunta un mese fa, qui al convento domenicano di Brindisi. Siamo felici, ma al medesimo tempo preoccupati: non è l’unico Mefisto, e altri potrebbero giungere in qualsiasi momento. Ucciderli è impossibile, come eradicare il Male dalla nostra società, quindi l'unica soluzione è l'intrappolamento. Il Demone del Vuoto ha aiutato, con la sua venuta, l'apertura di varchi a realtà ulteriori. Per questo abbiamo chiesto alla Santa Sede il permesso di cercare un luogo per imprigionare altri demoni presenti nel nostro mondo. Con somma sorpresa la richiesta è stata rifiutata. Ci è stato risposto che sarebbe stato troppo pericoloso. Cosa c’è di più pericoloso di un abominio come quel Demone, che aveva portato morte e distruzione in numerose città? Cosa potrebbe mai giustificare l'esistenza in libertà per esseri di tale malvagità?
Noi non potevamo fare nulla, se non osservare e obbedire alle scelte del Sommo Pontefice, ma nulla riusciva a smuovere dalle nostre menti l'idea che eravamo noi nel giusto, e gli altri nel torto. Io non potevo vivere nel timore che un diavolo potesse esplodere dalle tenebre e porre fine al nostro mondo, avevamo visto tutti di cosa erano capaci quegli esseri di puro odio e fonti di immenso terrore. Uno dei nostri discepoli, evidentemente, aveva capito il mio malessere, e due giorni fa mi aveva avvicinato con un testo in suo possesso; non sapevo da dove lo aveva reperito, e mai lo seppi. Lui ci abbandonò la notte successiva, nel sonno, e il Padre Eterno lo accolse nel suo grembo. Il testo era un trattato sull'apertura di varchi a nuove realtà, intitolato “Dei Varchi e Delle Materie Ad Essi Relativi”; passai la notte intera a leggerlo, a scoprire i fondamenti della creazione di varchi di natura umana, divina e diabolica, e a riflettere sul da farsi. All'alba mi decisi, finalmente: era ora di proteggere e difendere il nostro mondo. Chiamai a me tutti i fratelli, e insieme preparammo il rito: avremmo trovato una prigione, semplice ma efficace, destinata a intrappolare qualsiasi minaccia all’essere umano e all'ordine divino. Uno di noi tracciò i sacri simboli del trasporto presenti nel libro, con la penna d'oca intinta del grasso ricavato dalle membra di San Gerolamo custodite nella nostra cripta, un altro ne pestò le ossa in un mortaio, poi ne carbonizzò la polvere e la usammo per sostituire la sabbia in una delle nostre clessidre. Infine riuscimmo a estrarre un poco del suo sangue, ancora miracolosamente intatto, e lo versammo in un calice, insieme ad acqua santa.
Con tutti gli ingredienti pronti, iniziammo il rito al calar del Sole. Fratello Mattia pose le pergamene in cerchio al centro della stanza, e la clessidra in mezzo. Iniziammo a recitare le formule latine di apertura, che prego il nostro Signore muoiano con me. Nel frattempo, fratello Mattia versò il sangue sulla clessidra, in modo che gocciolasse lentamente sui simboli, facendo attenzione che non uscisse dal perimetro degli stessi. I fratelli Gennaro e Bravante ci guardavano, in disparte. Ci eravamo messi d’accordo che loro sarebbero rimasti fuori, nel mondo umano, e che avrebbero condotto le bestie senza timor di Dio nella nostra trappola. Come l’acqua in un fiume scorre in un solo verso, dalla cima alla valle, noi, come qualsiasi altra cosa, una volta entrati non saremmo più riusciti ad uscire. Ed essendo coinvolti nel rito, non avevamo altra scelta che varcare la soglia, per aprire la porta.
Rodrigo rimase paralizzato da quelle parole. Gli occhi si fermarono sull’ultima frase, rileggendola tre, quattro volte. Sì, aveva capito bene. Le gambe per un attimo quasi cedettero sotto il peso del corpo, ma l’agente si aggrappò al leggio; forse, se avesse continuato a leggere, avrebbe potuto trovare una soluzione.
Il rito era quasi completo, mancava solo l’atto finale: scambiammo uno sguardo profondo con Gennaro e Bravante. Avevano le lacrime agli occhi, avevano paura: io provai a consolarli guardandoli fisso, mostrando quanta più risolutezza riuscivo. Non sapevo se era abbastanza, ma ci provai comunque.
Dopo un minuto, girai la testa verso fratello Mattia. Era pronto, così diedi il cenno di procedere con il rito. Lui girò la clessidra, in modo che il lato macchiato di sangue tingesse il pavimento della stanza, e mentre la polvere d’ossa scorreva noi tutti recitammo i versi finali. Al cadere dell’ultimo granello, ci investì una luce accecante, e ne fummo sbalzati all’indietro.
Ci svegliammo in una terra completamente piatta, bianca come un foglio di carta; non vi era nulla sul suolo o nel firmamento, se non l’apertura che ci aveva condotti in quel luogo, un terreno duro come il versante di una montagna e una luce calda e immacolata. Nel verificare se era possibile passare attraverso l'apertura poggiai la mano sullo strappo, ed era come spingere contro una roccia.
Aveva funzionato, eravamo in un altro mondo. Il nuovo mondo.
Rodrigo girò pagina, ma era bianca; continuò a girare, e non vide altro che pagine su pagine completamente immacolate. Rimase un attimo interdetto, quasi frustrato; poi si calmò. Era una struttura a più piani, forse avrebbe trovato più indizi nei livelli superiori. Chiuse il libro, delicatamente per evitare di attirare attenzione indesiderata su se stesso, e si diresse verso le scale, sempre trave in mano. Mentre saliva, guardava attraverso le feritoie la nebbia che si infittiva sempre più. Sarebbe mai uscito dalla prigione in cui era finito?
Sbucò in una stanza che sembrava simile a quella che aveva appena visitato: era diversa, però, sotto molti aspetti. Intanto era più luminosa, il reticolo metallico più sporgente e apparentemente più attivo; inoltre era arredata con due serie di inginocchiatoi, ciascuno dello stesso legno della porta, sei per fila e privi di cuscino. Erano tutti rivolti dal lato opposto rispetto a dove era uscito Rodrigo, e verso un altare molto rudimentale, elegante nella sua semplicità. Mentre si avvicinava a quell’altare, notò diversi segni, incisi con grande precisione nelle assi che componevano gli inginocchiatoi. Erano dei nomi: Federico, Abbazio, Francesco, e… Mattia? Si avvicinò, per esserne sicuro; sì, si trattava proprio del nome Mattia. Non poteva essere una coincidenza. Sull’altare, al posto della Bibbia, vi era un altro volume aperto, rilegato in pelle. Sembrava identico al libro che Rodrigo aveva appena maneggiato, quindi l’agente tornò a guardare nella camera inferiore. Il volume era scomparso dal leggio dove lo aveva appena lasciato.
Rodrigo si diresse quasi di corsa verso il libro; le prime pagine erano completamente bianche, ma dopo un paio di facciate le sue dita si fermarono su dell’inchiostro. Il discorso sembrava riprendere da dove l'aveva interrotto, e, avido di informazioni, risprofondò nella lettura.
La costruzione procede senza intoppi da questa parte del varco: Gennaro e Bravante ci forniscono travertino e assi di legno che hanno ottenuto dalla demolizione di parte del nostro monastero, ufficiosamente adibita a nuovo orto. Inoltre hanno diffuso, come convenuto, il nostro trasferimento e pellegrinaggio nella lontana Catalogna come scusa per la nostra improvvisa assenza. A giudicare dalle lettere che ci inviano attraverso la porta, puntualmente all'ora di pranzo, sembra che sia stata una menzogna convincente. Le giornate si susseguono lentamente, tra lavoro fisico e preghiera, e su di noi pesa la mole dell'incarico a cui ci siamo dediti. Abbiamo fatto in modo che la nostra mortalità non ostacolasse l’opera di veglia che avremmo dovuto compiere. Il rito presente nel libro era stato specificamente ideato per scovare un luogo in cui l'uomo potesse vivere in eterno, senza le pene dell'invecchiamento, i nostri corpi cristallizzati nelle condizioni in cui siamo entrati in questo posto: era quasi una coincidenza troppo perfetta, in linea con la mia idea di prigione ideale, ma a caval donato non si guarda in bocca. È importante specificare però che il tempo di questo mondo e il tempo sulla Terra scorrono di pari passo: se per noi passa un'ora, per Gennaro dall'altra parte del varco passa un'ora, se per noi passa un minuto, per Gennaro passa un minuto. E nonostante la mancanza di un sole o di una luna, riusciamo a mantenere un rudimentale senso del tempo tramite le notizie che riceviamo una volta al giorno, regolarmente all'ora di pranzo. Note sul procedimento dei lavori, sulle faccende di mondo, e su quanto manchiamo ai nostri fratelli. Le conserviamo e le aspettiamo con ansia, ultimi ricordi di ciò che ci siamo lasciati alle spalle. Anche Gennaro e Bravante ci mancano, ed è un vero peccato non poter rispondere. Siamo chiusi in questa bolla, una strada a senso unico; che sia stata una decisione avventata, la mia? No, non credo proprio: se viene dal cuore, dallo spirito, dalla ragione e dal timor di Dio, non può che essere una decisione giusta.
Romano chiuse il libro, e si avviò nuovamente sulla rampa di scale intagliata nel perimetro interno del campanile. In meno tempo rispetto a prima, o almeno così gli sembrò, la sua testa sbucò in un ambiente estremamente illuminato; il reticolo era quasi del tutto esposto, e sembrava pulsare, emettendo una luce intermittente, anche se non fastidiosa alla vista. Nella stanza vi erano quelle che parevano brande, appoggiate al pavimento e munite di coperte piuttosto logore. Erano disposte a cerchio, in sei gruppi da due. Al centro, vi era un qualche mobile in castagno, munito di due cassetti più piccoli a destra e di uno scomparto più grande a sinistra, e al di sopra era poggiato il diario dell’abate. Rodrigo non perse tempo a controllare i contenuti di suddetti cassetti, sfogliò quasi nervosamente le pagine in cerca del testo. Più tempo passava in quel luogo, più si sentiva intrappolato, ingabbiato. Aveva bisogno di uscire.
Ho sbagliato: avrei dovuto ascoltare la Santa Sede, ma per qualche motivo la mia superbia, la mia sicurezza mi ha illuso, mi ha reso cieco di fronte all’evidenza. Una cosa alla volta, però, devo fare ordine nella mia testa. Tre giorni fa ci è arrivato il pezzo finale, la campana del nostro convento. Avevamo due campanili, quindi ci eravamo messi d’accordo che ne avremmo demolito uno. I fratelli ci avevano confermato che ancora non vi era alcun sospetto riguardo alla nostra repentina scomparsa, anzi, che la scala del nostro pellegrinaggio avesse reso il convento ancora più prestigioso. Era veramente un momento di festa, montare l'ultimo pezzo della nostra opera.
E proprio nel bel mezzo delle celebrazioni generali ho notato qualcosa che non andava. Era una sensazione strisciante, anche se quasi trascurabile, di non essere solo: sentivo migliaia di occhi fissarmi dritto nell’anima. Mi girai verso i fratelli: avevano smesso di abbracciarsi, di lodare la provvidenza. Erano immobili, inquieti, nel loro sguardo vedevo un improvviso terrore. All’inizio li richiamai all’attenzione; forse i compagni dall’altro lato ci avevano consegnato il primo prigioniero, e stava a noi intrappolarlo. Cercammo di eliminare i pensieri dalla mente, imbracciammo i crocifissi e, rivolti verso la porta, iniziammo a proferire le incantazioni esorciste più potenti in nostra conoscenza. Stessa angoscia e stesso terrore. Non avevamo a che fare con un demone, me lo sentivo, perché almeno lo avremmo costretto a manifestarsi. Apparentemente dal nulla una nebbia strisciante iniziò a circondarci, arrivando dall'orizzonte con la velocità di una valanga, grigia, densa: fu questione di pochi istanti, e quella che pochi secondi prima sembrava una linea nera in lontananza soffocò le nostre urla in una coltre di tutto e nulla. Poi li vedemmo: e quando li guardammo, in silenzio, furono loro ad urlare. Erano centinaia, semitrasparenti, informi, liquidi, che ci squadravano: i loro corpi si disfacevano nella nebbia, per poi ritornare alle forme originarie e ripetere il processo, ciascuno smembrandosi e ricomponendosi in una maniera a lui unica, urlando di grida soffocate. Si muovevano in cerchio, quasi a circondarci, come cani su di una carcassa in putrefazione. E dopo qualche interminabile secondo, avvenne. Uno nella turba si fiondò verso il muro del campanile, e con un urlo lancinante si schiantò su di esso, facendoci balzare all'indietro. In quel poco che potevamo distinguere nella nebbia vedemmo il suo corpo sciogliersi e sentire, tastare ogni singola feritoia, ogni singola crepa nelle rocce, come in frenetica ricerca di qualcosa, le sue urla penose sempre più soffocate. E volò via, fracassandosi al suolo in silenzio tombale. La sua massa iniziò ad estendersi e cambiare forma, formando prima un ciottolato, poi la base di una torre, e, nel nostro stupore terrorizzato, un campanile del tutto identico a quello che avevamo appena completato, con un sospiro misto di dolore e sollievo. Vi fu un attimo di muto attonimento, poi la turba crollò sulle nostre teste, e nella cacofonia degli urli spettrali che si schiantavano prima sul nostro campanile e poi sul suolo ci riparammo le orecchie e chiudemmo gli occhi, pregando il nostro Signore e Salvatore affinché, qualsiasi cosa stesse avvenendo, finisse al più presto. Non so quanto tempo passò, forse minuti, forse ore: alla fine, però, si spense l'ultimo lamento di quelle creature, e riaprimmo gli occhi. Eravamo circondati da campanili bianchi, bucherellati da feritoie, illuminati da una strana ed eterea luce gialla opaca, con una campana bronzea a nuoto nella nebbia e fissati su una base di ciottoli identici a quelli del nostro convento. Le espressioni dei miei fratelli rimarranno per sempre marchiate a fuoco nella mia mente, la bocca aperta e gli occhi sbarrati: il Padre è testimone della mia sincerità, e del mio stupore. Mi ripresi per primo, e ancora scioccato condussi gli altri dentro al nostro campanile. Che Dio sia con noi, e ci assista nel capire di cosa siamo stati testimoni.
Era la prima volta che la parte scritta della pagina terminava a metà di una facciata. Rodrigo si fermò, aggrappandosi al leggio per cercare di mantenere la calma. La sua voglia di trovare nuove informazioni era offuscata dal timore per ciò che lo attendeva; ancora un piano, ancora una pagina di questa storia da consultare. Ancora un racconto. La tentazione di abbandonare l'impresa e correre via da quell'edificio era enorme, un elefante nel terrario della sua mente. Poi ripensò ad Esmeralda, a cosa poteva esserle successo. E si fece forza. Mise il primo piede sulla scalinata, chiuse gli occhi, inspirò profondamente. Guardò verso l’alto, in atteggiamento di timorosa sfida, e iniziò a salire.
La nebbia penetrava all’interno della struttura, come se fosse all’aperto; come prima, non sentiva assolutamente nulla, né freddo, né umido, né la voglia di uscire a prendere una boccata d’aria dopo tutto quel tempo chiuso nel campanile. Riusciva a scorgere una luce estremamente intensa, che circondava una zona quasi emisferica sopra alla torre e che, nonostante tutto, aveva difficoltà a tagliarsi la strada attraverso la nebbia. Al centro gli sembrò di notare qualcosa di possente. La visibilità era estremamente ridotta, meno di mezzo metro, e ad ogni passo si appoggiava con una mano al muro per non cadere, brandendo nell’altra la trave che aveva trovato nel primo piano, come un uomo brandisce un bastoncino temendo che una tigre gli balzi addosso in ogni istante. Il pavimento dell’ultimo piano presentava numerose una gran quantità di condensa, e, anche se non riusciva a percepire la sensazione di umido, Rodrigo volle comunque prestare molta attenzione a non cadere e perdere i sensi in quella terra. Si girò alla sua destra, quasi per caso, e per poco non cadde a terra dallo spavento.
Davanti a lui vi era uno scheletro, inginocchiato. Indossava un saio logoro e un rosario di legnetti legati insieme da una corda di canapa, apparentemente fusi al resto del suo corpo. Era in posizione di preghiera, mani congiunte, teschio leggermente chino verso il basso, orbite vuote, bocca semiaperta, come se fosse stato interrotto bruscamente nella pronuncia di un qualche discorso. Che fosse questo uno dei monaci? Se sì, che fine avevano fatto gli altri? E cosa gli era successo? L’agente vide con facilità una parte del reticolo, e, appoggiandoci la mano, iniziò ad usarlo come ringhiera; sembrava che la parte superiore fosse esclusivamente metallo anomalo, senza alcuna traccia di muri, e il tutto sorreggeva qualsiasi cosa fosse al centro. Dopo poco tempo, Rodrigo quasi inciampò in un altro cadavere, nella stessa posizione del precedente, e non passò molto tempo prima che si imbatté in un ulteriore monaco. Ne contò 11 in totale: solo undici.
Volle sapere cosa era al centro del piano. Iniziò ad avvicinarsi, e dopo un paio di passi riuscì a definire una forma curva, quasi conica, di grandi dimensioni. I suoi sospetti furono confermati quando davanti a sé trovò una campana, dal diametro di qualche metro. Era costruita interamente in bronzo, e nonostante l'aspetto antico sembrava completamente immune dallo scorrere del tempo e dall’umidità del luogo; il livello più basso presentava una linea di incisioni, scritte in una lingua che Rodrigo non conosceva. Sembravano pittogrammi, in qualche modo organizzati in una sintassi simile a quella dell'alfabeto latino e simili alle lettere greche, ma non ne era sicuro. L’agente iniziò a seguire il perimetro dell’elemento architettonico, accarezzandone la superficie con la mano sinistra, finché gli sembrò di vedere una zona annerita. Uno dei simboli era stato cancellato, bruciato via dalla superficie della campana. Rodrigo, inquieto, guardò sul lato opposto rispetto alla deturpazione. La luce delle sbarre metalliche verticali sembrava delineare due linee curve, come se qualcuno avesse forzatamente aperto la struttura. E, a giudicare dalla bombatura, l’apertura era stata realizzata dall’interno.
L’agente strinse la trave ancora di più, quasi a farsi male, e iniziò a guardarsi intorno, costantemente muovendo la propria testa a destra e a sinistra, pronto a fronteggiare qualsiasi cosa potesse saltare fuori dalla nebbia. Decise di continuare a esplorare la superfice alla campana, per valutarne lo stato, e si imbattè in un leggio. Legno scuro, aspetto identico a quello che aveva trovato per primo. Voleva leggere il diario, ma allo stesso tempo non voleva dedicare tutta la sua attenzione alla lettura. Alla fine si decise ad aprirlo e a sfogliare finché non trovò lo scritto. Non era semplice leggere in mezzo alla nebbia, ma riuscì comunque a distinguere i caratteri in inchiostro nero. Con grande riluttanza, si chinò a leggere le parole scritte nel libro.
Se qualcuno sta leggendo questo messaggio, sappia che io ho fallito miseramente il mio scopo. La prigione, il nostro esperimento, è ufficialmente terminato. Evidentemente, se osservi adesso questi periodi, c’è ancora da lottare: e sarai tu a dover lottare, perché nelle mie condizioni non credo di poter resistere a lungo.
L’altro ieri mi ha lasciato Mattia, ultimo fedele compagno nella sventura: ho messo il suo corpo come gli altri, in preghiera, probabilmente più per consolazione personale che per fermare qualsiasi cosa abbiamo risvegliato. Adesso è solo una questione di tempo, e che il Signore faccia pagare solo me per ciò che ho causato.
Aspettammo giorni chiusi nel campanile da noi costruito, guardando la nebbia infittirsi gradualmente intorno a noi e a quelle creature. Nessuno usciva a ricevere le missive, le provviste, i materiali di costruzione: rimanevano impilati al di fuori della porta della struttura, a marcire, mentre dentro morivamo di fame e di sete. L'unico ristoro dal nostro esilio volontario era la condensa che si formava sulle fredde pareti del nostro rifugio. Bastarono due, forse tre giorni per perdere il senso del tempo: e poi iniziammo a perdere compagni. Prima Vittorio, poi Cristoforo, Marco, Paolo, tutti ci abbandonarono con una morte lenta e dolorosa. A un certo punto, dopo forse settimane, eravamo rimasti in due. E fu allora che iniziai a sentire, per la prima volta dopo mesi, la sensazione dell'invecchiamento: dolore alla schiena, al ginocchio sinistro, al pollice destro. E fu allora che capii che cosa era successo.
Qualsiasi cosa fossero, quelle creature erano senza forma, senza stabilità, essenze pure senza caratterizzazioni fisse: nate, o più probabilmente esiliate in questo luogo, erano alla disperata ricerca di un contenitore, di caratteristiche che permettessero loro di esprimersi, di esistere in uno stato non tormentato. Se erano state esiliate, opzione molto probabile considerando il dolore che la condizione di non-definizione comportava per loro, erano da essere considerate creature estremamente potenti, imprigionate in questo luogo per fare sì che, dimenticando la propria forma, dimenticassero anche le loro capacità. Ma non avevano dimenticato, non ancora. Il nostro ingresso per loro era un'occasione d'oro: hanno aspettato nell'ombra, concedendoci tempo per costruire uno stampo, un oggetto in qualche modo simile ai loro ricordi tramite il quale potessero iniziare a recuperare le proprie memorie. Lo hanno copiato, incorporato, e adesso che a loro non serviamo più hanno smesso di spendere energie per mantenerci. Forse è meglio così. Forse è meglio che non possiamo più modificare questa realtà, una prigione prima ancora che noi la usassimo come tale. Soprattutto, è bene che nessuno possa più entrare e subire o addirittura influenzare il loro operato. Se, però, qualcuno sta leggendo queste pagine, segua il mio consiglio: non provi in alcun modo ad abbandonare questo luogo, ponga fine alla propria misera vita e lasci che il destino segua il proprio corso. E soprattutto non ti preoccupare, figlio mio: tu sarai il primo ad essere liberato dalla prigione che è la tua vita. E quei mostri pagheranno per avervi ridotto tutti in questo patetico stato.
OMNIS AEQUUS ANTE TEMPORE EST
La mente di Rodrigo, confusa, contemplò quelle parole per qualche secondo; poi andò alla pila di provviste e materiale di costruzione citato nel libro, e con sommo orrore si accorse di non averlo visto al di fuori della torre in cui era salito. E qualcosa nel suo cervello gli disse di correre. L'agente chiuse il libro, e con un balzo si precipitò alla cieca dove ricordava fossero le scale. Trovò solo pavimento pietroso. Alle sue spalle sentì un fruscio: si girò di scatto brandendo la trave, ma il movimento fu troppo brusco. I piedi scivolarono, e la testa andò a sbattere contro la campana, trovandola straordinariamente leggera.
Un rintocco.
Due rintocchi.
Tre rintocchi.
Si svegliò di soprassalto, il petto che si muoveva su e giù come un pistone, le mani affondate nelle coperte, il busto sollevato e sudato. Fuori dalla finestra, sentì il campanile rintoccare le sei di mattina; alla sua destra, Esmeralda dormiva ancora, beata, imbacuccata sotto le lenzuola. Ci volle un po’ prima che riuscisse a calmarsi; dalle sue labbra uscì un mezzo risolino di sfida, e la realizzazione.
Ce l’aveva fatta, finalmente: era libero!