Giuvà, perché sei sveglio?
La voce di sua madre percorse gli infiniti snodi della sua mente, accendendo il ricordo di quella notte in cui sua madre lo trovò sveglio a leggere di notte. D'altronde, come poteva non ripensarci ora?
L'orologio al suo polso segnava le tre e venti ed era lì, sul terrazzo del suo appartamento a fissare l'immensità della notte. Si sentiva rabbrividire nel suo pigiama di seta, eppure il freddo lo faceva sentire meglio; si sarebbe sentito a disagio se fosse mancato nel quadro di quel momento.
L'inquietudine che lo tormentava sfumava parzialmente in quelle ore e Giovanni Cristini benediceva ogni secondo di quel sollievo. Quando il mondo intero dorme, perché essere preoccupato?
Ma per quanto provasse a rilassarsi, i suoi ricordi ritornavano ad esigere vendetta e la sua coscienza puntava il dito contro di lui, ponendo la domanda ineluttabile.
Ne è valsa la pena, Giovanni?
Aveva divorziato da Marina dopo 15 anni di matrimonio, rinunciando all'idea di avere una moglie, di veder crescere i suoi figli adolescenti, di conoscere i suoi nipoti. Il prezzo dell'abbracciare il mondo nascosto, del diventare un ricercato, dell'aver smesso di invecchiare grazie alla taumaturgia.
Aveva 77 anni ma ne dimostrava a malapena poco più di 40, aveva più denaro di quanto non sognasse di averne quando discusse la sua tesi di dottorato, un appartamento lussuoso.
Ma bastava tutto ciò? Ne era veramente valsa la pena?
Si chiese se, non ironicamente, il problema fosse proprio quello della Fondazione.
Magari il mondo sarebbe stato pronto per i loro farmaci, magari proprio lui, Dr. Giovanni Cristini, biochimico, Direttore del Settore Ricerca e Sviluppo, avrebbe potuto vincere il Nobel che avrebbe reso obsoleto perfino il concetto di Premio Nobel. Magari non avrebbe dovuto lasciare per sempre Marina e i ragazzi.
Quando era stata l'ultima volta che aveva parlato a qualcuno della sua vecchia famiglia? Forse un aperitivo con Giorgio o Mauro? Era stato prima o dopo il 1989? Prima o dopo la sera in cui tutto cambiò per sempre?
Sospirò e guardò il suo respiro condensarsi e disperdersi. Da vecchio classicista, si ricordò del doppio significato della parola Pneuma, respiro e anima, e si chiese quanto fosse rimasto della sua anima da sospirare via in queste notti. L'aveva forse esaurita pillola dopo pillola, o era rimasta intera, stretta nelle grinfie di Fausto Farnesi? Non l'aveva forse venduta a lui e al demone che l'aveva concepito?
Per un attimo si pentì di quel pensiero.
Troppe cose non sfuggivano ai suoi occhi e alle sue orecchie. Ciò che un tempo aveva chiamato Daniele Giacometti, e che ora agonizzava in una gabbia del Laboratorio 5C, ne era la prova.
Sospirò ancora e ciò lenì parzialmente la sua pena.
Era stata paura, come lo era stato per tutti, ma non aveva mai girato la testa a quello che avevano fatto, a quello che avevano imparato e guadagnato. Poteva fare cose che né Pauling, Pasteur o Boltzmann avevano mai immaginato, piegando molecole e batteri al suo volere. Aveva scoperto che dei e mostri esistevano, che la magia era la vera normalità e che tutto era un'illusione, una bugia forzata sul mondo.
Una bugia forzata sul mondo.
Silvia l'aveva sempre chiamata così, quando discutevano insieme del mondo in cui lui viveva da qualche decennio e lei, invece, era nata e cresciuta.
Gli aveva promesso che l'avrebbe portato a conoscere la sua famiglia a Benevento Vecchia, anche se lui sapeva che forse non sarebbe stato il benvenuto. Era troppo vecchio, troppo diverso, e lo avrebbero incolpato di essere stato lui a portare Silvia lontano dalla sua famiglia e dalle loro tradizioni secolari, usando la sua conoscenza della magia come mero mezzo per guadagnare denaro.
Ne avevano discusso proprio ieri a cena, ma lei era stata irremovibile: aveva 32 anni, era un'adulta capace di decidere e fare le sue scelte senza pentirsene. Aveva scelto lei di trasferirsi per l'università, di presentarsi ad un colloquio della Febris Farmaceutica, di lavorare per loro.
Aveva domato un dinosauro con la magia, come avrebbe potuto pentirsene?
E la loro relazione, iniziata un anno e mezzo fa, era l'ultima sua scelta di cui non si era mai pentita.
Ma lui invece, se ne stava forse pentendo? Poteva essere sua figlia, era una sua sottoposta. Non che Farnesi o il resto del Consiglio d'Amministrazione avrebbero potuto impedirglielo o anche solo fregarsene se avesse una relazione all'interno dell'azienda, fintantoché avesse continuato a fare il suo lavoro.
Questa sua inquietudine era forse una prova che ancora avesse un'anima?
Si portò le mani al viso e le lacrime iniziarono a colare. Ma nelle tenebre in cui era avvolto, nessuno lo udì, nessuno lo venne ad aiutare: anche questa notte, come ogni notte da quel giorno del 1989, Giovanni Cristini rimase solo nel suo dolore.