Battesimo

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Lo ricordo bene, era una bellissima mattinata. Era giugno, un sole deciso bussava sulle mura di Castel del Monte e sulle colline brulle nelle vicinanze per annunciare la prossimità dell’estate. Quasi neanche una nuvola in cielo.

Questo almeno era quello che riuscivo a vedere dalla finestra del piccolo ufficio in cui ero stato lasciato a girarmi i pollici da padre Stefano, il mio tutore, mentre andava a cercare un certo tipo con cui avrebbe dovuto parlare. Ci avevano fatti entrare in un’area chiusa al pubblico, inaspettatamente piena di uffici e salette incastonate tra le pareti di pietra del posto. Diciamo, ecco, che sono rimasto lì dentro da solo per almeno un quarto d’ora e sicuramente avevo un sacco di tempo per pensare.

L’ufficio in cui mi trovavo era disordinato, saturo di pile di documenti cartacei messi a riposo su degli spogli scaffali di acciaio fai-da-te. Tutto dava l’impressione di essere precario, come se si trattasse di un’area ancora in costruzione. A sinistra di questa parete vi era la finestra, quella che mi permetteva di avere ancora contatto con la realtà; e ancora a sinistra, opposti allo scaffale, una scrivania di legno scuro ospitava altri faldoni e documenti oltre a una piccola lampada che sembrava come quelle classiche da studio legale.

Ero nervoso? Forse un po’, anche se non sapevo per cosa esattamente. D’un tratto mi ero trovato lì, spaesato, lontano da Torino e dal convento in cui ho vissuto per 13 anni. Non che fossi contento di averci vissuto, anzi la notizia che me ne sarei andato mi aveva colto con una scarica elettrizzante all’inizio. ‘È ora di fare tesoro della tua situazione’ aveva detto padre Stefano prendendomi da parte un giorno, per poi spiegarmi che sarei dovuto entrare a far parte di qualcosa di grande e importante. Non avevo di certo capito nulla, ma accettai comunque, forse per provare qualcosa di nuovo. L’abate passò quindi gli anni che seguirono ad addestrarmi come un soldato, insegnarmi l’arte della spada e farmi studiare libri su libri, dispense, manuali e altre risorse su quello che poi capii essere il “mondo oltre il Velo”. Anomalie, creature, leggi della fisica invalide e chissà cos’altro.

Quello di cui ero sicuro è che padre Stefano faceva parte di una specie di ordine cavalleresco Vaticano e che stava lavorando con l’organizzazione segreta in cui poi sarei finito, la “Fondazione”. Certo anche questo mi aveva spiazzato particolarmente, ma preferii non fare alcuna domanda e sfruttare il fatto che finalmente avrei visto un po’ il mondo al di fuori dell’abbazia.

Me ne andai un attimo alla finestra per prendere una boccata d’aria e vidi il prete passeggiare nel cortile con un uomo in completo che, mentre discutevano, si stavano avvicinando all’ufficio in cui mi trovavo. Nella fretta di sistemarmi il colletto della camicia –la mia preferita, larghe righe verticali bianche, rosacee e color arancio pallido– mi accorsi che mi stavo di nuovo grattando il naso. Lo facevo sotto stress e mi capitava così spesso da avere bisogno di metterci un cerotto.

—Edoardo— Disse padre Stefano mentre entrava nella stanza —Questo è il dottor Franck.

—Edoardo Mattei, molto piacere. — Mi girai di scatto e porsi la mano all’uomo al suo fianco cercando di fare la miglior impressione possibile. Era alto e magro, sulla quarantina e aveva dei capelli chiari. Altoatesino, probabilmente. Portava un completo marrone, stile anni 70, confermato da una cravatta kaki che faceva un buon contrasto.

—Edoardo, il dottor Franck ti darà qualche informazione sulla Fondazione e ti farà fare un giro del Sito.

—D'accordo. — Ero pronto a liberarmi dalla dura morsa di padre Stefano ma mi dispiaceva tanto lasciare così quella che era stata di fatto la mia figura paterna, perciò cercai di addolcire la conversazione: —Buon viaggio, padre Stefano. Vi scriverò spesso e vi verrò a trovare quando sarò libero, non-

—Non giungere a conclusioni. Resto qui anche io. —

Non mossi un dito, concentrato com’ero a tenere il misto tra stupore e disappunto via dalla mia faccia. Anche se la mia bocca era rimasta mezza aperta.

—Accidenti, quanto entusiasmo. Ascolta, devi entrare nell'ottica: io divento anche il tuo capo. Resto qui a firmare delle carte, il dottor Franck ti porterà a conoscere la squadra. — Padre Stefano si sedette alla scrivania scura e si mise a cercare fogli in mezzo a quei faldoni sparsi, come per fare finta di nulla e ignorare il resto del mondo.

‘Squadra?’ Pensai io. Anche dopo tutta questa preparazione fisica e teorica ero un po’ preoccupato di chi mi sarei trovato davanti. Dopotutto Dio mi aveva portato qui e dovevo dimostrarmi all’altezza. Poco dopo che fummo usciti dall’ufficio il dottor Franck si sentì come in dovere di rompere il ghiaccio.

—Signor Mattei, sa che posto è questo? Non parlo del castello in sé, ma del posto in cui ci troviamo ora.

La sorpresa di sentirsi dare del “lei” mi colpì in positivo. Cercai di mostrarmi adulto ed educato. —Il Sito Deus, giusto?

—Il Sito di contenimento più antico della storia. Tra questa pietra sono confinate entità straordinarie e sconcertanti. — Potevo immaginare quali cose strane esistevano tra quelle mura umide e poco illuminate con un certo interesse, a dirla tutta. —Ma mi permetta, Mattei, immagino lei sappia perché si trova qui.

—…Sto per entrare nella Fondazione SCP?

—Signor Mattei, nella vita bisogna anche essere sicuri qualche volta. Lei sta per ottenere un lavoro che paga bene, ma qui crediamo nella proporzione tra retribuzione e responsabilità. — mi disse schiettamente —Lei sarà alla guida di una Squadra Speciale, la quale sancisce la collaborazione tra la Fondazione e i Cavalieri di San Giorgio.

Non ci rimasi male per la prima frase. Dopotutto era qualcosa che mi veniva detto almeno una volta a settimana.

—L'organizzazione anomala del Vaticano, giusto?

—Bravo, vedo che inizia a ingranare.

Tutte queste storie sulla squadra, la squadra speciale, la responsabilità mi stavano facendo venire il sudore freddo. Stando a quanto avevo studiato le SSM erano composte da membri d’élite abituati al lavoro sul campo della Fondazione.

Ecco che di nuovo mi accorsi di avere un dito che mi grattava il naso.

‘Ma allora perché io?’ era la domanda che mi ronzava nel cranio dall’inizio della camminata. Senza che me ne accorgessi, inoltre, eravamo arrivati davanti a una porta in legno, dove una targa di ottone posta su di essa leggeva 'SSM-XIII'. Squadra Speciale Mobile Tredici. Cristo Santo.

—Eccoci arrivati— Prima che quell’uomo dicesse altro mentre allungava vertiginosamente la mano verso la maniglia io lo fermai all’istante: —Dottor Franck, deve scusarmi… Non se la prenda se glielo dico, ma io, vede… Io ho zero esperienze quando si parla di contenimento di anomalie…

Dovevo essere sincero e lo ero stato. All’istante un'ondata di sudore freddo mi percorse la schiena, ma subito dopo sentii il mio stomaco liberarsi almeno un po’. Poi però, sempre nello stesso istante, mi pentii subito di aver detto quella cosa. Pensavo "Ecco, adesso si arrabbia. Adesso mi sgriderà per avergli fatto perdere tutto questo tempo, per averlo fatto parlare con padre Stefano, per aver stretto accordi che ora salteranno per aria con chissà chi… E padre Stefano! Quanto sarà deluso da me dopo questa scena. Ora mi odierà per anni, questa cosa è troppo importante… Un’altra delusione. Torneremo a Torino, passerà un po’ di tempo e poi tornerò alla solita vita."

Il Dottor Franck si girò di scatto e mi guardò per un attimo con una nota di sorpresa, poi sorrise guardando un punto qualsiasi nel vuoto tra me e il muro: —Oh, ma di questo non deve affatto preoccuparsi! Lei è proprio allo stesso livello dei suoi colleghi. Questo è il vostro quartier generale, presto li conoscerà.


Una volta aperta la porta mi trovai davanti un grande ufficio ordinato e ben arredato, con due piccole finestre che davano sul cortile interno. Sul lato sinistro, dove si concentrava l’illuminazione elettrica, si trovava un grande tavolo dotato di 6 sedie foderate, una scrivania in fondo alla sala e una minuta zona dispensa dotata di frigorifero, divanetti e fornetto a microonde. In fondo, sulla destra, si trovava una porta che doveva condurre ai guardaroba.
Sui divanetti a destra c’erano due delle sagome dei miei futuri compagni, ma appena misi piede nella sala non feci nemmeno in tempo a metterle a fuoco che la terza figura mi si schiantò addosso.

—Ciao! Scusa, posso appoggiarmi? Suppongo di sì, visto che sono già qua. Ho perso l'equilibrio per un attimo.

Ad avermi investito sull’uscio erano stati un gradevole profumo di donna e un’allegra e amichevole voce femminile. Non che mi desse fastidio sinceramente, ma tra il caldo e la sudata fredda di poco prima oltre alla faccia distrutta dal viaggio e i capelli che non aderivano ad alcuna corrente artistica classica ero abbastanza sicuro di risultare impresentabile.

—D’accordo! — Sentenziò Franck con un allegro battito di mani —Vi lascio alle presentazioni, tra non molto tornerò a spiegarvi come funziona il tutto.

Detto questo uscì dalla stanza e lasciò appesa su di me quella ragazza. Bionda, i capelli raffazzonati e raccolti in due bulbi simmetrici sulla sua testa che le davano una sagoma da Topolino. Per quell’istante, lunghissimo nella mia testa, in cui la squadrai per capire chi avevo davanti mi guardava fisso negli occhi, probabilmente per lo stesso motivo, con due pupille azzurre come il cielo poste dietro a due lenti ovali. Queste a loro volta erano tenute insieme da una montatura metallica dorata. Vestiva con dei pantaloni marroni e una camicia color grigio scuro, che però aveva polsini e colletto rigidi e bianchi, e le spalline leggermente bombate. Portava due anelli sulla mano destra e, dal peso che sentivo sulla mia spalla, almeno un altro sulla mano sinistra. Proprio con la destra teneva in mano un bastone da passeggio in legno scuro, che evidentemente usava per camminare e stare in equilibrio. Come anche io e tutti gli altri portava un crocifisso al collo.

—Eccoci qua. — Finalmente si rimise in piedi sulle sue gambe —Piacere, sono Maria Chiara. Cecchini, dimentico sempre di dire il cognome. Tu devi essere Edoardo Mattei, giusto?

—Ciao… Sì, eheh, sono io… molto piacere.

Mi riaggiustai la camicia nei pantaloni, marroni anche i miei, tenuti sui fianchi grazie a una cintura in cuoio scuro.
Nel frattempo anche gli altri due si erano alzati per le presentazioni: tesi la mano per primo al ragazzo abbronzato, che mi si stava avvicinando con uno sguardo allegro scaturito dal suo viso amichevole. Questo era completato da due occhi castani, a metà fra marroni e grigi, e una chioma bionda spettinata ma tirata indietro che si protraeva fino alla base del suo collo.
Lui rispose alla mia mano con una stretta verso l'alto, come quelle che ci si scambia tra ragazzi che si conoscono da una vita.

—Samuele Curteni, chiamami Sam. — Fece, sorridendo. La sua presenza mi dava sollievo.

—Io sono Laura Delverde.

Davanti a me si era posta l'ultima figura sconosciuta. Una ragazza che mi aveva improvvisamente tolto il fiato. Un accento alpino e una mano poggiata sul fianco sinistro. Capelli rossi in un caschetto gonfio e arruffato, la cui frangetta guidava gli occhi del fortunato spettatore dritti verso delle luminose pupille verdi che, nonostante lo sguardo indifferente, risaltavano sulla sua carnagione molto pallida. A completare quel volto, delle leggere lentiggini campeggiavano sui suoi zigomi.

Indossava pantaloni rossi carminio, che nascondevano piuttosto bene gli stivaloni militari che aveva ai piedi. Se in quella stanza non ci fosse stata aria condizionata, non sarei stato capace di spiegarmi come faceva a non morire indossando quella maglia nera a collo alto.
Infine c'era quel suo sguardo, indifferente ma penetrante, che mi impediva di formare pensieri definiti nel cervello.

—Edoardo, p-piacere. — Che figura di merda.

—Mh— Fece lei, con tono un po' sgarbato —Non sembri avere molto la stoffa da capo, scusa la schiettezza.

Capo? No, non potevo peggiorare la figuraccia. Dovevo almeno far finta di sapere che sarei stato caposquadra. Cercai di mantenere un'espressione imperturbata senza potermi rendere conto, mio malgrado, se stessi riuscendo nell'impresa.

Che mega figura di merda.

Facendo per ignorare l'infelice scambio di battute, Maria Chiara prese la parola: —Allora ragazzi, voi di dove siete?

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