Lo ricordo bene, era una bellissima mattinata. Era giugno, un sole deciso bussava sulle mura di Castel del Monte e sulle colline brulle nelle vicinanze per annunciare la prossimità dell’estate. Quasi neanche una nuvola in cielo.
Questo almeno era quello che riuscivo a vedere dalla finestra del piccolo ufficio in cui ero stato lasciato a girarmi i pollici da padre Stefano, il mio tutore, mentre andava a cercare un certo tipo con cui avrebbe dovuto parlare. Ci avevano fatti entrare in un’area chiusa al pubblico, inaspettatamente piena di uffici e salette incastonate tra le pareti di pietra del posto. Diciamo, ecco, che sono rimasto lì dentro da solo per almeno un quarto d’ora e sicuramente avevo un sacco di tempo per pensare.
L’ufficio in cui mi trovavo era disordinato, saturo di pile di documenti cartacei messi a riposo su degli spogli scaffali di acciaio fai-da-te. Tutto dava l’impressione di essere precario, come se si trattasse di un’area ancora in costruzione. A sinistra di questa parete vi era la finestra, quella che mi permetteva di avere ancora contatto con la realtà; e ancora a sinistra, opposti allo scaffale, una scrivania di legno scuro ospitava altri faldoni e documenti oltre a una piccola lampada che sembrava come quelle classiche da studio legale.
Ero nervoso? Forse un po’, anche se non sapevo per cosa esattamente. D’un tratto mi ero trovato lì, spaesato, lontano da Torino e dal convento in cui ho vissuto per 13 anni. Non che fossi contento di averci vissuto, anzi la notizia che me ne sarei andato mi aveva colto con una scarica elettrizzante all’inizio. ‘È ora di fare tesoro della tua situazione’ aveva detto padre Stefano prendendomi da parte un giorno, per poi spiegarmi che sarei dovuto entrare a far parte di qualcosa di grande e importante. Non avevo di certo capito nulla, ma accettai comunque, forse per provare qualcosa di nuovo. L’abate passò quindi gli anni che seguirono ad addestrarmi come un soldato, insegnarmi l’arte della spada e farmi studiare libri su libri, dispense, manuali e altre risorse su quello che poi capii essere il “mondo oltre il Velo”. Anomalie, creature, leggi della fisica invalide e chissà cos’altro.
Quello di cui ero sicuro è che padre Stefano faceva parte di una specie di ordine cavalleresco Vaticano e che stava lavorando con l’organizzazione segreta in cui poi sarei finito, la “Fondazione”. Certo anche questo mi aveva spiazzato particolarmente, ma preferii non fare alcuna domanda e sfruttare il fatto che finalmente avrei visto un po’ il mondo al di fuori dell’abbazia.
Me ne andai un attimo alla finestra per prendere una boccata d’aria e vidi il prete passeggiare nel cortile con un uomo in completo che, mentre discutevano, si stavano avvicinando all’ufficio in cui mi trovavo. Nella fretta di sistemarmi il colletto della camicia –la mia preferita, larghe righe verticali bianche, rosacee e color arancio pallido– mi accorsi che mi stavo di nuovo grattando il naso. Lo facevo sotto stress e mi capitava così spesso da avere bisogno di metterci un cerotto.
—Edoardo— Disse padre Stefano mentre entrava nella stanza —Questo è il dottor Franck.
—Edoardo Mattei, molto piacere. — Mi girai di scatto e porsi la mano all’uomo al suo fianco cercando di fare la miglior impressione possibile. Era alto e magro, sulla quarantina e aveva dei capelli chiari. Altoatesino, probabilmente. Portava un completo marrone, stile anni 70, confermato da una cravatta kaki che faceva un buon contrasto.
—Edoardo, il dottor Franck ti darà qualche informazione sulla Fondazione e ti farà fare un giro del Sito.
—D'accordo. — Ero pronto a liberarmi dalla dura morsa di padre Stefano ma mi dispiaceva tanto lasciare così quella che era stata di fatto la mia figura paterna, perciò cercai di addolcire la conversazione: —Buon viaggio, padre Stefano. Vi scriverò spesso e vi verrò a trovare quando sarò libero, non-
—Non giungere a conclusioni. Resto qui anche io. —
Non mossi un dito, concentrato com’ero a tenere il misto tra stupore e disappunto via dalla mia faccia. Anche se la mia bocca era rimasta mezza aperta.
—Accidenti, quanto entusiasmo. Ascolta, devi entrare nell'ottica: io divento anche il tuo capo. Resto qui a firmare delle carte, il dottor Franck ti porterà a conoscere la squadra. — Padre Stefano si sedette alla scrivania scura e si mise a cercare fogli in mezzo a quei faldoni sparsi, come per fare finta di nulla e ignorare il resto del mondo.
‘Squadra?’ Pensai io. Anche dopo tutta questa preparazione fisica e teorica ero un po’ preoccupato di chi mi sarei trovato davanti. Dopotutto Dio mi aveva portato qui e dovevo dimostrarmi all’altezza. Poco dopo che fummo usciti dall’ufficio il dottor Franck si sentì come in dovere di rompere il ghiaccio.
—Signor Mattei, sa che posto è questo? Non parlo del castello in sé, ma del posto in cui ci troviamo ora.
La sorpresa di sentirsi dare del “lei” mi colpì in positivo. Cercai di mostrarmi adulto ed educato. —Il Sito Deus, giusto?
—Il Sito di contenimento più antico della storia. Tra questa pietra sono confinate entità straordinarie e sconcertanti. — Potevo immaginare quali cose strane esistevano tra quelle mura umide e poco illuminate con un certo interesse, a dirla tutta. —Ma mi permetta, Mattei, immagino lei sappia perché si trova qui.
—…Sto per entrare nella Fondazione SCP?
—Signor Mattei, nella vita bisogna anche essere sicuri qualche volta. Lei sta per ottenere un lavoro che paga bene, ma qui crediamo nella proporzione tra retribuzione e responsabilità. — mi disse schiettamente —Lei sarà alla guida di una Squadra Speciale, la quale sancisce la collaborazione tra la Fondazione e i Cavalieri di San Giorgio.
Non ci rimasi male per la prima frase. Dopotutto era qualcosa che mi veniva detto almeno una volta a settimana.
—L'organizzazione anomala del Vaticano, giusto?
—Bravo, vedo che inizia a ingranare.
Tutte queste storie sulla squadra, la squadra speciale, la responsabilità mi stavano facendo venire il sudore freddo. Stando a quanto avevo studiato le SSM erano composte da membri d’élite abituati al lavoro sul campo della Fondazione.
Ecco che di nuovo mi accorsi di avere un dito che mi grattava il naso.
‘Ma allora perché io?’ era la domanda che mi ronzava nel cranio dall’inizio della camminata. Senza che me ne accorgessi, inoltre, eravamo arrivati davanti a una porta in legno, dove una targa di ottone posta su di essa leggeva 'SSM-XIII'. Squadra Speciale Mobile Tredici. Cristo Santo.
—Eccoci arrivati— Prima che quell’uomo dicesse altro mentre allungava vertiginosamente la mano verso la maniglia io lo fermai all’istante: —Dottor Franck, deve scusarmi… Non se la prenda se glielo dico, ma io, vede… Io ho zero esperienze quando si parla di contenimento di anomalie…
Dovevo essere sincero e lo ero stato. All’istante un'ondata di sudore freddo mi percorse la schiena, ma subito dopo sentii il mio stomaco liberarsi almeno un po’. Poi però, sempre nello stesso istante, mi pentii subito di aver detto quella cosa. Pensavo "Ecco, adesso si arrabbia. Adesso mi sgriderà per avergli fatto perdere tutto questo tempo, per averlo fatto parlare con padre Stefano, per aver stretto accordi che ora salteranno per aria con chissà chi… E padre Stefano! Quanto sarà deluso da me dopo questa scena. Ora mi odierà per anni, questa cosa è troppo importante… Un’altra delusione. Torneremo a Torino, passerà un po’ di tempo e poi tornerò alla solita vita."
Il Dottor Franck si girò di scatto e mi guardò per un attimo con una nota di sorpresa, poi sorrise guardando un punto qualsiasi nel vuoto tra me e il muro: —Oh, ma di questo non deve affatto preoccuparsi! Lei è proprio allo stesso livello dei suoi colleghi. Questo è il vostro quartier generale, presto li conoscerà.
Una volta aperta la porta mi trovai davanti un grande ufficio ordinato e ben arredato, con due piccole finestre che davano sul cortile interno. Sul lato sinistro, dove si concentrava l’illuminazione elettrica, si trovava un grande tavolo dotato di 6 sedie foderate, una scrivania in fondo alla sala e una minuta zona dispensa dotata di frigorifero, divanetti e fornetto a microonde. In fondo, sulla destra, si trovava una porta che doveva condurre ai guardaroba.
Sui divanetti a destra c’erano due delle sagome dei miei futuri compagni, ma appena misi piede nella sala non feci nemmeno in tempo a metterle a fuoco che la terza figura mi si schiantò addosso.
—Ciao! Scusa, posso appoggiarmi? Suppongo di sì, visto che sono già qua. Ho perso l'equilibrio per un attimo.
Ad avermi investito sull’uscio erano stati un gradevole profumo di donna e un’allegra e amichevole voce femminile. Non che mi desse fastidio sinceramente, ma tra il caldo e la sudata fredda di poco prima oltre alla faccia distrutta dal viaggio e i capelli che non aderivano ad alcuna corrente artistica classica ero abbastanza sicuro di risultare impresentabile.
—D’accordo! — Sentenziò Franck con un allegro battito di mani —Vi lascio alle presentazioni, tra non molto tornerò a spiegarvi come funziona il tutto.
Detto questo uscì dalla stanza e lasciò appesa su di me quella ragazza. Bionda, i capelli raffazzonati e raccolti in due bulbi simmetrici sulla sua testa che le davano una sagoma da Topolino. Per quell’istante, lunghissimo nella mia testa, in cui la squadrai per capire chi avevo davanti mi guardava fisso negli occhi, probabilmente per lo stesso motivo, con due pupille azzurre come il cielo poste dietro a due lenti ovali. Queste a loro volta erano tenute insieme da una montatura metallica dorata. Vestiva con dei pantaloni marroni e una camicia color grigio scuro, che però aveva polsini e colletto rigidi e bianchi, e le spalline leggermente bombate. Portava due anelli sulla mano destra e, dal peso che sentivo sulla mia spalla, almeno un altro sulla mano sinistra. Proprio con la destra teneva in mano un bastone da passeggio in legno scuro, che evidentemente usava per camminare e stare in equilibrio. Come anche io e tutti gli altri portava un crocifisso al collo.
—Eccoci qua. — Finalmente si rimise in piedi sulle sue gambe —Piacere, sono Maria Chiara. Cecchini, dimentico sempre di dire il cognome. Tu devi essere Edoardo Mattei, giusto?
—Ciao… Sì, eheh, sono io… molto piacere.
Mi riaggiustai la camicia nei pantaloni, marroni anche i miei, tenuti sui fianchi grazie a una cintura in cuoio scuro.
Nel frattempo anche gli altri due si erano alzati per le presentazioni: tesi la mano per primo al ragazzo abbronzato, che mi si stava avvicinando con uno sguardo allegro scaturito dal suo viso amichevole. Questo era completato da due occhi castani, a metà fra marroni e grigi, e una chioma bionda spettinata ma tirata indietro che si protraeva fino alla base del suo collo.
Lui rispose alla mia mano con una stretta verso l'alto, come quelle che ci si scambia tra ragazzi che si conoscono da una vita.
—Samuele Curteni, chiamami Sam. — Fece, sorridendo. La sua presenza mi dava sollievo.
—Io sono Laura Delverde.
Davanti a me si era posta l'ultima figura sconosciuta. Una ragazza che mi aveva improvvisamente tolto il fiato. Un accento alpino e una mano poggiata sul fianco sinistro. Capelli rossi in un caschetto gonfio e arruffato, la cui frangetta guidava gli occhi del fortunato spettatore dritti verso delle luminose pupille verdi che, nonostante lo sguardo indifferente, risaltavano sulla sua carnagione molto pallida. A completare quel volto, delle leggere lentiggini campeggiavano sui suoi zigomi.
Indossava pantaloni rossi carminio, che nascondevano piuttosto bene gli stivaloni militari che aveva ai piedi. Se in quella stanza non ci fosse stata aria condizionata, non sarei stato capace di spiegarmi come faceva a non morire indossando quella maglia nera a collo alto.
Infine c'era quel suo sguardo, indifferente ma penetrante, che mi impediva di formare pensieri definiti nel cervello.
—Edoardo, p-piacere. — Che figura di merda.
—Mh— Fece lei, con tono un po' sgarbato —Non sembri avere molto la stoffa da capo, scusa la schiettezza.
Capo? No, non potevo peggiorare la figuraccia. Dovevo almeno far finta di sapere che sarei stato caposquadra. Cercai di mantenere un'espressione imperturbata senza potermi rendere conto, mio malgrado, se stessi riuscendo nell'impresa.
Che mega figura di merda.
Facendo per ignorare l'infelice scambio di battute, Maria Chiara prese la parola: —Allora ragazzi, voi di dove siete?
Ricostruzione dell'incidente avvenuto il ██/06/2021 a Rimini, coordinate 44°██'██", 12°██'██".
Intorno alle ore 9.10 del mattino è stato registrato dalle telecamere di sorveglianza un evento anomalo in una piccola area appartenente alla concessione balneare N.██. Tutti i civili in un raggio di 5 metri sono entrati in uno stato di trance e hanno iniziato a intonare varie preghiere in lingue diverse, appartenenti a diversi credi religiosi. Le formule recitate sono state descritte dai testimoni (pochi, fortunatamente a causa della stagione balneare non ancora cominciata) come riguardanti il tema della penitenza e del perdono.
Dopo circa 10 minuti di vocalizzazioni, le persone interessate hanno iniziato a infliggersi atti di penitenza individuale. Sono stati descritti come punizioni corporali e atti di autolesionismo, tra cui:
- Flagellazione;
- Rimozione dei propri capelli;
- Tagli che mostrano simboli religiosi, parareligiosi o tartarei;
- Rimozione dei propri bulbi oculari;
- Automutilazione.
A seguire, un'attacco di isteria di massa si è fatto strada fra i superstiti, i quali hanno cominciato a combattere e ferirsi fra di loro. Al termine dell'evento, i corpi di tutti i civili interessati erano a terra e delineavano un disegno di un glifo esoterico osservabile dall'alto.
Il glifo esoterico a cui è stata ricondotta la figura formata dai corpi.
Si nota che i fluidi corporei e le parti mutilate dai corpi principali sono svaniti prima di toccare terra durante l'evento. All'arrivo dei primi agenti della Fondazione i corpi erano già in posizione da pochi minuti e nessuna macchia di fluidi o parti del corpo al di fuori del disegno erano presenti. Nessun segno di decomposizione è stato osservato sui corpi dai medici della Fondazione.
Dopo le interviste, sono stati inoculati amnestici a tutti i presenti e i civili sono stati allontanati dall'area. La concessione balneare è stata chiusa al pubblico e l'evento è stato mascherato tramite la diffusione della notizia di un attacco terroristico.
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Da: ten.pcs|9-5S#ten.pcs|9-5S
Oggetto: Evento anomalo del ██/06/2021
L'evento di Rimini è accaduto con tempismo perfetto. Sarà un'ottima occasione per mettere in moto la nuova SSM-XIII. Li voglio pronti al trasporto in un'ora, dovranno iniziare le indagini immediatamente.
La mattinata passò senza difficoltà. La geniale mossa di Cecchini ci permise di rompere un po' il ghiaccio e di fare amicizia, o almeno di tollerarci a vicenda. Chiacchierare aveva fatto bene a tutti: anche a Delverde, che ancora mi guardava con un po' di astio ma si era rivelata meno scorbutica di quanto credessi.
Nonostante la stanchezza del viaggio, il caldo e la mia visibile confusione, riuscii a essere presente nella conversazione senza troppa fatica: fino ad ora ero riuscito a ricavare che avevamo tutti più o meno la stessa età, ma il più grande, di poco meno di un anno, era Sam. Cecchini era nata e cresciuta a Roma, in Vaticano, e sentire che aveva già una laurea in teologia e una in lettere alla nostra età mi aveva colpito profondamente. Delverde, invece, veniva dal canton Ticino; da un paese che si chiamava Riva San Vitale, a pochi minuti da Chiasso e Sam, come potevo immaginare dall'accento, era Siciliano. Di Trapani, per la precisione.
Nonostante l'ottimo inizio, gli argomenti iniziavano a scarseggiare. ―Uhm… Quindi… Uh…― Balbettava Sam, che, da quanto stavo capendo, si trovava piuttosto in difficoltà con il silenzio imbarazzante.
―… Mattei, tu quindi… Cioè, ecco, Severini è il tuo patrigno?
―Beh, possiamo dirla così… è stato il mio tutore fino alla maggiore età e, al di fuori di nonna Linda, che però è un po' demente, non ho altre figure che possa chiamare "parenti", ecco.
Mi sentii di rispondere chiaramente. Per quanto agli occhi degli altri la mia situazione problematica potesse essere quasi un tabù, non ho mai avuto problemi a parlarne. Insomma, meglio togliersi subito il cerotto piuttosto che aggirare la cosa fino a ché non avesse causato loro imbarazzo scoprirlo tramite una domanda più personale. Finalmente fu il dottor Franck a comparire dalla porta, interrompendo la conversazione ormai morente.
Portava con sé un grosso scatolone poggiato su un carrello: Era abbastanza grande da poterci nascondere qualcuno.
―Rieccomi! ― Annunciò, mentre parcheggiava e apriva la scatola ―Le vostre spade d'ordinanza sono arrivate ieri da Castel Sant'Angelo, le trovate al piano di sotto, nella palestra. Prima però, vi ho portato le armi a munizioni di argento. Sono un po' vecchie, ma funzionano alla grande: scegliete pure quello che vi pare.
Come gli altri, non riuscii a frenare la curiosità e mi affacciai dentro lo scatolone: vecchi fucili e pistole erano ammassati in un mucchio di acciaio impolverato, ma fortunatamente privo di ruggine. Fui subito deluso, sapendo che avrei dovuto gestire la manutenzione delle mie armi al più presto.
Tempo dopo ci avrebbero raccontato come si trattasse di armi raccolte durante vecchie missioni o qualche tipo di scambio, o addirittura ereditate dal vecchio RIDIA. Per fortuna, ci strappò una risata.
Anche questa volta ero rimasto a grattarmi il naso mentre i miei colleghi sceglievano il loro pezzo preferito. Un bel fucile a leva per Sam, dotato di motivi argentati e fregio papale; Delverde trovò l'arma oggettivamente migliore fra tutte: un fucile d'assalto, sembrava uno dei primi modelli mai prodotti; Cecchini, dal canto suo, era costretta a prendere qualcosa di adatto al suo scarso equilibrio e all'uso del suo bastone: fortunatamente nella scatola c'era una piccola carabina di precisione.
Restavo soltanto io. Nello scatolone erano rimasti strani pezzi d'artiglieria: fucili sconosciuti, armi bizzarre, e probabilmente archibugi artigianali. La mia indecisione si fermò d'un tratto a causa di una vista singolare.
In mezzo a quel mucchio d'acciaio, due rivoltelle probabilmente appartenute alla stessa persona giacevano a prendere polvere. Erano due modelli diversi, uno dalla canna lunga, simile a quelli da film western, e un altro leggermente più compatto, che portava sul corpo centrale la scritta 'Bodeo'. Dicevo, sembrava che fossero appartenute alla stessa persona perché erano decorate allo stesso modo: Le componenti metalliche erano di color grigio scuro, mentre i manici di legno erano dipinti con un impregnante che gli dava una tonalità di marrone ancora più scura del dovuto. Entrambi i revolver erano cesellati con linee e disegni dorati su tutta la superficie e il 'Bodeo' aveva un piccolo pendente a croce d'oro legato attorno al corpo centrale. Quello più lungo, invece, aveva una citazione alla Bibbia incisa sulla canna:
Lu 23,43
Erano molto belli. Per quello li scelsi, oltre al fatto che la manutenzione di un revolver, rispetto a un fucile, era piuttosto semplice. Fatto questo, il dottor Franck ci indicò la direzione del salone-palestra e svanì in un corridoio con lo scatolone di vecchia ferraglia.
Il salone era spazioso, con degli attrezzi da palestra posti sul lato sinistro. Sulla destra c'era un grande tappeto per i combattimenti.
Trovammo le spade in un angolo del tappeto, ancora chiuse nei loro inviluppi.
—Sam, tu che hai preso? Come mai è così grossa?
—Eh eh, adesso vedrete— Sam aprì il cartoccio, rivelando un grosso spadone a due mani. —Zweihänder! — tuonò, con tono compiaciuto.
Cecchini, che aveva fatto la domanda precedente, si mise a esaminare l'elsa da vicino. —Come pensavo, il fabbro è sempre lo stesso. Le decorazioni sono sempre in colore oro e nero. E tu, Laura?
—Schnäpf. È una sciabola tradizionale svizzera. — Una guardia composta da robusti motivi di linee in acciaio proteggeva la sua mano fino alle nocche.
Io nel mentre aprii la mia. Ero molto curioso di vedere la guardia della mia schiavona. Non prima, però, di destare l'attenzione degli altri.
—Ommioddio!! — Esclamò Cecchini —Ma quella è una schiavona! È bellissima!
—E-ehm, sì. È proprio bella. — Il suo entusiasmo mi mise un po' in imbarazzo, ma era davvero una spada straordinaria. La guardia era tutta intarsiata, ricca di decorazioni e curve di metallo. La lama, in accordo con la tradizione del modello, era ancora in stile medievale, piuttosto pesante.
Piuttosto, guardando Cecchini, notai che lei non aveva una spada. Povera, pensavo, con quel bastone che usava per camminare e l'aver capito come mai non poteva tenerne una mi rattristò.
—D'accordo, "tenente"… — Esclamò Delverde dietro di me, seguita dal rumore della sua spada sguainata —Ora dimostralo.
Schivai al pelo un suo fendente, spostandomi verso il tappeto per i combattimenti.
—Ma che…
—Dai, bella idea! Iniziamo ad allenarci! Io e Sam vi guardiamo! — Cecchini si rallegrò e si spostò indietro per darci spazio, senza capire che io non la avevo affatto intesa allo stesso modo.
Con la schiena percorsa dal sudore, mi misi in guardia, brandendo la schiavona con la mano destra e dandomi un'ultima strofinata al cerotto sul naso con la sinistra.
—Un buon inizio— Provai a rompere il suo muro di ghiaccio con una battuta. —Neanche un'ora che ci conosciamo e già vuoi farmi fuori. — Per quanto avessi l'intento di far ridere, il suo sguardo sembrava piuttosto veritiero.
—Se vinci— Esordì quella —ti accetto come caposquadra.
—E se vinci tu?
—Passerai il grado a qualcun altro.
—Non penso sia una buona idea…
—Allora vinci.
Dette queste parole Delverde assunse una guardia che somigliava più a una posa di danza classica che a una tecnica di combattimento. Doveva possedere un'agilità incredibile. Che carina, però.
Senza indugiare oltre, ruppe la posa in un istante e scagliò la punta della lama verso il mio petto. A stento riuscii a evitarla. Indietreggiai mantenendo la guardia stabile, ma avevo paura di attaccare.
—Quindi? Hai paura?
Delverde si lanciò di nuovo all'attacco, ma questa volta fui veloce e deviai il colpo con la mia lama. Il suono cacofonico del metallo mi fece male alle orecchie. Oltre alla preoccupazione, i rumori forti peggioravano il mio stato d'animo.
—Ti sei deciso che resterai lì, sulla difensiva? Che capo saresti?! Dove hai messo le palle?— La sua spada non scherzava, ma la più affilata era sicuramente la lingua.
—Che aspetti ad attaccare, delusione?
Provai un taglio orizzontale, mirato alla sua guardia per liberarmi della sua chiusura e metterla alle strette. Mi creai un varco e mi avvicinai, ma venni subito respinto. Il clangore delle spade mi frastornava come se avessi un percussionista in azione a una spanna dalla testa.
—Allora? — Feci io. Il mio tentativo di cercare un dialogo fu inutile. Lei puntava solo al duello, come se dovesse davvero uccidermi. A quanto pare, questi erano gli standard e io non ero all'altezza.
Tornai in guardia, non prima di aver schivato un altro suo fendente. Dovevo liberarmi del mio schema. Quello schema del "ho paura di farle male". Se non lo avessi fatto sarebbe stata lei a farmi del male.
Caricai pesantemente la schiavona oltre le spalle e cercai di ricordarmi alcuni consigli o tecniche. Padre Stefano diceva che ogni colpo doveva essere fatto come se fosse l'ultimo: i taglietti leggeri non avevano alcun significato. Prima che potessi scaricare la forza, però, la sua sciabola mi graffiò il braccio.
—Ehi! Ma sei fuori di testa! — mi infuriai. —Ma che ti salta in mente, Cristo!?
—Muoviti.
Era seria. Non era più una questione di essere all'altezza. Se volevo che il duello finisse, dovevo finirlo io. Misi da parte la paura e anche tutto il ragionamento.
In anni di esperienza, per fortuna, avevo imparato che lavoravo meglio quando non pensavo.
—Che scuola hai fatto, Delverde? — Chiesi mentre mi rimettevo in guardia.
Nessuna risposta, come sospettavo. Le favorii nuovamente la domanda, questa volta mentre attaccavo. Con un fendente obliquo fui finalmente in grado di farla indietreggiare.
—L'accademia militare svizzera. — Rispose.
—Bello! Un po' si vede. Però sai, quando mi sono informato per curiosità l'ho trovata molto più interessante di quello che mi sembrasse. — Continuai, parando un suo taglio con la base della lama. Quasi mi fece sbilanciare. —Dove?
Delverde schivò il mio colpo ed eseguì un contrattacco verso la mia gola: —Zurigo.
—Wow. — La sua spada quasi mi tagliò i capelli —E com'è la città?
—Mah… — Delverde schivò a fatica un mio fendente mentre parlava —Troppo grande, credo… Ma che ti frega? Sta' concentrato!
—Così.
Eravamo uno di fronte all'altra: riassunsimo rapidamente la guardia, camminando lateralmente mentre cercavamo uno spiraglio per attaccarci, reciprocamente.
I piedi che strisciavano sul tappeto e il sibilo ansimante nei nostri respiri erano gli unici rumori che si occupavano di scandire il tempo di quella coreografia.
—E… E tu? — Esordì. Ci ero riuscito. Delverde aveva abbattuto la sua cinta muraria.
—Liceo Classico, a Torino. — Non era più uno scontro all'ultimo sangue. Le due spade si incontravano e si lasciavano come se fosse una danza pianificata. Era diventato a tutti gli effetti un allenamento.
O meglio, era ancora di più: un duello con intesa fra i due sfidanti.
Le lame si incrociarono alle basi, portando il peso del mio corpo vicino al suo e le nostre facce a una distanza di 20 centimetri.
—Il Classico. Interessante. — Commentò lei. —Ora mi spiego il tuo carattere. Eri bravo?
Mi spinse via con l'elsa della sciabola, riportandomi a distanza di sicurezza. In che senso "ora si spiegava il mio carattere"?
—Un po' scarso in matematica. — Ponderai, più a me stesso che a lei. Ancora ero perplesso dalle sue parole di prima —Però mi sono preso una certificazione di francese con un corso della scuola.
Delverde annuì, poi si lanciò di nuovo all'attacco. Anche questa volta parai a stento il suo colpo. —Tu piuttosto, come mai l'accademia?
—Prima di essere presa qui volevo fare- Ugh! La guardia svizzera. — evitò al volo un mio affondo mentre mi rispondeva.
—Ma non prendono solo gli uomini?
—Il cardinale Blücker stava tentando di riformare il corpo per includere le donne…
—E poi? — Incalzai, sia con le parole che con la lama.
—È morto di vecchiaia.
—Ma dai, che sfiga.
Delverde mi fece indietreggiare, per poi mettermi all'angolo. —Già.
Senza pensare sfruttai il filo tozzo e pesante della mia lama e colpii la sua sciabola alla punta, facendogliela cadere e disarmandola del tutto. Con un movimento meccanico, puntai la schiavona verso il suo viso. Preso così il controllo, avevo vinto io.
—Uhmpf… — Grugnì lei. —D'accordo. — Si chinò per raccogliere la spada e la ripose nella custodia.
—Ehi, bel duello. — Aggiunsi. Delverde girò la testa per guardarmi, ferma per qualche secondo. —Si, mi è piaciuto. Ma sei ancora timido come caposquadra.
—Signori! — Il dottor Franck e Padre Stefano irruppero nel salone all'improvviso con delle facce seriose. —Spero che abbiate tanta energia, ci hanno chiamati. Non capita a tutti di entrare in missione già al primo giorno!
Quando ci dissero che avremo preso un jet privato per arrivare a destinazione, non avevo certo pensato a un simile volo. Era un aereo militare, scomodo e buio. La poca luce artificiale compensava solo in parte i fiochi raggi del sole che passavano dagli oblò.
Il volo durò circa un'ora e subito l'autoblindo della squadra ci portò dall'aeroporto di Rimini fino al luogo dell'incidente.
La spiaggia era totalmente deserta. Le voci dell'attacco terroristico si erano sparse rapidamente e pare che persino il comune avesse emanato un ordine di restare in casa agli abitanti. Vedere una spiaggia vuota d'estate era… Singolare. Gli agenti della SIR-I ci passarono il testimone e rimasero a parlare con padre Stefano in macchina.
I corpi giacevano a terra esattamente nella forma descritta dal dottor Franck sull'aereo, alcuni in cerchio e altri a formare una stella a sette punte. Certo, vederlo dal vivo mi fece capire come mai era rimasto all'aeroporto. Un profondo malessere mi attraversò le budella in un istante. Mi guardai intorno per cercare qualche sguardo simile al mio e incrociai quello di Sam.
Padre Stefano uscì dall'auto con dell'apparecchiatura elettronica, sembravano quegli apparecchi che misurano la corrente elettrica. —Cecchini, prendi il contatore Kant. Controlla se i corpi emanano qualche tipo di distorsione. Delverde, tu prendi il rilevatore akiva. — Disse, mentre porgeva alle due gli strumenti.
—Povere anime… — Ripeteva Cecchini mentre camminava tra le salme. —Vi libereremo, pazientate. —
Nonostante lasciasse preghiere a ogni sguardo di un cadavere che incrociava, riuscivo a cogliere l'approccio scientifico con cui esaminava la scena.
Intanto Sam era entrato nel piccolo bar di legno della spiaggia, a fianco della scena del crimine, e aveva preparato due caffè.
—Tieni, tenente.
Presi la tazzina con molto piacere e mi appoggiai sullo sgabello al mio fianco.
—Sam, puoi chiamarmi Edo.
—D'accordo allora, tenente Edo. Sai, quel duello di stamattina ha spaccato. Hai messo Delverde al suo posto.
—Ma no, abbiamo 'comunicato', se così si può dire. È stato quasi piacevole.
—All'inizio sembravi convinto del contrario.
—Ma dai, mi ha tirato un fendente a tradimento! Certo che mi sono preoccupato!
—Sì, come no, avevi più paura di fare lo stesso. Ti piace.
—HUH?! — Mi lasciai sfuggire un verso mentre portavo il caffè alla bocca assieme a un nuovo, immediato, prurito al naso. —Ma che stai dicendo?!
—Fidati, Sam ne ha viste tante. — Si indicò con il pollice destro mentre parlava in terza persona — E ne ha vissute abbastanza sulla pelle da potertelo dire. Nemmeno ti biasimo Edo, basta guardarla per più di 15 secondi per cascarci del tutto. Se non ci pensassi già tu lo farei io! — Rise, girandosi verso le nostre colleghe.
Mentre io e Sam facevamo amicizia Cecchini procedeva a sondare i malcapitati per verificare se qualche traccia di anomalo fosse rimasta, per decidere se chiudere o no il caso.
—Ehi Laura, vieni qua un attimo… E voi due, laggiù! Quando avrete finito di discutere potreste anche, che so, interessarvi al caso?
Finimmo il caffè di corsa e ci presentammo da lei. Nostro malgrado, nel percorso avevamo dovuto scavalcare qualche salma.
—Qua c'è un valore di Hume sballato, circa 20-30 sopra il normale. C'è ancora qualche distorsione. Ora, ho un sospetto su ciò di cui potrebbe trattarsi— continuò —Voglio sapere che succede se spostiamo uno dei corpi. Hanno già fatto foto e identificato i volti?
—Ha tutto la SIR-I. — Rispose padre Stefano, che intanto si era messo a scrutare la scena dall'alto del suo sguardo. —Foto, riconoscimenti, eccetera. Sposta pure.
Cecchini si mise i guanti e tentò di spostare uno dei cadaveri, senza riuscirci. Applicava sempre più forza, ancora e ancora e ancora, ma non c'era nulla da fare.
—Ngh! Sono come inchiodati al suolo. Proprio come pensavo. È un portale. — Tirò fuori la notizia come se intendesse che il giorno dopo avrebbe piovuto.
—Huh? Un portale per dove? — Esclamai. Non potevo reprimere la preoccupazione.
—Ho già una congettura, ma mi serve Laura per l'ultima conferma. Cosa dice il rilevatore?
Delverde avvicinò l'apparecchio al centro del glifo e diede una rapida occhiata. —Uhh… Meno trecentotrenta centiAkiva.
—Lo sapevo! — Gridò Cecchini —Quella è Energia Sacramentale-Faustiana! Che figo, è il mio primo caso di rituale tartarico alla Fondazione!
—Ok, ora spiegati meglio. — Farfugliò Sam, con i polpastrelli atti a massaggiarsi le tempie.
—Beh, secondo i miei appunti questi corpi formano un glifo goetico di Quarta Classe e quindi siamo davanti a un portale filtrato per l'inferno. Possono oltrepassarlo solo entità che raggiungono una forma eterea.
—Quindi?
—Demoni. Almeno i Cavalieri di San Giorgio li chiamano così e hanno trasmesso il nome a tutto il mondo anomalo e non. Ad oggi, la nomenclatura adatta secondo la comunità internazionale della Coalizione Globale dell'Occulto sarebbe "Entità tartaree" e si riferisce a tutto quel genere di spiriti senzienti banditi dal nostro reame fisico dalle divinità, nel nostro caso dal Dio semitico, in quanto ribelli. Le stirpi di queste creature provenienti da ogni credo del mondo si sono rifugiate in una dimensione libera, per quanto inospitale, che noi chiamiamo "Inferno". Verrebbe quasi un senso di pena verso di loro, se non fosse che per riaffiorare nel nostro universo ingannano e fanno soffrire le persone.
Una spiegazione piuttosto esaustiva.
—Ora qui viene il bello: dobbiamo trovare il demone che è stato invocato, in modo da ributtarlo dentro il portale e chiuderlo.
Subito mi sorse una domanda: —Ma come facciamo a chiuderlo?
—È semplice: colpiamo a morte la manifestazione fisica del demone in questione. La sua anima corrotta verrà rispedita al suo posto negli inferi.
—Folle… — Commentò Sam.
—Ma— Aggiunse Delverde —Potrebbe essere ovunque. I demoni hanno varie capacità anomale, se potesse rendersi invisibile?
—Vista la modalità grossolana con cui il rituale è stato eseguito, i demoni non escono interamente formati sul nostro piano fisico. Non possiamo vederli perché la ESF che gli serve viene immagazzinata gradualmente. — Esordì padre Stefano, che nel frattempo aveva preso in prestito una sdraio. —Ho fatto rilasciare squadre SIR-I per pattugliare la città con rilevatori Akiva. Ora, Edoardo, cosa bisogna fare?
Un'altra delle domande di padre Stefano. Tentava sempre di farmele, come se volesse tenermi sotto esame. —I tecnici di contenimento dovrebbero installare una cella di realtà per sigillare il portale direttamente. Poi, sarebbe una buona idea… uhm… Attirare in trappola i demoni fuoriusciti per catturarli o neutralizzarli.
—Vedo che cominci a ingranare, ma devi ancora entrare nell'ottica. In casi del genere, se il contenimento immediato non fosse possibile, non solo siete autorizzati, ma incoraggiati all'uso di forza letale. Se vi va, potete fare lo sforzo di lasciare vivo almeno un esemplare a fini di studio. — Il telefono di padre Stefano squillò e lui interruppe il discorso per rispondere.
Dopo pochi secondi di conversazione chiuse la chiamata e si girò verso di noi: —Ho mandato una squadra a casa del presunto autore del rituale, tenetevi pronti.— Padre Stefano indicò le salme sul pavimento. —Io resterò qui ad aspettare il team di contenimento per il portale, voi prendete i rilevatori e andate in perlustrazione. Se qualcuno ve lo chiede, state controllando interferenze elettriche.
Intonammo all'unisono un "Sissignore!" e ci avviammo a recuperare gli strumenti.
—Ah, Edoardo— Padre Stefano alzò il braccio per cogliere la mia attenzione —Ho dato a quelli della SIR il tuo contatto. Preparati a ricevere chiamate.
L'allarme antiterrorismo aveva funzionato: la città era pressoché deserta. Il sole scaldava l'asfalto privo di macchine e un forte vento di Maestrale spazzava i marciapiedi vuoti. Solo pochi agenti SIR mascherati da poliziotti e lavoratori che non volevano perdere denaro erano a piede libero.
Era stata diffusa la notizia che alcuni attentatori erano ancora a piede libero, giustificando così gli eventuali spari delle nostre armi.
—Meno 613 centiAkiva! — Esclamò Delverde, seguendo la traccia di radiazioni. Doveva trattarsi di un'entità di classe infima. Dissi ai ragazzi di tenere salde le armi e ci addentrammo in una via secondaria, delimitata da alti palazzi.
—Eccolo! — Gridai, alla vista di quella creatura. Era un uomo serpente, con delle ali squamose al posto delle braccia. Cercò di attaccarci, poi… In qualche modo percepì le nostre armi e subito si girò per fuggire. Sam gli sparò alla schiena e dalla ferità uscì uno spruzzo di fumo nerastro; poi quello si accasciò a terra e iniziò a decomporsi, riducendosi in cenere.
La scena mi fece torcere lo stomaco. Per fortuna ero riuscito a far sì che qualcun altro sparasse al mio posto.
—Chiamate Severini— Disse Sam, dopo aver espulso il bossolo con la leva del fucile. —Vediamo se il portale si è-
—No. Non sapeva neanche parlare. I demoni di classe infima non possono stipulare patti con gli umani da soli. Non era quello che cerchiamo. — Lo interruppe Cecchini.
Delverde, con un'improvvisa scarica di ironia, commentò: —Dov'è la tua mira, Sam? Avresti potuto neutralizzare solo i suoi movimenti e avremmo chiamato la SIR per portarlo via.
—Lavoro meglio con una sigaretta in bocca. A proposito, tenente, finché siamo all'aperto non è un problema se fumo, vero?
Neanche l'ombra di altre creature per il centro città. Sam armeggiava la sua sigaretta con il labbro inferiore, stando ben attento a non infastidirci con i suoi vapori. Delverde si guardava intorno e ogni tanto abbassava la testa sul rilevatore, sbuffando. Cecchini, con la sua camminata sconnessa, fischiettava come una ragazzina, come se nulla fosse. Il mio telefono squillò di colpo. Doveva essere uno della SIR-I.
—Pronto? Si, sono Mattei. — Risposi. —Merda. Vi raggiungiamo, monitorateli a distanza di sicurezza.
La squadra che padre Stefano aveva inviato all'appartamento dell'autore del rituale era entrata in contatto con un gruppo di demoni. Stando alle informazioni del secondo team, le entità si erano barricate all'interno e all'arrivo degli agenti si erano difese brutalmente. Doveva trattarsi di demoni di classi inferiori, stando alle letture dei loro rilevatori.
"Fra quelli ci sarà sicuramente ciò che cerchiamo" pensavo. Volevo chiudere la faccenda alla svelta.
Il viaggio fino al punto di ritrovo fu veloce, ci fu giusto il tempo di indossare le uniformi mentre padre Stefano guidava. Corazze in titanio alleggerito, tessuti flessibili in kevlar: il tutto decorato a carattere cavalleresco. Alla Fondazione dovevano avere stilisti di un certo stampo.
Presi la croce da campo e agganciai il moschettone alla cintura, poi assicurai sul fianco anche la spada. Sentivo un pesante vuoto nello stomaco. Stavamo per entrare in azione, seriamente. Contro creature potenti dieci volte più di noi. Tutta quella bardatura serviva ad accorciare il divario, al resto ci avrebbe pensato il Signore. E la strategia del capitano, certo. Misi l'elmo e tirai la levetta per ritrarre la visiera. Eravamo arrivati.
Il nostro uomo viveva in un palazzone residenziale poco fuori dal centro, davanti a cui due uomini della SIR aspettavano il nostro schieramento. il primo, Fiorini, era un uomo snello e pettinato, con una grossa barba ottocentesca color castano scuro. La seconda, Tagliatesta, era un po' bassa ed esile, con i capelli neri raccolti in uno chignon.
Fiorini ci spiegò di aver perso il contatto con la prima squadra poco dopo che questi furono entrati. Li avevano sentiti mentre tentavano di arrestarli, evidentemente senza successo. Qualche sparo, qualche grido e poi più nulla.
Padre Stefano scese dal furgone, con un piano già pronto fra le mani: —L'appartamento 21 è al quarto piano, con una grossa finestra che dà sul salotto. Lo stesso salotto è la prima stanza a cui si accede direttamente dall'ingresso: voi farete irruzione da lì, mentre io e Cecchini vi daremo supporto dalla finestra di quella stanza là, nel palazzo a destra. Mettetevi su una frequenza libera, il resto ve lo spiego mentre ci muoviamo. Attendete il mio via.
Nel farci strada nell'edificio i due della SIR insistettero per venire con noi, per farci da copertura. Il Casco, integrato nel cappuccio dell'uniforme, possedeva anche la piccola ricetrasmittente da cui sentivamo gracchiare la voce di Cecchini. Ironia della sorte, il suo compito era proprio quello di fare il cecchino. Nel silenzio più totale superammo l'ultima rampa di scale e davanti a noi apparve il corridoio del quarto piano. La finestra in fondo, all'altezza dell'interno 21, era perfetta per Cecchini, che doveva monitorare sia noi che il nostro obiettivo. Inoltre lasciava passare una luce calda, tipica delle 5 del pomeriggio, che mi rasserenava un po': ciononostante, il prurito al naso era più forte che mai e la barriera della visiera mi impediva di risolverlo.
"Pronti, ragazzi?" Cecchini irruppe di nuovo alla radio per darci il via. "Vedo cinque individui dai contorni bizzarri, non sono fisicamente armati ma questo non cambia le cose. Sembra stiano parlando fra loro." Ci avvicinammo alla porta dell'appartamento. Potevamo sentirli ridacchiare dall'altra parte del muro.
—Ehi, Gudna! Cos'era quella cosa con cui mi ha colpito?
—Una pallottola, scemo. Da quanto tempo non vieni sulla Terra?
—Baah, cinquecento anni almeno. Da prima della Grande Caccia alle Streghe. Però si sono evoluti, le "pistole" all'epoca erano piuttosto grezze.
—Non sei bravo ad abbindolare gli umani eh, tu? Fortuna che c'è Gudna che ce li procura! Gah ah!
—No, sbagli! È che una volta gli umani erano tutti creduloni! Adesso gli unici che riesci a fregare sono i bambini. Gli adulti o se ne sbattono, o sono abbastanza intelligenti da stringere un patto serio. Poi pensaci te a stare dietro alle loro puttanate.
—Hai ragione, cazzo! Se vengo sulla Terra è per divertirmi, non per aiutarti a uccidere i tuoi nemici o conquistare il mondo o qualche altra troiata.
—Però, a dirla tutta, il sapore è sempre quello.
—Già! Incredibile quanto siano buoni!
Bastavano le loro voci a suscitare nausea. I discorsi non facevano altro che peggiorare le cose.
—Ma… — Sussurrò Tagliatesta —Li hanno… Mangiati?! — Trasudava inquietudine da ogni parte del corpo: sudore, occhi sbarrati, mano sinistra tremolante. Poverina. Dovevano essere stati i suoi colleghi.
"Ci siete?" Fece Cecchini, riportandoci sull'obiettivo. "Abbiamo la fortuna di disporre dell'elemento sorpresa. Io sparerò da qua; voi fate fuoco attraverso il muro, che è abbastanza poroso; Quando ve lo dirò, potrete entrare. Edoardo, attendo il tuo primo colpo."
Tutti procedettero ad estrarre le armi, portando al minimo i rumori. Fiorini e Tagliatesta tenevano le pistole puntate dietro di noi, mentre estraevo e controllavo le mie rivoltelle.
Le puntai verso una delle voci, ansimando leggermente.
Tutti mi copiarono. Il prurito al naso era ancora lì.
Spalancai gli occhi,
strinsi i denti.
Nervi tesi.
In pochi istanti, decine di proiettili attraversarono la porta e il muro. Facevano un rumore assordante, non riuscivo a sentire i miei pensieri. La tempesta d'argento durò una manciata di secondi, dopo i quali Cecchini ci diede il via libera. La porta ormai aveva ceduto ed era bastato spingerla un poco per permettere l'ingresso.
Macchie di denso fluido nero, che immaginai essere il sangue di quelle creature, ricoprivano gran parte delle pareti ed emettevano fumi polverosi dall'odore di fogna. I cinque corpi, talmente simili e insieme lontanissimi dalle figure umane, agonizzavano quasi immobili in attesa dell'ultimo respiro. Alcuni erano a terra, altri ancora seduti dove poco prima erano impegnati a chiacchierare.
Mi girai verso l'esterno e feci un cenno a Cecchini che, dalla sua finestra, ricambiò compiaciuta.
Il mio cuore fece un balzo, sentendo un rumore di qualcosa che strisciava frettolosamente verso di me. Mi voltai di scatto e mi trovai davanti Delverde mentre con leggerezza e precisione chirurgica decapitava uno dei demoni che aveva cercato, con un'ultima scarica di vitalità, di attaccarmi: —Ocio, tenente. Questo ha il sangue acido. — Commentò lei mentre osservava il pavimento bruciarsi sotto la carcassa. Io avevo già indietreggiato per lo spavento.
—….Gud… Na… …G-Gudna… — La voce, quasi femminile, proveniva da un altro di loro, supino sulla poltrona mentre soffocava nel suo stesso sangue. Un corpo secco e magro, asessuato e di colore giallastro, sopportava il peso di una grossa testa, allungata all'indietro nell'area della nuca. Assurdo come facesse ad essere ancora viva con così tanti buchi nell'addome. La guardavo sconcertato, mentre il mio vuoto nello stomaco non aveva alcuna intenzione di riempirsi.
In un istante quella protuberanza oltre le sue orecchie scoppiò liberando altro fumo nero e pezzi di quello che doveva essere il cervello, nero anche quello. Dalla traiettoria non era difficile capire che era stata una pallottola della carabina di Cecchini.
Rinnovai il saluto alla finestra e dissi ai ragazzi di perlustrare tutta la casa in cerca del medium, oppure dei suoi resti. In mezzo al disastro della colluttazione trovammo anche i cadaveri degli agenti che erano stati mandati per primi. —Oh, che altro c'è adesso?! — Esclamò Sam, dopo aver sentito dei passi. Il biondo andò verso il piccolo corridoio nascosto dal muro con il fucile spianato, poi la sua espressione si rasserenò. Con l'arma ancora puntata fece per indietreggiare, molto più rilassato di prima. Tirò un sospiro e poi chiese: —È lei la signorina Castaldo?
—Ma che fai!? Toglimi quel fucile da davanti, merda! Ehi, mi hai capito?! Aiuto! — Rispose una voce giovane ma rauca, da fumatrice, con tono spaventato.
—Allora, sei tu o no?
—Sì, sì, sono io! Ora leva quel coso, cazzo!
Con la mia autorità appena guadagnata mi avvicinai a Sam e mi intromisi nel discorso: —Signorina Noemi Castaldo, lei è in arresto. Abbiamo tutto il diritto di tenerle le armi puntate contro.
—Altro che poliziotti, sembrate degli svitati!
—Per cose come quelle che ha fatto non chiamano i poliziotti. Delverde, prendi gli altri due e setacciate la casa, trovate qualsiasi indizio che ci confermi i sospetti.
—Ehi! Fatemi vedere il mandato!
—Se non troviamo nulla che si fa? Amnestici? — Domandò Laura ignorando totalmente la donna.
—Beh, in tal caso… Classe A, suppongo. — Risposi. —Lei, invece, venga con noi. Fiorini, ha delle manette?
Ero seduto al fianco di padre Stefano, all'interno di un furgone della SIR allestito come sala interrogatori mobile. Sam era appostato lì fuori assieme ad altri agenti, mentre Delverde cercava indizi e Cecchini dirigeva le operazioni di rimozione dei corpi. Seduta di fronte a noi stava la sospettata, ammanettata al tavolino di metallo. —Ah, quindi c'è di mezzo il Vaticano. — Fece quella —Ehi, prete! Scommetto che ti diverti con questo scemo qui quando siete soli in sagrestia! — Indicando me.
—Guarda che così peggiori solo le cose, stupida. — Intervenni io. Padre Stefano non si preoccupò nemmeno di aprire bocca. Stava fermo a fissarla come un tribunale dell'inquisizione. Uno sguardo molto più ricco di disprezzo che di delusione, al contrario di quello che rivolgeva a me ogni tanto.
Delverde chiamò il suo telefono, che lui mise in vivavoce sul banco. Avremmo avuto delle risposte, finalmente.
A quanto pare, la sua ricerca aveva portato alla scoperta di: sei buste da frigo piene di eroina; una collezione di libri di esoterismo new age; tre boccette di sangue sconosciuto; una scatola piena di funghi allucinogeni; varie iscrizioni di ideogrammi sconosciuti sulle pareti della camera da letto; infine, la cassettiera era piena di vecchi fogliacci ricchi di formule magiche accompagnate da vari glifi esoterici, il tutto già presente negli archivi della fondazione e quindi confermato come pratica anomala.
In sostanza, avevamo le nostre prove.
—Signorina, fa o ha mai fatto parte di sette di qualche genere?
—No.
—Le consiglio di rispondere seriamente.
—Altrimenti?
—Oh, le assicuro che pregherò per lei. Questo non è un processo per stregoneria, ma se non vuole che lo diventi allora deve starmi bene a sentire. Sappiamo che lei è una strega e nessuno dei suoi trucchetti idioti la tirerà fuori da questa situazione. Sono stato abbastanza chiaro?
—Non ho mai fatto parte di una setta.
—Così va meglio. — Padre Stefano sembrava un rapace intento a giocare con la sua preda. Impassibile, deciso e fermo come la pietra, ma conoscendolo potevo sentire una leggera nota di divertimento nella sua voce.
—Era a conoscenza del fatto che c'erano cinque entità tartaree all'interno della sua abitazione?
—Se ne ero a conoscenza? Cazzo, ero nascosto… Nascosta nel mio armadio! E da lì sentivo ancora la loro puzza! Avevo una paura fottuta, credimi.
—Le streghe della sua categoria non sono forse… delle "fan" di quelle creature?
—Macché! Pensavo fossero diversi! Merda, butterò tutte quelle cose. Non mi frega più nulla della magia, è stato orribile.
—Si rilassi, non la scamperà così facilmente. Veniamo al dunque, dove si trovava questa mattina tra le otto e le nove?
—A casa mia, dormivo.
—Risposta sbagliata. Era in spiaggia, le telecamere la hanno vista fuggire dal luogo del rituale con le mani sporche di sangue. Le ho detto di rispondermi seriamente.
—Va bene, ho fatto quel rituale. L'ho fatto io, capito? Non l'ho mai fatto prima, dovevo aprire un portale così che quel diavolo mi portasse una poz…
—Una cosa?
—Una pozione… D'amore. Ehi! Non ridere, stronzo! — Padre Stefano fece un lungo sospiro, cercando di mantenere la faccia seria.
—D'accordo, mi dica le fattezze di quel diavolo.
—Lo avete visto sulla poltrona, no? Era quello scheletrico e rugoso, con le ciglia lunghe e la testa allungata tipo un alieno. Siete stati voi a farlo fuori, no?
—Mhm. Va bene signorina Castaldo, è fortunata perché noi abbiamo fame. Più tardi continuiamo. — La interruppe lui. Poi mi fece un cenno e si alzò dalla sedia. —E niente trucchetti o scherzi strani. Lo dico per lei, così non si sforza troppo. Questa stanza è rivestita con piombo.
La strega grugnì, accompagnandoci alla porta con lo sguardo.
Fuori padre Stefano mi disse di richiamare gli altri, saremmo andati a prenderci qualcosa di veloce da mangiare. Prima di andare, però, gli feci una domanda: —Ce l'abbiamo fatta! Possiamo tornare al Sito Deus, no? Quella donna diventerà un classe D ora, giusto?
—No, è una strega. Potrebbe trovare il modo di liberarsi. In questo caso la Fondazione ha due opzioni: o le resettiamo il cervello e le diamo una nuova vita oppure beh, la terminiamo.
—…Ucciderla? Ma… Come? Non possiamo scegliere la prima opzione e basta?
—Gli amnestici di classi alte impongono un trattamento faticoso. Oltre alle spese, la terapia è lunga, crudele e anche rischiosa per il cervello. Potrebbe morire comunque o, peggio, rimanerci lobotomizzata. Sta agli Affari Interni decidere.
—…Oh.
—Devi ancora entrare nell'ottica. La Fondazione non fa beneficenza.
—…D'accordo.
—In ogni caso, non ce n'è bisogno.
—Huh?
—Sta mentendo. Il team di contenimento dice che il portale è ancora aperto. Ne discutiamo a cena.
La cena fu una piadina romagnola, rapida e non troppo pesante.
Le uniche parole che vennero fuori durante il pasto furono di Padre Stefano, che mi chiese se avessi imparato qualcosa dal suo interrogatorio. Io gli dissi di sì, che bisogna essere decisi e impassibili, convincendo il prigioniero che, vero o falso, siamo noi quelli con il coltello dalla parte del manico. Sicché mi disse di farci caso questa volta, perché dopo cena avrei dovuto farlo da solo. "Rimettetevi le uniformi, sia mai che l'entità compaia nella vostra zona." Disse.
Padre Stefano se ne andò a preparare il viaggio di ritorno al Sito Deus, lasciandoci soli con pochi agenti della SIR-I. Molti altri erano tornati alle loro funzioni di sorveglianza in giro per la città. Mi venne l'idea, così per curiosità, di portarmi dentro Cecchini, con il rilevatore Akiva in mano.
Intervistato: PdI-505
Intervistatore: Ten. Edoardo Mattei, SSM-XIII
Testimoni: Dott.ssa Maria Chiara Cecchini, SSM-XIII
Inizio registrazione
Mattei: Allora, gente (si siede) Sappiamo che il demone che la signorina ci ha descritto non era quello che ha aperto il portale. Come mai ci ha mentito?
PdI-505: Come sarebbe? È proprio quello! (Tossisce)
Mattei: Cecchini, quanto segna il rilevatore?
Cecchini: Meno ventotto centiAkiva. Può essere che si tratti di residui del patto-rituale.
Mattei: D'accordo… Signorina, mi dica il nome del demone.
PdI-505: (silenzio)
Mattei: Signorina Castaldo.
PdI-505: Dici a me? Oh, sì, io. La domanda?
Mattei: Il nome del demone.
PdI-505: Sonvemon. (Tossisce)
Mattei: Mh… E com'è fatto?
PdI-505: Basta domande! Non mi sono mai sentito così tanto aggredito in vita mia!
Mattei: Se non risponde… Fermi. Aggredito?
PdI-505: Aggredita. Ti (tossisce) sembro un uomo?
Mattei: No di certo. Cecchini, leggi il rilevatore.
Cecchini: Aspetta… Meno centoventi centiAkiva… Ma sta salendo all'impazzata. Lo ricalibro,
Mattei: No.
PdI-505: Che c'è? Che succede ora?
Mattei: Non sente puzza di… decomposizione?
PdI-505: E perché? Cosa credi, che non mi lavi?
Mattei: Io credo che gli effetti dell'ESF stiano iniziando a scemare. Non è così, Gudna?
PdI-505: Huh?!
Mattei: Cecchini, tienilo a tiro con la pistola. (Si alza) È lui il demone che cerchiamo. Ha ucciso l'autrice e ha preso il controllo del suo corpo.
Cecchini si alza, estraendo la propria pistola.
PdI-505: Già, fa' pure…
Curteni: (Dall'esterno) Tenente, c'è movimento qui!
PdI-505: Tanto con me la bardatura di piombo non serve a nulla.
Fine registrazione
Aprii il portello per affacciarmi, solo per poi rendermi conto che eravamo circondati. Una dozzina di bestie, sicuramente uscite anch'esse dal portale, puntava verso il furgone in cui era il loro simile. Mi girai di nuovo e notai il corpo di Noemi Castaldo a terra privo di vita e una figura umanoide giovane, di bell'aspetto, con i capelli neri e lisci fino al petto e degli occhi grigi che mi fissavano oltre le iridi con un odio talmente antico che traspariva da uno sguardo.
Mi prudeva il naso.
Il demone si alzò e puntò su di me il suo dito ossuto. Poi, con un grido più forte di un tuono, disse: —Io voglio te!
Nel buio della tarda sera il furgone si squarciò, la carrozzeria andò in pezzi come un foglio di alluminio. Ognuno dei miei colleghi si era improvvisamente trovato di fronte quattro demoni, senza potersi ricongiungere con il resto della squadra. Io ero finito a terra e davanti a me si stagliava l'imponente figura del mostro che era la causa di tutto. Doveva aver sacrificato l'energia per il corpo della donna in favore di un segnale di soccorso o qualcosa di simile. Materializzò una lunga spada curva dalla manica della sua tunica e la puntò verso di me. —Ti sfido a duello, ragazzino dagli occhi vispi. Alzati! — Gridò ancora. —Maledetto essere! Sei l'esempio di ogni lurido uomo sulla terra che viene premiato per della misera intuizione! Fammi vedere se quello che chiami ingegno può battere un essere superiore!
Estrassi la mia schiavona rimettendomi in piedi con una capriola e cercai di raggruppare la mia squadra con un ordine: —Fate evacuare gli altri agenti! Fate da scudo a Cecchini! Dev'essere di classe superiore!
—So difendermi da sola, Tenente. — Mi rispose. Con la mano sinistra appoggiata sul suo bastone, usò la destra per tirare il manico verso l'alto. Ne uscì una lama ondulata come una flamberga e larga come una spada da lato: il filo sottile la rendeva manovrabile con molta leggerezza, fatta apposta per il fisico di Cecchini. La scoperta mi scaldò il sangue per un attimo.
Ero lì, faccia a faccia con una creatura da un altro mondo. Avevo il battito cardiaco ai massimi storici e sudavo come se fossimo stati sotto il sole, con il leggero vento serale che fungeva da meccanismo di raffreddamento.
Mi misi in guardia, ben consapevole del vigore del mio avversario, troppo elevato al momento perché un proiettile d'argento calibro 50 potesse attraversarlo.
—Allora, — Me ne uscii —Qual è il tuo titolo?
—Quarto conte dello Stige.
Un conte. Il livello era alto. Stavo davvero rischiando la pelle al mio primo giorno di lavoro.
Sferrò un fendente dall'alto, che fui in grado di parare. La preoccupazione, la paura mi faceva stare sulla difensiva.
Un altro fendente. Parato, ma non senza sforzo.
—Cos'è, ti ho sopravvalutato? — Esclamò. —Ti tremano le gambe.
Mi tirò un calcio in pieno petto, facendomi volare per qualche metro. Tossii, sputai un po' di saliva e mi rimisi in piedi all'istante, per paura che mi colpisse mentre ero a terra. Delverde cercò di raggiungermi, ma veniva continuamente bloccata e ingaggiata dai demoni che aveva addosso.
Non riuscivo a fare nulla. Ero di nuovo una delusione. "Il caposquadra che deve farsi soccorrere… Ma quando mai." Pensavo. Mi sentivo una nullità. Continuavo a indietreggiare e a incassare colpi, sempre più veloci. La paura stava iniziando a perdere terreno, poiché non avevo più il tempo di recepirla. Al suo posto si stava facendo strada una rabbia primordiale, atavica e naturale, motivata solamente dal fatto che colpi così veloci non mi permettevano di ragionare.
Cacciai un forte grido, incrociando la sua spada e portando a zero la distanza fra me e lui. Lo spinsi indietro di pochi metri e poi con l'altra mano, in cui era serrata la croce da campo, lo colpii sul polso della mano in guardia. Quello emise un grugnito di dolore come di un'ustione e dovette ritrarre la mano per riflesso, rompendo la guardia. Per difendersi usò la sua magia e mi lanciò contro una massa d'aria, che però non mi spostò di un millimetro.
Fu lì che ricordai: la croce da campo è uno scudo.
Tornai in guardia; con i nervi a fior di pelle gli mollai un fendente obliquo che faticò a deviare. Notai che, ora che aveva provato del dolore, aveva perso la sicurezza e aveva smesso di parlare.
—Ti trema la mano. — Notai, mentre a stento schivava un mio affondo. Poi mi colpì.
Mi sbilanciai quasi come per cadere: ma nient'altro, per fortuna. La spallina in titanio della mia armatura aveva retto e incassato il taglio alla perfezione. Con il sangue che veniva pompato ormai alla velocità del suono, con un respiro ansimante che non riuscivo a calmare, mi scagliai ancora contro quell'essere.
Ogni movimento della mia spada era accompagnato da un aspro grido, affaticato da tutto il peso che avevo addosso. Qualsiasi cosa frullasse nell’anticamera del mio cervello in quel momento, qualsiasi agente esterno che fosse la puzza di quei mostri o il vento o anche i rumori intorno a me non aveva alcuna importanza: avevo davanti solo l’obiettivo di uccidere quella cosa, per spedirla al Creatore una volta per tutte.
Incalzavo, fendente dopo fendente, ogni colpo seguito da un altro grido pesante e dalla spada nuovamente sollevata verso l’alto per caricare il prossimo. Questo è il modo in cui si batte un demone: nessuno spiraglio, neanche un attimo di pace per permettergli di contrattaccare o di strisciare nei tuoi pensieri. Se sei in grado, non devi nemmeno pensare. Oramai lo avevo imparato.
La croce da campo era serrata nella mia mano sinistra come un brocchiero e ogni volta che ricevevo un suo attacco quella era pronta a defletterlo.
Nessun mio fendente invece andava a vuoto: ogni taglio colpiva il bersaglio, uno spettrale suono metallico tuonava in tutto l’ambiente ogni volta che il mio argento incontrava il suo acciaio. Riuscii a colpire la punta della sua lama, lo feci sbilanciare e mi guadagnai il tempo di sollevare la mia schiavona fin sopra la testa e mirare al suo polso.
Avevo sbagliato. Avrei dovuto mirare direttamente alla testa o al petto, ma nella foga non ci feci caso. Avevo sbagliato e subito il mio colpo venne parato a fatica dalla sua spada. Ma per mia fortuna la colpii di nuovo in un punto di squilibrio, facendo sì che ne perdesse l’impugnatura. Quello, nel caos del duello, fece un salto per allontanarsi. Tese la mano per richiamare magicamente a sé la propria arma, ma non bastò neanche quello: con l’ennesimo, rauco urlo sfruttai il taglio pesante del mio modello di spada e la mia lama intercettò la sua mentre era ancora in volo, spezzandola di netto in due.
Subito caricai verso il mostro che avevo davanti e agitai la mia spada con tutte le forze che mi restavano, per l’ultima volta in quel duello: gli staccai di netto la mano destra, poi il braccio sinistro all’altezza della spalla e infine disegnai un grosso taglio obliquo lungo tutto il suo petto.
Il demone cadde a terra con lo stesso tonfo con cui cade un sacco inanimato, ansimando e gemendo dal dolore. Io rimasi fermo a guardarlo, con la croce e la spada ancora serrate in mano, sfinito e con il respiro sibilante.
Dalle sue ferite usciva un fascio luminoso di colore bianco sporco e un pesante fumo grigio che si mescolava con la brezza di terra notturna.
Mi avvicinai affascinato da quella vista. Non poteva causare in me alcun orrore in grado di sovrastare la stanchezza che permeava le mie ossa.
Diressi la spada alla sua gola, pronto per il colpo di grazia.
—Ah- Aspetta! — Cercò, ansimando, di muovere qualcosa nel mio animo.
—Non funziona. — risposi.
—Ci sterminate, ci impedite di vedere il nostro mondo e di vivere in pace con il resto delle creature. L’odio non viene da noi, ma da voi.
—Il tuo non è vivere in pace. Questo non è il tuo mondo.
—Ma lo era. Cosa farete quando ci avrete estirpati tutti?
—Voi non morite. Non fare l’ignorante con me, sai bene come funziona la tua specie. Ogni volta che vi uccidiamo qui qualcuno negli inferi prende il vostro posto e il vostro titolo. Voi vi reincarnate.
—Cosa credi che voglia dire reincarnarsi? Credi che sarò ancora io quello che mi sostituirà? Potrà esserlo l’anima, ma nulla di questa vita rimarrà. Ci pensi tu e quelli come te a darmi la sentenza finale, stronzo di un boia!
—Edo, non ha senso che parli con lui! — Sbottò Sam dietro di me, che intanto si era liberato dei suoi bersagli.
—La mia non è una condanna. — riposi la spada, constatato che non fosse più una minaccia. Avevo i nervi a fior di pelle, lo stress accumulato da quelle parole, finte, ma ben mascherate era tale che una parte di me soffriva per quella creatura.
—Non sta a me fare il boia. Il mio solo e unico compito è quello di portarti al cospetto del tuo giudice finale. E che possa avere pietà di te.
Il suo volto andò in frantumi. La pallottola d’argento del mio revolver gli attraversò la fronte ancora prima che lo scoppio del colpo mi rimbombasse nel petto. D’impulso, avevo dato il colpo di grazia a qualcosa che, secondo molti, avrebbe meritato di essere guardato mentre soffriva e si spegneva lentamente. La luce che proveniva dall’interno svanì all’istante e una grossa nuvola di denso fumo nero si levò dal cratere macellato della sua testa.
La vista era orribile. Ero senza parole. Subito tornai a pensare e ciò che non avevo pensato per tutto il tempo del duello si riversò nel mio cranio tutto insieme. Come potevo aver brutalmente ucciso una creatura e spacciarlo per "fare del bene"?
Mi allontanai dal corpo, che si polverizzò e collassò su sé stesso per poi scomparire. Non potevo farmi vedere così. Le gambe mi abbandonarono, e rimasi in ginocchio per qualche secondo. Ero il caposquadra, cazzo, il tenente Mattei. Mi tornò in mente l’immagine del viso sfondato, troppo simile a un volto umano.
Stavo per vomitare.
Sam arrivò subito verso di me, con una pacca sulla spalla.
—Sei ferito, Edo?
—No…
—Cristo, sei il numero uno. L'hai fatto fuori come se fossi uscito da un film western!
—Ma…
—Coraggio. Hai salvato tante vite. Cos'è un po' di violenza se puoi evitarne una quantità dieci, venti, cinquanta volte maggiore? Guarda loro!
Ci fermammo a guardare, quasi ipnotizzati, Delverde mentre con la grazia di una ballerina classica tagliava la testa all'ultimo demone, con Cecchini al suo fianco mentre affondava la lama dritta nel cuore di quello.
—Mi… Mi è arrivato un messaggio da padre Stefano…
Sam si girò a guardarmi: —Cosa dice?
—Il portale… Si è chiuso.
—Visto? Sei stato un grande. Non prenderla a male, sei solo molto stanco.
—Già…— Annuii —…Dovevo solo entrare nell'ottica. —